Un gruppo di ventenni occupa un magazzino abbandonato del centro e lo trasforma in uno squat per protestare contro il caro affitti. Tra gli occupanti ci sono un musicista fallito, un aspirante regista, una stripper eroinomane, un ricercatore universitario anarchico che si innamora di una transessuale sieropositiva e una militante femminista che da poco si è scoperta lesbica. Non è il riassunto di una vicenda di cronaca, non è un documentario, non è un film indipendente: è la trama di uno dei musical americani più famosi, mainstream e premiati, Rent. E non è neanche un’opera recente. Messo in scena per la prima volta nel 1994, approdò a Broadway nel 1996, diventando con gli anni uno degli spettacoli più longevi mai messi in scena a New York.
Dalle nostre parti, la stragrande maggioranza delle persone percepisce i musical come spettacoli per famiglie, spesso stucchevoli e banali, ma come insegna l’esempio di Rent, è una percezione assolutamente errata. A traviarci, probabilmente, è stato il cinema: tendiamo ad associare i musical a quei film anni ’50 dalla trama debole e pretestuosa, in cui all’improvviso i personaggi cominciano a cantare senza una ragione apparente, o ai film Disney pensati per un pubblico di bambini. Sui palchi americani, però, la percentuale di spettacoli sperimentali e controversi supera da sempre e di gran lunga quella che ci immaginiamo, basti pensare a produzioni come Jesus Christ Superstar o Hair.
Il primo, quando uscì nel 1970, fu considerato blasfemo sia dai cristiani (ritenevano che Giuda attirasse troppe simpatie, e inoltre erano indignati perché la resurrezione di Gesù non era menzionata), sia dagli ebrei (i cattivi della storia, in effetti), e fu bandito in molti Paesi. Al secondo, nel cui allestimento originale abbondano le scene di nudo e i riferimenti alla droga, andò anche peggio: oltre a beccarsi una serie infinita di picchetti da parte di gruppi religiosi, finì al centro di un processo per vilipendio alla bandiera e atti osceni in luogo pubblico, e nel 1971 una delle sue repliche fu perfino oggetto di un attentato dinamitardo, per fortuna senza vittime. E che dire di The Rocky Horror Show, che nel 1975 fu bollato da molti critici come una pièce “per omosessuali” a causa della sessualità fluida del personaggio di Frank-N-Furter? Là dove il cinema ancora non osava, insomma, il musical osava eccome, e fin da tempi non sospetti.
Nel nuovo millennio è difficile dare una definizione chiara e univoca della parola “osare”, in effetti, perché la sensazione è che tutto sia stato già visto, tentato, sdoganato. Nonostante questo, però, il musical resta comunque una delle grandi avanguardie sperimentali del mondo dell’entertainment americano, nella forma e nei contenuti. La febbre di Hamilton lo ha ampiamente dimostrato. La trama di per sé non sarebbe rivoluzionaria, perché altro non è che la ricostruzione della vita di Alexander Hamilton, patriota americano vissuto nel diciottesimo secolo. A renderlo tutt’altro che banale sono la scelte dell’autore, Lin-Manuel Miranda, che non solo ha fatto impersonare figure come George Washington o Thomas Jefferson ad attori neri, asiatici o latini per lanciare un messaggio pro-immigrazione e antirazzista, ma ha anche scelto di usare la musica hip hop per farli esprimere, per sottolineare quanto siano attuali i temi di cui si discuteva trecento anni fa. Benedetto da un incredibile successo di pubblico e critica, e da un rarissimo premio Pulitzer per la drammaturgia, Hamilton è senz’altro lo spettacolo teatrale di più grande successo degli ultimi vent’anni.
Oggi, forte del suo trionfo, Lin-Manuel Miranda può permettersi di lanciare una follia come Freestyle Love Supreme, pièce in cui gli attori e i cantanti, provenienti dalla scena hip hop, sono tutti freestyler. In sostanza, la trama è ridotta all’osso (e molto misteriosa, visto che per desiderio dell’autore non è mai stata svelata) e tutto il resto è pura improvvisazione: ogni canzone, ogni strofa rappata e ogni dialogo sono improvvisati sul momento, anche in base ai suggerimenti e alle richieste che arrivano dal pubblico. È uno show talmente interattivo e a sorpresa che è obbligatorio chiudere il cellulare in una custodia di sicurezza, un po’ per evitare di distrarsi, un po’ per non svelare troppo ai futuri spettatori. Che, non a caso, stanno accorrendo a frotte.
Nell’odierna New York, anche i fan dell’alternative rock possono recarsi serenamente a teatro senza paura di rimanere delusi. Una delle produzioni più attese della nuova stagione è quella di Cyrano, che debutta proprio in questi giorni. La storia, la conosciamo tutti, è quella di un uomo bruttino ma arguto e romantico, che si presta a suggerire a un uomo ben più affascinante ma molto meno brillante le parole adatte a conquistare la bellissima Roxanne. La novità è che a interpretare Cyrano c’è Peter Dinklage, il Tyrion Lannister di Game of Thrones, e che le canzoni sono firmate dai National. Lo spettacolo debutta Off Broadway, ovvero al di fuori del leggendario circuito dei teatri e delle celebrità, ma non c’è dubbio che vi approderà ben presto, dato il livello che promette di essere altissimo. Anche perché la regista e sceneggiatrice è Erica Schmidt, la moglie di Dinklage, già famosa per un innovativo adattamento del Macbeth di Shakespeare in cui tutti i personaggi sono donne.
Sempre sul versante Off Broadway c’è un altro spettacolo che sta spopolando nelle notti newyorkesi: la serie The Imbible, costituita da diversi brevi musical comici, spesso itineranti, a tema alcolico. Si va da A Spirited History of Drinking, che ripercorre tra canzoni originali e dialoghi umoristici il ruolo dell’alcol nella storia dell’umanità, a Day Drinking: the Brunch Musical, che celebra la meraviglia di essere brilli in pieno giorno. Ogni spettatore viene fornito di tre free drink a tema da sorseggiare in platea, per la gioia di grandi e piccini (o meglio, non proprio, perché gli show sono ovviamente vietati agli under 21). Il filone goliardico e comico, paradossalmente, è preso molto sul serio da quelle parti, e spesso produce spettacoli che per una ragione o per l’altra, nonostante la loro natura ilare, sono off limits per i minorenni.
Tra questi c’è sicuramente il clamoroso successo Naked Boys Singing!, attualmente in pausa dopo quasi sette anni di repliche consecutive. Ha debuttato nel 1999, è adorato dalla critica (e dalla comunità gay, che lo ha subito eletto tra i suoi preferiti in assoluto) e, come spiega il titolo, vede in scena otto personaggi maschili completamente nudi, impegnati in diverse scenette e canzoni incentrate su situazioni in cui capita di trovarsi con i gioielli di famiglia esposti ai quattro venti. Gli argomenti trattati vanno dall’omosessualità alla circoncisione, dal naturismo alla comparazione delle rispettive dimensioni, e perfino all’Aids, con un’ironia pungente, sottile e mai banale. Incredibilmente, per un breve periodo attorno al 2000 Naked Boys Singing! è andato in scena anche in Italia, a Roma, ma poi – come per buona parte di questi musical non buonisti e non convenzionali – non ve n’è stata più traccia. La speranza è che prima o poi qualcuno si decida a importare qualche titolo davvero innovativo. Altrimenti, c’è il serio rischio che il teatro resti un luogo frequentato soprattutto da attempate signore impellicciate e austeri intellettuali con il dolcevita nero, e soprattutto che la dittatura di Tutti insieme appassionatamente prosegua per altri cinquant’anni.