Nell’ottobre del 2013, Città di Castello rese omaggio al fumettista Andrea Pazienza con la mostra più completa a lui dedicata. Per chiudere la manifestazione venne scelto Roberto Freak Antoni, una delle massime voci della controcultura della fine degli anni ’70, cantante degli Skiantos, grande amico di Paz. La malattia non ne aveva piegato lo spirito. In quell’occasione iniziai un’intervista che Freak definì «a rate» e che si sarebbe conclusa quasi due mesi dopo a Bologna. Si sarebbe rivelata una delle ultime della sua vita. Nel quarantesimo anniversario di Kinotto, l’album degli Skiantos che più di tutti riuscì a condensarne l’essenza e che, grazie a pezzi come Mi piaccion le sbarbine e Gelati, fu in grado di superare i confini bolognesi, ci è sembrato giusto pubblicare per la prima volta quella chiacchierata, augurandoci che lo spirito dissacrante di Freak possa ancora illuminare il nostro cammino di “pubblico di merda”.
Sei stato parte attiva del Movimento del ’77, uno dei periodi più creativi del nostro paese.
Il Movimento aveva a che fare con la creatività e l’arte, eppure venne colpevolizzato. Niente di più falso. Negli anni di piombo guerriglia urbana e insurrezione armata che apparteneva a pochi gruppuscoli politicizzati. La stragrande maggioranza di chi partecipò attivamente al Movimento non aveva voglia di passare il resto della vita in clandestinità, né appoggiava quell’esigua minoranza che rischiava peraltro di essere isolata e manovrata.
Mi stai quindi dicendo che il lato politico era semplicemente uno dei filoni, non il principale?
Ma certo! Solo che permetteva di marchiarci a fuoco come terroristi. Quando iniziò la lotta armata fu semplicissimo annientare i valori di cui eravamo portatori. Di quegli anni preferisco ricordare chi si occupava di teatro, di cinema, di ricerca di nuovi linguaggi, come provavamo a fare noi Skiantos. Ci interessavano la nascita delle radio autogestite, le rivendicazioni femministe, il lato ludico della faccenda. Volevamo crearci una vita alternativa rispetto al grigiore imperante del pensiero piccolo borghese.
E perché ancora oggi i due aspetti non sono separati?
Perché è comodo così. E poi, quel periodo coincise con la grande diffusione dell’eroina. Ogni famiglia ha avuto almeno un figlio, un parente o un conoscente travolto da quella tragedia, ma un tema che toccava migliaia di famiglie è stato sfruttato per reprimere qualsiasi forma di espressione. L’artista è diventato l’emblema del tossico che vuole passare la vita senza far nulla. Ci hanno ghettizzati e hanno vinto. Non ti parlo di me, ma pensa a gente come Pazienza: come si fa a parlarne senza nominare l’eroina, che fu una componente fondamentale della sua vita artistica e della sua vita in generale? Quando girammo Paz!, in cui avevo una piccolissima parte, chiesi al regista Renato De Maria come fosse possibile che in un film su Andrea si parlasse di ragazzi che avevano problemi con le canne. Lui mi disse molto mestamente che se avesse parlato di eroina non avrebbe trovato i fondi per portare a termine le riprese. Andrea era un genio, ma soprattutto una persona dalla sensibilità debordante. Pensava che andarsene da Bologna volesse dire anche chiudere con la droga, ma in questo fu molto ingenuo. È facile giudicare una persona per le proprie debolezze. Anni fa ho provato a entrare nel mondo dei fumetti con la serie Freak che, come tutte le cose cui ho messo mano, si è rivelata una catastrofe assoluta.
Trentacinque anni fa usciva Kinotto che è, col debutto di pochi anni prima, l’album manifesto dello Skiantos-pensiero. Visto che parliamo di dipendenza, credo che Gelati sia una delle canzoni più belle scritte sull’argomento.
Molti credono che Gelati parli di dipendenza da eroina, ma è così solo in parte. In realtà, i gelati rappresentano tutte le cose che ci piacciono di più e che, come sai, molto spesso sono quelle che costano di più. Il registro grottesco e tragicomico dà un sapore agrodolce al pezzo. Non era una cosa alla Lou Reed. Poi, sai, io stesso ho ricercato gelati per gran parte della vita. L’unica cosa buona della malattia è che ho smesso di bucarmi. In qualche modo avevo trovato un equilibrio, ho sempre avuto affetti e non ha pregiudicato la mia esistenza, ma era sempre lì ad aspettarmi.
Rispetto a Monotono, Kinotto era come l’album di una band che aveva imparato a suonare e che tentava addirittura di partecipare a Sanremo. Non temevi le reazioni dell’ala strettamente punk del vostro pubblico?
Ai tempi tutto veniva vissuto con estrema partecipazione, che talvolta si trasformava in ottusità. La gente mi diceva: ma come, hai scritto il verso “come fanno i rematori quando voglion fare cori che profumano di fiori” e poi vai a Sanremo? La cosa creò problemi anche all’interno del gruppo, dal quale infatti mi separai per un po’. Nessuno capiva che rimanere sulla stessa linea di pensiero era un limite. Io ho sempre adorato i Beatles, ma tutti continuano a pensare a me come a un vecchio punk. Anche questa cosa dell’essere più genuino se non sai suonare non l’ho mai capita. Mi piace uno come John Lydon che un anno prima cantava su Never Mind The Bollocks e quello dopo creava la new wave con i PIL.
Venendo a oggi, la sensazione è che il tuo progetto IroniKontemporaneo e la Freak Antoni Band mantengano un fortissimo filo diretto con le tue origini. Recitare lettere in cui Mozart racconta di quante volte andava in bagno è estremo quanto gli Skiantos dell’epoca.
Assolutamente sì, per certi versi anche più estremo. Dopo trentacinque anni di Skiantos credo fosse legittimo voler fare altro, sentirmi meno legato a uno schema che forse aveva dato più di quel che poteva. Detto ciò, la mia natura rimane sempre la stessa. Qualcuno ha ironizzato, dicendo che Freak Antoni si è dato alla musica colta, come se avesse ancora senso parlare di musica colta e musica per il popolino. D’altra parte, se pensi che molti continuano a pensare a me come un punk incallito capisci che le persone faticano a liberarsi delle etichette. Hanno bisogno di certezze, di sicurezze che io non mi sento di dare.
Con l’uscita di Però quasi, il brano con Luca Carboni, si è tornati a parlare del tuo rapporto di odio e amore con il Festival di Sanremo. Credi riusciremo a vederti prima o poi all’Ariston?
Onestamente, credo di no. Però quasi nasce dal tentativo definitivo di portare un mio brano al Festival. Ho pensato che la presenza di Morandi come direttore artistico fosse un segno, ma come sai i miei progetti sono destinati da sempre all’insuccesso. Gianni mi disse che mi avrebbe selezionato, ma solo se avessi portato con me un big, qualcuno che potesse darmi visibilità mediatica. Elio si è mostrato disponibile, ma è sparito nel nulla, così come molti altri. Gli unici a sostenermi sono stati Carboni e Biagio Antonacci, che però non si sentivano adatti per quel palco. E allora un giorno chiamai Morandi dicendogli: se vuoi posso venire con Dio. È anche così che è nata Porto dio.