Il modo migliore per celebrare Halloween? Una raccolta di ballate vintage che raccontano di serial killer, classici noise da brividi, shock rock inquietante, tra tinte di gotico e testi lugubri. Buon ascolto e buona notte dei morti viventi con le canzoni più spaventose di sempre.
“The End” The Doors (1967)
Con una durata di quasi 12 minuti, The End è un brutto trip che sprofonda in un finale folle, un classico di rock psichedelico che molti hanno interpretato come un addio all’innocenza della gioventù, come Morrison ha lasciato intendere in molte interviste. Il brano inizia lentamente, il cantante dice addio al suo unico amico e poi si avventura in versi surreali in cui supplica l’ascoltatore di “cavalcare il serpente e l’autostrada del Re”. Nella sezione finale, invece, si racconta la storia di Edipo: il narratore confessa al padre di volerlo uccidere e dice alla madre che vuole fare sesso con lei, poi sprofonda in un vortice di “fuck”. The End fu scritta mentre i Doors lavoravano come house band al Whisky a Go Go: una sera Morrison, che aveva preso degli acidi, improvvisò quel finale così tumultuoso. Il giorno successivo, la band fu licenziata.
“Careful With That Axe, Eugene” Pink Floyd (1969)
La psichedelia degli anni ’60 si trasforma in una serie di fantasie spaventose e vortici di suoni minacciosi, echi di brutti trip che si insinuano nel subconscio dell’ascoltatore. Nella versione definitiva – registrata per Ummagumma –, Careful With That Axe, Eugune è una jam lisergica perfetta per una casa infestata. All’inizio, l’organo di Richard Wright gingilla e i piatti di Mason svolazzano, mentre sospiri in lontananza anticipano l’orrore. Poi qualcuno sussurra il titolo del brano e Roger Waters inizia a urlare come uno squilibrato. La chitarra di Gilmour si infuria, ma presto la musica torna alle atmosfere lugubri dell’inizio. Sembra che sia accaduto qualcosa di orribile e sta a noi immaginare cosa.
“D.O.A.” Bloodrock (1971)
Le meteore Bloodrock arrivarono in Top 40 con un improbabile singolo grottesco, lungo otto minuti e mezzo, che racconta la morte in prima persona. L’arrangiamento ricorda il suono di una sirena, mentre il testo racconta delle conseguenze di un incidente aereo e di un uomo assistito dai paramedici. L’uomo cerca la fidanzata, ma vede che il suo volto è ricoperto di sangue. Alla fine dice, accompagnato dal suono di una sirena, “The sheets are red and moist where I’m lying / God in Heaven, teach me how to die”. «La Commissione Federale per le Comunicazioni censurò la canzone e molte radio non la volevano trasmettere, perché la gente in macchina era convinta di essere inseguita da un’ambulanza», ha detto il tastierista Steve Hill nel 2010.
“Avalanche” Leonard Cohen (1971)
Songs of Love and Hate è probabilmente l’album più depravato di Leonard Cohen, il che la dice lunga. I racconti di suicidio (Dress Rehearsal Rag) e infedeltà (Famous Blue Raincoat) lasciano subito il segno, ma il momento più inquietante dell’LP del 1971 arriva con Avalanche. Sopra una chitarra flamenco, Cohen ritrae la figura di un gobbo che vive dentro una miniera d’oro mentre sogghigna “Your laws do not compel me / To kneel grotesque and bare”. La canzone diventa sempre più ossessiva fino a trasformarsi in puro horror (“It is your turn, beloved / It is your flesh that I wear”).
“I Love the Dead” Alice Cooper (1973)
Il maestro dello shock rock potrebbe fornire a questa classifica diverse canzoni davvero terrificanti – Dead Babies (sui bambini abbandonati), The Ballad of Dwight Fry (sulla follia di un uomo), Sick Things (su cose malate, appunto) – ma è una delle tre (!) canzoni sulla necrofilia scritte da Alice Cooper a conquistare un posto nella lista. C’è una franchezza disturbante nella versione in studio di I Love the Dead – la traccia di chiusura di Billion Dollar Babies – che trascende la satira: “While friends and lovers mourn your silly grave / I have other uses for you, darling”. Sul palco, dove funziona da preludio al classico momento con la ghigliottina, si trasforma in un brano camp. In un’intervista del 2014 per Rolling Stone, Cooper ha sminuito la portata scioccante della canzone: «Non so, se qualcuno la prende sul serio… Oggi non si può più scioccare davvero il pubblico. Certo, se mi tagliassi il braccio e iniziassi a mangiarlo, allora ci riuscirei. Ma è una cosa che si può fare solo due volte».
“Frankie Teardrop” Suicide (1977)
Alan Vega dei Suicide presenta il personaggio che dà il titolo al brano, un operaio ventenne che fatica a mantenere la famiglia. Nemmeno a metà di questo canto funebre di 10 minuti, Frankie si suicida dopo aver ucciso i membri della sua famiglia, ma la morte per lui non significa una via di fuga – “Frankie’s lying in hell”, ribadisce Vega. E dall’ondata claustrofobica cantata dai Suicide non si scappa: le urla di Vega non sono catartiche, ma piene di vergogna, come singhiozzi ripetuti all’infinito grazie al delay.
“Hamburger Lady” Throbbing Gristle (1978)
Persino i fan più feticisti del collettivo noise/art inglese Throbbing Gristle sono rimasti impressionati dall’orrore raccontato nel brano Hamburger Lady, tratto dall’album D.O.A: The Third and Final Report of Throbbing Gristle. Il testo è preso da un testamento scritto dall’artista Blaster Al Ackerman che aveva prestato servizio in Vietnam come medico nel reparto ustionati, dove si era occupato di una donna col corpo bruciato dalla vita in su. “Hamburger Lady”, ripete impassibile Genesis P-Orridge, “she’s dying, she is burned from the waist up”.
“Dead Joe” The Birthday Party (1982)
“Welcome to the car smash”, grida ferocemente un venticinquenne Nick Cave. Dead Joe racconta di un tragico incidente stradale, avvenuto presumibilmente intorno a Natale – una Christmas Carol in versione Cave, diciamo – metafora perfetta del declino della scena post punk londinese. La canzone venne scritta da Cave insieme ad Anita Lane, la sua ragazza dell’epoca, miscelando alcuni elementi tipici del Southern Gothic con sprazzi di art rock. Pur essendosi sciolti un anno più tardi, i Birthday Party hanno influenzato il gothic rock per il modo in cui sono riusciti a inserire elementi di blues, rockabilly e puro orrore.
“Nebraska” Bruce Springsteen (1982)
Apparentemente questa potrebbe sembrare solo un’altra canzone di Springsteen su un ragazzo, la sua auto e una ragazza. Tuttavia, questa volta al volante è Charlie Starkweather, il killer realmente esistito che alla fine degli anni ’50 ha terrorizzato gli Stati Uniti insieme alla sua “pretty baby” Caril Ann Fugate, all’epoca 14enne. Bruce aveva già raccontato in passato di anime perdute, ma erano sempre brave persone cadute in disgrazia, mai personaggi del genere. La voce trascinata del Boss rispecchia perfettamente la sociopatia del protagonista del brano, mentre l’armonica sembra raccontare le atmosfere della campagna desolata americana. Nel brano, quando Charlie viene catturato, questo momento si trasforma nella classica scena da film horror che tutti aspettano, ovvero quando il killer racconta le ragioni che lo hanno condotto verso l’oscurità: “There’s just a meanness in this world”, canta Springsteen.
“One” Metallica (1989)
Nonostante il nome Metallica girasse negli ambienti underground già dai primi anni ’80, il grande pubblico li conobbe nel 1989 con One, un singolo che racconta di un soldato tetraplegico che chiede di morire. «Mentre stavamo scrivendo l’album Master Of Puppets, James [Hetfield] ebbe questa idea: “come sarebbe vivere solo come coscienza, senza braccia e senza gambe, senza poter fare niente da solo?», ha raccontato Lars Ulrich. La band iniziò a lavorare sull’idea nell’autunno del 1987, quando il loro manager, per il video, acquistò i diritti di Johnny Got His Gun di Dalton Trumbo, film che raccontava l’agonia di un reduce americano della Prima Guerra Mondiale, Joe Bonham, mutilato terribilmente da una mina, ma ancora capace di pensare. Alla fine del film, il protagonista riusciva a comunicare ai medici di ucciderlo, battendo il suo messaggio disperato sul cuscino utilizzando il codice Morse. Quella storia regalò ai Metallica un’impensabile entrata nella Top 40 e un trionfo ai Grammy.
“Down By the Water” PJ Harvey (1995)
Nel singolo di punta del suo album del 1995 To Bring You My Love, Polly Jean Harvey si trasforma in un’affascinante strega mentre richiama sua figlia dal fiume in cui l’ha fatta affogare. Nel video PJ danza a ritmo di un inquietante cha-cha, per poi dimenarsi sott’acqua vestita di raso rosso. Il ritornello, invece, era un rivisitazione in tinte oscure di Salty Dog Blues, un vecchio standard blues americano registrato originariamente dalla leggenda di New Orleans Papa Charlie Jackson: “Little fish, big fish swimming in the water,” sussurra Harvey, “Come back here and give me my daughter”.
“Farmer In The City” Scott Walker (1995)
Il bordone cupo che apre il brano pubblicato nel 1995 da Scott Walker, Farmer In The City, è solo un assaggio dell’orrore che sta per arrivare. La voce dell’ex idolo pop qui si trasforma in un modo per cui i termini “angosciante” e “funerea” risultano riduttivi, la stessa voce con cui Walker ha cantato l’oscurità ritratta negli ultimi vent’anni, di cui questo brano rimane il simbolo. Sopra l’arrangiamento realizzato dall’orchestra Sinfonia of London, Walker canta il proprio omaggio a Pier Paolo Pasolini – “Paulo take me with you / It was the journey of a life”, mormora verso la fine della canzone, quasi fosse una riflessione sull’orrore di non sapere quando arriverà la propria morte.
“Song of Joy” Nick Cave and the Bad Seeds (1996)
Praticamente ogni canzone di Nick Cave è spaventosa; pochi artisti, infatti, si sono dedicati all’oscurità e al macabro come il leader dei Bad Seeds. Discorso centrale, poi, quando si parla di Murder Ballads, l’album con cui Cave ha ucciso decine e decine di vittime immaginarie. L’angosciante canzone principale, originariamente pensata come seguito di Red Right Hand, racconta la storia di un uomo che incontra una ragazza “dolce e felice” di nome Joy che, dopo aver sposato, trova legata e uccisa dentro un sacco a pelo. L’assassino, inoltre, è lo stesso che ha ucciso le tre figlie del protagonista, che sembra sapere molto più di quanto dice. “Non hanno mai preso quell’uomo”, canta Cave, “è ancora a piede libero”.
“25 Minutes to Go” Diamanda Galás (1998)
Nonostante sia sempre stata preceduta dalla fama per la sua estensione vocale di quattro ottave, con la sua versione di 25 Minutes to Go di Shel Silverstein, Diamanda Galás riesce a dare alla sua voce una fragilità inedita. Mentre, infatti, la versione suonata da Johnny Cash nel 1965 e nel 1968 nel carcere di Folsom colpiva per il suo umorismo dark – dato che il brano racconta di un prigioniero rinchiuso nel braccio della morte – l’interpretazione di Galás sembra soffocare nelle ultime boccate d’aria della cella. Il conto alla rovescia prima del pestaggio, tema centrale della canzone, si rispecchia perfettamente nel modo in cui è suonato il piano, fino al rintocco finale mimato sui tasti. “Now hear comes a preacher to save my soul / With 13 minutes to go”, canta Galás, con la voce di una persona a cui stanno collassando i polmoni.
“What’s He Building?” Tom Waits (1999)
Sopra uno sfondo sonoro che sembra tratto da una casa infestata di un horror, Tom Waits mette in scena il monologo di un vicino di casa ficcanaso. Già di per sé inquietante – e non è un caso che Francis Ford Coppola lo avesse scelto per interpretare Renfield nella sua versione di Dracula – Waits canta questa canzone come se stesse raccontando una storia dell’orrore in campeggio, tenendosi la torcia sotto il mento. “What’s he building in there?”, chiede continuamente Waits all’ascoltatore: un’ossessione che ribalta la prospettiva, con il narratore che diventa molto più angosciante della persona che sta spiando.
“Kim” Eminem (2000)
Una delle canzoni più agghiaccianti nella storia del rap, un ritratto messo in rima da Eminem mentre racconta il momento in cui un rapporto fatto di abusi si trasforma in una relazione mortale. Scritto e pubblicato quando la sua relazione con l’ex moglie Kim Scott era al massimo grado di tossicità, nel brano il rapper uccide il marito e il figliastro di Kim per poi abusare verbalmente della donna nel tragitto in auto da casa al lago in getterà il suo corpo. Eminem urla in tutto il brano, imita persino la voce di Kim nei momenti in cui la donna cerca di controbattere alle accuse. «Fossi stato in lei sarei scappato non appena avessi sentito quella roba», disse il mentore di Shady, Dr. Dre, a Rolling Stone nel 1999.
“’97 Bonnie And Clyde” Tori Amos (2001)
Le fantasia di vendetta di Eminem ’97 Bonnie and Clyde era una traccia veloce, eppure terrificante in cui il rapper immaginava un viaggio in macchina padre-figlia verso la spiaggia, con la mamma chiusa nel bagagliaio. La reinterpretazione di Tori Amos per il suo album Strange Little Girls del 2001, tra archi gotici e synth lo-fi, ribalta la storia, con il canto quasi soffocato che racconta la vicenda dal punto di vista della vittima. «Bonnie and Clyde è un brano che racconta molto bene cos’è la violenza domestica», disse Amos a MTV nel 2001. «Non mi sono messa nei panni del personaggio della canzone, ma è come se la donna chiusa nel bagagliaio mi avesse afferrato la mano, chiedendomi di raccontare la sua versione».
“Commuted” Khanate (2003)
Nel metal la parola “extreme” ora denota un sottogenere e non è più un indicatore di intensità come un tempo. Tuttavia il termine rimane perfetto per descrivere il suono prodotto agli inizi degli anni 2000 dai Khanate, quartetto newyorkese ormai defunto. «La musica è pura sperimentazione strutturale con palesi tentativi di alterazione dello stato d’animo attraverso la dissonanza e l’allentamento temporale», aveva detto nel 2001 il chitarrista della band, Stephen O’Malley, anche membro dei Sunn O))). Frase traducibile nei circa 18 minuti che compongono questo colosso di pura inquietudine metal. Gli accordi acidi di O’Malley si fondono alla grancassa di Tim Wyskida, diventando lo sfondo per le grida di Alan Dubin, ideale racconto della discesa verso la paranoia: “My God / The smiles / The sneezes / The talkin”. Il brano procede verso il finale, quando gli strumenti ‘si scontrano’ tra loro: uno shock che ricorda lo spavento di Daniel Torrance in Shining quando, nel corridoio dell’Overlook Hotel, vede apparire due strane gemelle.
“John Wayne Gacy, Jr.” Sufjan Stevens (2005)
L’ambizioso ritratto in musica dell’Illinois fatto da Sufjan Stevens con l’omonimo album raccontava la storia dello Stato attraverso alcuni momenti cruciali, tra cui l’inquietante vicenda del serial killer John Wayne Gacy – soprannominato Killer Clown – famoso per aver seppellito nello scantinato di casa sua 28 adolescenti che aveva stuprato e ucciso. «So che è orribile da dire, ma confesso che ho provato empatia per lui, non per il suo comportamento, ma per la sua natura» ha detto in un’intervista il cantautore all’epoca dell’uscita del brano, aggiungendo come la figura di Gracy è diventata antitesi dei personaggi positivi raccontati nell’album, come Abraham Lincoln e Carl Sandburg. L’empatia del cantautore si rispecchia nell’arrangiamento chitarra e voce, per una delicatezza che rende il brano ancora più inquietante.
“Miste” Haxan Cloak (2013)
Con lo pseudonimo di Haxan Cloak, Bobby Krlic è stato incensato della critica per il sound in bilico tra la techno underground e atmosfere che sembrano prese da un film horror. Il suo album più rappresentativo, Excavation, contiene anche la sua traccia più inquietante, Miste, già spaventosa grazie all’urlo con cui parte il brano. Dopo l’entrata da far accapponare la pelle, iniziano loop di droni ed echi, con il finale che diventa un battito cardiaco di sintetizzatori. «Non penso che l’oscurità sia deprimente, ma credo sia edificante e catartica», ha detto Krlic a Quietus. «Ci sono momenti in cui cerco di mettermi a disagio il più possibile, ma non significa che io sia una persona oscura: per me è come una scarica di adrenalina».