Il ciclone che ha travolto la monarchia della cattolicissima Spagna è una pertica di un metro e novantasette, spalle larghe e mascella squadrata. Capitano della nazionale iberica di pallamano prima, duca di Palma di Maiorca poi, oggi detenuto nel carcere di Brieva, ad Avila, con una condanna in Appello a 5 anni e 10 mesi per una sfilza di reati fiscali, tra cui frode e malversazione. Il suo nome è Iñaki Urdangarin.
Chi si distingue per scaltrezza, solitamente scaltro ci nasce. La pecora nera reale che raccontiamo questa settimana non fa eccezione. Se però Iñaki ha potuto esprimere tutto il suo potenziale il merito è stato del suo matrimonio con l’infanta Cristina di Borbone, terzogenita di Juan Carlos, il re che donò alla Spagna l’egida costituzionale dopo il regime di Franco, e della mite Sofia di Grecia.
Tutto inizia nel 1996. Olimpiadi di Atlanta. Urdangarin e i suoi 15 compagni di squadra conquistano un bel bronzo che gli spagnoli – quella sarà l’unica medaglia che si aggiudicano ai Giochi – salutano come un oro. Sugli spalti c’è anche un’osservatrice speciale: la principessa Cristina. Che si dimostra subito interessata all’argomento. «Chi è quello che i compagni portano in spalla, trionfante? Voglio il suo numero». La sera stessa la comitiva spagnola esce a far baldoria. Cristina non chiama, ma si presenta. Tempo un paio di cocktail, una stretta di mano e sparisce.
Si rivedono per i festeggiamenti in patria al ristorante El Pou, un localino che Urdangarin aveva comprato in società con alcuni compagni di squadra, a Barcellona. E il giorno successivo lei alza quel benedetto telefono. Panico del pallamanista, confidato agli amici più intimi: «Mi ha chiamato l’infanta, vuole uscire. E adesso cosa faccio? Dove la porto?». E infatti, dalle cene nei ristoranti meglio frequentati di Barcellona al concerto di Michael Jackson, è Cristina a scandire gli esordi della loro storia. È furba, l’infanta: le uscite sono sempre di gruppo. Ci sono gli amici di lui e la fedele scudiera di lei, la cugina Alexia di Grecia. Primo, per non solleticare la stampa. Secondo, perché Iñaki una fidanzata già ce l’ha: tale Carmen Camì, che vive a 90 chilometri da Barcellona. Questo permette a Txiqui, come lo chiamano gli intimi, di mantenere in piedi due relazioni. Con la differenza che Cristina sa di Carmen, ma Carmen non sa di Cristina. Iñaki ha il terrore di lasciare la fidanzata. Teme di essere solo un passatempo del quale la principessa si stuferà presto. Ma Cristina non si stufa.
La clandestinità dura sei mesi. Il 3 maggio 1997 la coppia si presenta a telecamere e fotografi nei giardini della Zarzuela, la residenza reale fuori Madrid. Lei è in giacca, pantaloni e capelli sciolti. Mai avuta l’aria della principessa timida, romantica e remissiva: si era innamorata di un uomo e se l’era preso. Iñaki e Cristina piacciono. Al re, prima di tutto. E ai sudditi: appaiono subito simpatici, sportivi e alla mano. Piace, soprattutto, il mix sociale che incarnano. Carmen, come milioni di concittadini, scopre dalla Tv che il suo fidanzato sta per sposare l’infanta. È sbigottita, ma rassegnata. Scomparirà nell’ombra e, dignitosamente, quando scoppierà lo scandalo, non si getterà sulla carcassa dell’uomo che l’aveva umiliata davanti a tutta la Spagna.
Per Iñaki e Cristina arrivano i figli, quattro. Da un romantico pied-à-terre, nel centro di Barcellona, dove lui continua a giocare nella squadra di pallamano cittadina, la famiglia si trasferisce in una casa da mille e una notte in zona Pedralbes. I bimbi frequentano la scuola francese. Inverni sulle piste di Baqueira, sui Pirenei, estati a Palma di Maiorca, di cui Cristina e Iñaki diventano duchi per volontà del re. Non sanno ancora che saranno proprio i giudici di Palma a metterli alla sbarra.
Diceva Giulio Andreotti che «il potere logora chi non ce l’ha». Ma a volte inebria come l’assenzio. Iñaki cambia pelle. Non è più il cameratesco e goliardico compagno di squadra che gli amici ricordano. Diventa altezzoso, sprezzante. Le piccole richieste di raccomandazione che arrivano sul suo tavolo finiscono nel cestino. In compenso cominciano a fioccare le cariche. Nel 2000 Urdangarin si ritira dall’agonismo. Dapprima membro d’onore del Comitato olimpico spagnolo, l’anno dopo viene nominato direttore della pianificazione per Octagon Esedos, società che opera nel marketing sportivo. Nel 2003 diventa socio del consulente Diego Torres e insieme trasformano una società già esistente, Nóos, facendola diventare una società no profit che offre consulenze di vario genere, anche sportive. Con il duca di Palma come presidente, aumentano compagnie – come Telefónica o Repsol – e istituzioni pubbliche – parliamo di Isole Baleari, comunità Valenciana e città di Madrid – che versano ingenti somme (16 milioni di euro, è la stima del giro d’affari tra il 2002 e il 2006) a Nóos e, in seguito, alle sue società satellite.
Ma dove finisce questo fiume di denaro? La domanda sorge spontanea nella società civile. Sono gli anni in cui il popolo spagnolo comincia a conoscere la più grave crisi economica della sua storia. Risalgono al 2006 le prime inchieste giornalistiche sugli affari di Nóos. E poco conta che il duca lasci formalmente ogni incarico, trasferendosi a Washington con la famiglia. Nel luglio 2010 la magistratura di Palma apre un fascicolo su Urdangarin che diventa il primo membro della casa di Borbone a finire sotto indagine (e poi sotto processo). L’accusa ricostruisce il percorso di 5,8 milioni di euro, soldi distratti dalle casse di Nóos e usati dal duca per la ristrutturazione del palazzo di Pedralbes, il cui personale domestico sarebbe stato pagato in nero, e poi per viaggi, cene e persino per acquistare i biglietti della finale di Champions nel 2009, giocata a Roma tra Barcellona e Manchester United. Nelle carte processuali finiscono anche alcune mail scritte da Iñaki a certe signore dell’alta società spagnola, con incipit dal tenore più che confidenziale: “Ciao, gran pezzo di donna”.
Il giudizio di Juan Carlos si sdoppia: come suocero, vede in Iñaki l’incarnazione del maschio alfa iberico. Una qualità, visto che lui stesso ha tenuto alto il livello testosteronico della patria collezionando oltre 1.500 amanti. Ma come re di Spagna deve condannare l’uomo che ha usato il prestigio della corona per arricchirsi indebitamente. Un tradimento imperdonabile.
Lo sdegno è dilagante: la monarchia e la sua disinvoltura nello sperpero di denaro diventano il nemico da abbattere. Anche il re è travolto dall’austerity reclamata a gran voce: le immagini che lo ritraggono accanto alla carcassa di un elefante durante un carissimo safari in Botswana, mentre la sua gente è costretta a svendere la casa per arrivare a fine mese, colmano la misura. Il 19 giugno 2014 Juan Carlos abdica a favore del figlio Felipe. Per salvare l’onorabilità della monarchia, è il nuovo re a dare il colpo di grazia al cognato e alla sorella Cristina: li priva di ogni titolo e proibisce loro di presenziare a qualunque evento pubblico. Non dovranno mettere mai più piede alla Zarzuela. Cristina, nel frattempo esclusa da ogni responsabilità penale, può scegliere: lasciare il marito, ed essere riabilitata. O restare con lui, e subire l’ostracismo. Sceglie la strada più dura. E l’umiliazione delle visite in carcere. D’altra parte, quel ragazzotto basco se l’era scelto lei. E un’infanta di Spagna non si rimangia la parola. Mai.