Forse da piccolo avevi un amico immaginario anche tu. Qualcuno che soltanto tu potevi vedere, che ti ha consigliato e tenuto compagnia mentre crescevi. Potrebbe essere stato un coniglio alto tre metri, o una creatura marrone mastodontica e pelosa, o qualcuno di nome Tony che ti parlava attraverso un dito. O forse, se ti chiami Jojo Betzler (Roman Griffin Davis) e sei un bambino di 10 anni che vive a Vienna alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il tuo migliore amico immaginario è un pittore austriaco fallito e radicalizzato, che è stato nominato cancelliere tedesco, ha invaso buona parte dell’Europa ed è tutt’ora sinonimo del male che gli uomini sono in grado di fare. Sapete a chi mi riferisco.
Jojo Rabbit viene definita la “commedia hitleriana di Taika Waititi” sin da quando è stato annunciato il progetto. Dal momento in cui lo sceneggiatore e regista neozelandese si presenta come il Führer, fa un discorso di incoraggiamento al ragazzo e lo trascina fuori di casa sulle note di I Wanna Hold Your Hand dei Beatles (in tedesco, naturalmente), questo film già divisivo annuncia la sua dichiarazione di irriverenza a caratteri cubitali. Scompiglierà tutta l’iconografia storica. Perché dare al mondo un Dio del Tuono idiota è una cosa, far sembrare esilaranti un seminatore d’odio e un ragazzino che fa il saluto nazista mentre saltellano per le strade è un’altra. E a pochi minuti all’inizio cercherete già di soffocare le risatine.
Il nostro giovane eroe si guadagna il soprannome di “Jojo Rabbit” dopo aver rifiutato di spezzare il collo a un coniglio durante un weekend di training della gioventù hitleriana. Nessun atteggiamento machista da parte del Capitano Klenzendorf (Sam Rockwell), un ufficiale ferito riassegnato alla preparazione della carne da macello del futuro, e nessuno stimolo dalla mamma chioccia del campo, Fräulein Rahm (Rebel Wilson), riescono a trasformare il ragazzino in una macchina assassina per la madrepatria. Dopo un tentativo di dimostrare le sue potenzialità da Superuomo che lo lascia leggermente sfigurato, sua madre (Scarlett Johansson) gli concede finalmente una tregua da tutto quel fanatismo. Un giorno, mentre lei è fuori casa, Jojo sente un rumore al piano di sopra. È Elsa (Thomasin McKenzie di Senza lasciare traccia), una giovane donna ebrea che si nasconde nella loro soffitta. Si tratta semplicemente di una ragazza – niente corna, niente zanne, niente che caratterizzi quelle persone che Jojo è stato istruito a disprezzare. E la questione gli causa un gran casino in testa, una complicazione che fa incazzare parecchio il suo migliore amico immaginario Adolf H.
L’idea dell’Uomo Nero della Storia come amico di finzione non stava già nel romanzo di partenza, Chasing Skies di Christine Leunens del 2008, ma è un elemento che Waititi introduce nel film. Eppure è un’aggiunta importante alla narrazione, anche perché parliamo di un genere che rischia di scadere facilmente nella farsa. Si continueranno comunque a produrre drama efficaci sulla Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di coloro che hanno sofferto un orrore impensabile. È solo che la familiarità eccessiva non ha generato disprezzo, quanto piuttosto un forte senso di artificiosità in questo particolare filone narrativo. Un’opera cupa ed egoistica su ciò che è accaduto in Europa negli anni ’30 e ’40 – gli esempi sono ovvi, e ce ne sono a non finire – corre il rischio di ridurre la tragedia della vita reale a una serie di luoghi comuni. Non bisogna dubitare delle buone intenzioni di chi racconta queste storie. Ma a volte sembra che alcuni prodotti si impegnino a spuntare una serie di voci dalla lista con l’obiettivo di far commuovere il pubblico e convincere i membri dell’Academy.
E sono già parecchi quelli che hanno accusato Jojo Rabbit di essere solo questo, soprattutto dopo l’accelerata della seconda parte di film. Capirete perché alcuni accuseranno il personaggio della Johansson di essere una mamma dei sogni psicopatica, oppure come mai un movimento di macchina abbia sconvolto il pubblico della prima. In pratica, non è facile alternare umorismo nero e sensibilità.
Ma è proprio questa combinazione a far funzionare le due parti del film. Il petulante “Shitler” di Waititi, i ragazzini che inavvertitamente fanno saltare in aria i muri con dei bazooka, il ridicolo militare di Rockwell e il rettiliano di Stephen Merchant vi scaraventeranno fuori dalla vostra comfort zone. È scioccante, oggi, che qualcuno cerchi di farci ridere con materiale così esagerato. E proprio quando il film vi ricorderà cosa succede nel mondo di Jojo, vi ritroverete sconvolti dalla gravità della situazione. (Nel frattempo, Davis regala una delle performance più impressionanti mai portate sullo schermo da un bambino-attore; i suoi tempi comici sono straordinari tanto quanto le scene più emotivamente impegnative). Questa non è, come qualcuno ha detto, la stessa melassa di sempre trasformata in slapstick comedy girata alla Wes Anderson. Con questo film, Taika Waititi cammina su una linea molto sottile. È la commedia su Hitler che è nato per girare.
Non è la prima volta che un autore trova orizzonti comici nei periodi più oscuri della nostra storia; non è nemmeno la prima volta che qualcuno prova a conciliare questo tipo di ironia con scene più toccanti. Tuttavia, guardando Jojo vi verrà continuamente in mente The Producers di Mel Brooks, il film capace di trasformare l’audacia dell’ironia sul Reich nell’esempio definitivo di cattivo gusto. Jojo Rabbit fa di quel cattivo gusto un simbolo di qualcos’altro: il prodotto dell’autocompiacimento narrativo. «Dobbiamo trovare modi diversi e innovativi per raccontare questa storia», ha detto il regista dopo la premiére.
Non tutti apprezzeranno il tentativo di Waititi di rinfrescare il modo in cui raccontiamo un momento storico che potrebbe presto ripetersi. Ma non dimenticherete mai quello che vuole raccontare perché nessuno lo farà nello stesso modo.