È considerato l’enfant prodige della pittura spagnola, definito dalla critica “l’uomo moderno del passato” e una delle sue tele recentemente è stata acquistata da Michael Douglas. Ma dopo oltre dieci anni in giro per il mondo fra Parigi e New York, il 32enne Carlos Prieto ha capito che solo un luogo avrebbe potuto consacrarlo definitivamente: Roma. E così ha abbandonato tutto, dalla famiglia all’enorme atelier a Palma de Maiorca, fino a un amore che forse non ha sopportato il peso di convivere con una vocazione così totalizzante. Da un anno è ospite di un’altolocata famiglia capitolina e si destreggia fra due stanzette al pian terreno di un villone a Monteverde Vecchio che sembra uscito dal set de La grande bellezza, proprio in cima al Gianicolo a poche centinaia di metri dalla terrazza più suggestiva della Capitale.
In uno dei questi locali – straripante di tele, pennelli, colori, quadri conclusi o in stand by – lavora senza sosta. Nell’altra dorme. Pochissima, o quasi nulla, la vita sociale. A differenze di Jep Gambardella, evidentemente, non voleva perdersi nel “vortice della mondanità”. Uniche evasioni, le lezioni mattutine di italiano e le camminate infinite e solitarie a caccia di ispirazione in quella che considera “la città più bella del mondo”.
È qui che lo incontro, in una delle rare pause. Perché ormai manca pochissimo e l’ansia cresce con l’avvicinarsi del momento che attende da 12 mesi. È infatti prevista per il 4 e 5 ottobre la doppia inaugurazione della sua personale, interamente creata fra queste quattro mura dopo aver carpito quanto più possibile dai grandi maestri del passato il cui segno indelebile si può incontrare in ogni vicolo, piazza, chiesa o museo dell’Urbe.
Il “pintor” maiorchino non è a Roma grazie a qualche critico o attirato da una buona commissione. Anzi, ci tiene a mantenere le distanze con le cricche che solitamente muovono i fili del mondo dell’arte – che definisce senza giri di parole “una mafia” – e non è certo il denaro che lo ha spinto a un cambio così radicale. Ma solamente la voglia di mettersi in gioco. “Oggi i pittori vivono in guerra, soprattutto i romantici fedeli al genere figurativo che difendono il concetto più aulico di bellezza. Sono stanco di tante truffe nelle esposizioni e nelle gallerie d’arte, mi mancano le mostre con odore di vernice e trementina. Sono convinto che le mode siano passeggere, mentre i classici restino senza tempo, riecheggiando di maestosa eternità”.
Nei suoi quadri sono spesso protagoniste le donne e così a un certo punto gli chiedo se fosse costretto a scegliere, a cosa rinuncerebbe: all’amore o alla pittura? Strabuzza gli occhi, un lungo respiro e una pausa infinita. Poi risponde senza indugio. La sua scelta definisce l’uomo e l’artista Carlos Prieto ma è inutile anticiparla, perché anche il pubblico ha il suo ruolo in questo spietato gioco tra informazione e arte. A ognuno la propria parte di responsabilità.
Chi è oggi Carlos Prieto?
È un po’ strano definirmi in questo momento, perché sto vivendo un periodo molto particolare. Ho deciso di venire a Roma per uscire dalla classica zona di comfort. Mi mancava la solitudine del pittore. Sono convinto che la ricerca della bellezza dovrebbe essere l’unica ragione per cui qualcuno prende in mano un pennello e decide di creare un’opera d’arte. Unita alla paura, altro stato d’animo fondamentale e che ci permette di tradurre il nostro dolore e la nostra sofferenza in un dipinto. Solo così un’opera può aspirare a contenere la memoria degli uomini per l’eternità.
L’immagine della tua adolescenza che fisseresti su tela?
Il primo ricordo forte è di quando avevo 15 anni e ho lasciato la famiglia per la prima volta per andare al Liceo. Ho scelto l’Artistico per sfuggire alla matematica. A quell’età non avevo particolari ambizioni. Infatti, mia madre continuava a chiedermi: “Perché una scelta del genere se non sai niente in quel campo?”. E io le rispondevo: “Per non fare matematica”. Sono un pittore per fortuna. Dopo questa scelta il resto è arrivato di conseguenza.
Quindi, prima dei 15 anni non avevi mostrato particolare talento nel disegno?
No. È vero che sono cresciuto in una casa piena di quadri. Mio padre è giornalista, mia madre scrittrice di libri erotici. Mi hanno sempre parlato di arte, però ero rimasto fuori da questo mondo per molto tempo. Forse quando ho iniziato a dipingere ho tradotto sulla tela tutte queste influenze.
Il tuo primo disegno degno di nota?
A Parigi, avevo 18 anni. Ho vissuto là un anno. Stavo prendendo un caffè e mentre parlavo con amici mi è venuto naturale iniziare un piccolo disegno a biro sul tovagliolo di carta. A un certo punto, il cameriere mi ha detto: “Se me lo lasci non ti faccio pagare il caffè”. Ho fatto anche una foto per ricordarmi del momento. Parigi è stata fondamentale per la mia formazione.
Come mai?
Perché quando sono stato a Parigi, il non parlare la lingua, la solitudine, le difficoltà di entrare in una nuova cultura, mi hanno spinto a diventare un vero pittore. Finché non incontri delle resistenze non capisci se quel che stai facendo è buono o cattivo. E Parigi mi ha dato la forza e la sicurezza di diventare un professionista. Ho iniziato a vedere come si deve comportare un pittore. E cioè lasciare tutto per seguire la sua ispirazione. Ho dimenticato il passato per rinnovarmi.
A parte la pittura, eri un buono studente?
Ho sempre fatto la cosa giusta. Gli insegnanti non hanno mai chiamato i miei genitori per riprendermi sul comportamento. Ho avuto una buona educazione in famiglia. Studiavo per prendere il 6 e non aspiravo al 10. Ero sensibile, questo sì, infatti empatizzavo molto con i miei coetanei.
Fino a una sera, in cui un noto pittore spagnolo ha esclamato una frase emblematica: “Habemus pintor”.
Sì, Manolo Coronado, un pittore riconosciuto a livello internazionale. Era amico dei miei genitori e una sera dopo cena loro stavano chiacchierando, mentre io in disparte finivo un lavoro pittorico di Capodanno per il Liceo. Dopo un po’ noto che lui inizia a osservarmi e a un certo punto esclama: “Habemus pintor”. Mi ha anche chiesto quanto volessi per venderglielo. “Nulla”, gli ho risposto. Allora non pensavo che potessi guadagnare dipingendo. Alla fine, mi ha lasciato 300 euro. Guardavo i soldi con stupore. Mi sembrava inconcepibile. Non sono cresciuto come pittore, ci sono nato. Avevo dentro l’atteggiamento giusto per svolgere questo mestiere.
Hai appena venduto un’opera a Michael Douglas, non capita tutti i giorni. Qual è il tuo rapporto con il denaro?
Sono uno spendaccione, non riesco a risparmiare. Ma non sono uno che li butta in vizi. Niente droga, orologi o auto di lusso. I soldi in tasca mi bruciano, compro di tutto ma più che altro per curiosità. Ricordo di quando avevo 17-18 anni e qualche soldo in tasca a differenza dei miei coetanei che non ne avevano. E così, spesso, invitavo tutti ad andare a mangiare e offrivo io. Mi piace condividere con i miei amici. Ma non ho mai fatto particolari pazzie. Quando ho guadagnano i primi soldi mi faceva piacere metterli sul letto di mia mamma e fargli vedere quel che avevo raggiunto con il mio lavoro. È una fortuna che i genitori ti sostengano in quelle che sono le tue passioni.
In tanti ci provano, in pochissimi riescono a diventare pittori riconosciuti. Che periodo storico sta vivendo questa forma d’arte?
Sono convinto che i pittori stiano vivendo un periodo di guerra. Siamo come gli americani durante lo sbarco in Normandia, dobbiamo attraversare la spiaggia senza finire ammazzati. In particolare, i pittori classici che devono adattarsi alle tante trasformazioni che hanno intorno. Mi capita sempre più spesso di entrare in una galleria d’arte e non capire quello che vedo. Siamo in attesa che succeda qualcosa, un ritorno al romanticismo o al rinascimento. È un momento difficile, per quelli come me che si ostinano a utilizzare gli strumenti tradizionali come un cavalletto, i pennelli, i colori e le luci.
Non mi sembra che tu abbia un buon rapporto con l’arte contemporanea.
A me piacciono tutti i tipi di arte, ma ci deve essere stile. Quando ce l’hai puoi fare quel che vuoi, anche se non sai dipingere. Mi fa arrabbiare chi vive di questo lavoro approfittandosi dello status di pittore ma senza avere nessun talento. Non sono nato con l’invidia, infatti amo vedere un giovane che dipinge meglio di me e prendere anche da lui qualcosa per crescere. C’è invece qualcuno in questo settore che si comporta come se per lavorare si dovesse far parte di una mafia: se stai con me diventerai famoso, se non stai con me no. Mi fa paura che il talento sia posto in secondo piano. Domani potrebbe spuntare Caravaggio e non riuscirebbe a emergere senza un buon critico che lo sostiene. Forse è la prima volta nella storia in cui puoi dipingere come un Dio e morire senza un soldo.
E quindi come si deve comportare un “pittore in guerra”?
La situazione che stiamo vivendo può essere paragonabile a quella descritta nel film Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. Noi pittori dobbiamo attraversare una zona di guerra e cercare di sfuggire ai cecchini, che spesso sono gli stessi critici d’arte che dicono “questo sì e questo no” solo se sei amico loro o meno. Bisogna resistere.
Per un pittore è necessaria anche l’ambizione di voler rimanere nella storia?
Quando avevo 18 anni credevo di essere il nuovo Picasso. Prendevo il pennello e mi sentivo un grandissimo. Ma perché non conoscevo moltissime cose. Certo, devi dipingere come se lo fossi il migliore del mondo, ma nel tempo ti confronti con chi è venuto prima di te. Mi piacerebbe rimanere nella storia, chiaramente, anche se ad oggi non penso di aver ancora trovato la giusta quadratura del cerchio. Ma tra vent’anni raggiungerò l’obiettivo. È un processo lento ma che sento inesorabile.
Qual è il tuo rapporto con il successo?
Penso sia sbagliato dipingere per far piacere agli altri e non a te stesso. Se aspetti che il tuo ambiente dica che sei bravo sei sulla via sbagliata, ti perderai nel mondo dell’arte. Sono uscito da Palma de Maiorca, dove avevo un atelier di 200 metri quadri, mi sono lasciato con la mia fidanzata e ho sentito che era ora di cambiare, per ritrovare anche dei problemi, nuovi contatti, visto che la mia pittura era diventata stanca e avevo bisogno di ricercare nuova bellezza. Ora sono qui in una camera di 20 metri quadri con 30 tele e ci stiamo a mala pena noi due. Però è la scelta giusta.
Quali sono i pittori del passato che più ti hanno ispirato?
Soprattutto due, che sono per me come dei genitori in pittura. Lucian Freud, nipote di Sigmund. Quando è morto ho reinterpretato una sua opera che si trova proprio qui nel mio studio romano. Ma per me il pittore speciale, che non saprei come definirlo perché d’altronde la stessa storia dell’arte non sa dove collocarlo, è Francis Bacon. È qualcosa di indescrivibile. È quello a cui tutti i pittori aspirano, anche se non lo ammettono.
Tu invece dalla critica sei stato definito “l’uomo moderno del passato”.
È una definizione carina. Almeno non mi hanno dato dello stronzo (ride). Sto dipingendo come se fossi nel secolo scorso. Nella mia testa è quella l’immaginazione. Nell’ultimo anno, però, ho cercato anche nuove influenze. Dopo una mostra a Miami alcuni critici mi hanno detto: “Sono lavori importanti, ma in questo periodo in America non si vendono”. Poi è arrivato Michael Douglas e ha acquistato una mia opera (sorride). Comunque, mi sto leggermente trasformando mantenendo sempre lo stesso stile. È un periodo un po’ strano, però sto imparando tanto da Roma, dall’Italia e dalla loro bellezza.
Hai vissuto un anno anche a New York. Di solito è quella la meta di ogni ambizione, come mai hai deciso di andartene?
Là ho capito solo che ero un romantico e la modernità non è la mia forma di pittura. New York è una solitudine di cemento. La vita va molto veloce, la città è bellissima, ma non mi sentivo bene. Mi ha dato però la conferma di essere un pittore romantico, di inizio ‘900, tra Parigi e Vienna. Qui a Roma sono arrivato per confermare tutto ciò. Devo solo dipingere, l’unica cosa che so fare bene.
Ormai ci siamo, il 4 e 5 di ottobre svelerai al pubblico e alla critica la tua nuova personale. Come la definiresti?
La mia marcia verso Roma, come un grido in silenzio per ritrovarmi come pittore e come persona, morire per rinascere. Il mio Rinascimento è a Roma. È quasi un anno che sono qui e continuo a camminare per le strade, le vie, le piazze, le chiese e i musei e devo dire di non essermi ancora abituato a tanta bellezza. Mi manca moltissimo Maiorca, che è la mia casa, ma penso che la città più bella del mondo sia Roma. Parigi è la mia fidanzata, Roma è il mio cuore. Mi ha aiutato molto imparare l’italiano e capire come vivevano Bernini e Michelangelo quando producevano i loro capolavori. Non capisco come facciano gli italiani ad andare in vacanza all’esterno, quando nel loro paese hanno tanto da vedere. È un paese speciale e vorrei rimanere ancora a lungo.
Un quadro che avresti voluto dipingere tu?
Moltissimi. Quando vedo un quadro che mi piace mi immagino di averlo dipinto io. Forse la produzione di Picasso dell’epoca blu, che è più vicina al mio modo di intendere le forme. Ma è sempre necessario sovrapporre le figure all’interpretazione del pittore, alla sua sensibilità. È come un ritratto di un sentimento, che esce da dentro. So di non avere una tecnica perfetta, visto che sono autodidatta. Oggi ci sono ragazzi di 15-16 anni con tecnica migliore. Però prendo spunto da tutto, anche dal dialogo che stiamo facendo ora, per le mie opere. Pur non avendo una tecnica didattica, sono in grado di far arrivare alle persone delle emozioni.
Nei tuoi quadri sono spesso protagoniste le donne. Che cos’è per te l’amore?
È il senso di tutto. Siamo qui per amore o alla ricerca costante di esso. È molto vicino al raggiungimento della felicità, nonostante sia effimera. Ne senti solo il ricordo, una volta che è passata. Difficile capirla quando la vivi. La bellezza e l’amore parlano lo stesso linguaggio.
Se fossi costretto a decidere, cosa sceglieresti: la pittura o l’amore?
La pittura! Perché posso compensare l’amore grazie ad essa. Attraverso l’amore non credo ci riuscirei. Solo un pittore può capire quali sensazioni si provano mentre ci troviamo davanti a un quadro. Le emozioni che proviamo. Se non sei pittore non puoi comprendere. Ti sembra di levitare, una sensazione imparagonabile. “Ningún corazón de mujer te lo puede dar”. Il pittore, fondamentalmente, è un grande egoista e mette in cima l’arte rispetto al resto. Per questo è molto difficile essere un pittore.
Se un giorno avessi un figlio, saresti contento che seguisse la tua strada?
Se in futuro mio figlio mi dicesse che ha deciso di fare il pittore ne soffrirei, perché è un mestiere molto difficile. Bisogna abituarsi ad avere l’acqua alla gola e a viverlo con un atteggiamento totalizzante. Puoi essere un pittore a livello commerciale e rispondere a qualche sconosciuto che ha bisogno di quadri d’arredamento, però a un certo punto non riuscirai a non essere sincero. Si può dipingere un quadro su commissione, ma è molto difficile rimanere onesti per l’intera produzione. Puoi ingannarti per un periodo, non per tutta la vita.
Che musica ascolti?
Mi piace di tutto, come in pittura basta che abbia stile. Dal rap alla musica classica. Però Mozart non posso ascoltarlo più di un’ora perché sennò mi scombussola. Attualmente ascolto molto Max Richter o Ludovico Einaudi. Credo che tra 200 anni saranno considerati come noi oggi consideriamo Mozart. Sono sulla stessa strada e abbiamo la fortuna di vivere nella loro epoca.
Quanto contano per il tuo lavoro i social?
Sono fondamentali, però non bisogna cadere nell’inganno dei filtri. Sennò è come quando vedi una ragazza su Instagram e poi dal vivo non la riconosci. Lo stesso per la pittura. Su internet possono colpirti un quadro o una foto grazie a espedienti digitali, ma poi dal vivo perdere qualsiasi fascino. Questo abuso fa svanire ogni romanticismo.
Cosa ti fa arrabbiare, invece, a livello personale?
La falsità. Credo di avere la capacità di capire quando qualcuno mi sta mentendo. Preferisco che mi dicano le cose in faccia anche duramente, invece che dietro alle spalle. La lealtà è la cosa più importante per me. Si può sbagliare ma la sincerità è fondamentale.
Ci troviamo nella Città eterna. Per caso anche la spiritualità ha influito sulle opere che vedremo nella tua personale romana?
Certamente. Perché sono cristiano e credente. Credo in Dio, nel mio Dio. Penso che sia importante credere, ti fa stare meglio con te stesso. Ho rispetto anche per le altre religioni, però sono cristiano e non mi sono mai sentito così vicino alla mia nonna scomparsa come a Roma. È una sensazione che mi ha dato solo questa città.
A 32 anni forse stai cercando di scrollarti di dosso anche la definizione di “enfant prodige”. Qual è il tuo rapporto con il tempo?
I pittori hanno sempre una grandissima paura della morte. Ci pensiamo sempre. Compreso io. Perché è l’unica sicurezza della vita. È l’altro “amore” dei pittori. Ma l’unica cosa di cui ci dobbiamo preoccupare davvero è la salute. Per il resto ci curiamo dipingendo.
Se potessi decidere, come ti piacerebbe morire?
Già poter scegliere l’età sarebbe una buona notizia. Ma soprattutto vorrei lasciare la mia famiglia con quello che avevo intenzione di realizzare. Credo avrei bisogno di almeno due secoli per dipingere tutto quello che ho in testa. Spero di morire in maniera degna, almeno dopo i 100 anni.