In un articolo del 2015, il New York Times si domandava: «Il dolcevita per caso è tornato a essere cool?». Drake nel video di Hotline Bling ne sfoggiava uno mica male, e insomma, le ripercussioni dei suoi molleggiamenti in un pregiatissimo cashmere a coste non passarono affatto inosservate. Da lì al fashion-sdoganamento è stato un attimo: Timothée Chalamet, le gemelle Olsen, Alexa Chung, Gigi Hadid, Selena Gomez e compagnia assortita sono diventati gli ambassador ufficiali del maglione a collo alto e si sono sostituiti a Steve Jobs, che l’aveva eletto a suo marchio di fabbrica dandogli quel retrogusto più sapiosexual che sexy. Sulle passerelle, da allora ad oggi, è stato un trionfo – ma certo, dico io, è il capo d’abbigliamento più furbo e polivalente che esista, ve ne accorgete solo adesso?
Quando, subito dopo l’università, iniziai a lavorare, il mio armadio prese a riempirsi di dolcevita. Capi e colleghi credevano che il maglione a collo alto, per via del suo vissuto un po’ punitivo alla signorina Rottenmeier, fosse un riflesso del mio rigore, ma era l’esatto contrario. Essendo fuori quasi tutte le sere, puntare la sveglia un’ora prima la mattina per lavarmi i capelli equivaleva al massimo sforzo concepibile, quindi per fare di necessità virtù avevo elaborato uno stratagemma infallibile. Armata di shampoo secco – grazie Kate Moss, per sempre ti sarò debitrice – rendevo presentabile l’attaccatura vicino alla fronte, raccoglievo tutto in una coda di cavallo o in uno chignon, aggiungevo rossetto, dolcevita, e in quattro semplici mosse da persona pigra con un massiccio hangover mi trasformavo in un essere umano inappuntabile ed elegante. Il segreto non risiedeva né nel trucchetto rubato alla mia top model preferita, né nella scelta di acconciature piuttosto basiche, né nel tanto amato rosso ciliegia: no, il segreto stava tutto in quel pullover il cui collo non deve mai essere troppo corto o troppo stretto, ma lungo abbastanza da venire piegato due volte e sufficientemente morbido da evitare l’effetto insaccato. Ho provato a usare per lo stesso scopo anche altri modelli, con scollo a V, girocollo, a barchetta, a cuore, a cascata, ma non ce n’è, solo il dolcevita regge alla grande ed esce vincitore.
Di anni e di lavori ne sono seguiti parecchi; le vecchie abitudini, invece, sono rimaste. Il mio personale culto del dolcevita si è evoluto, abbracciando colori che mai avrei immaginato (il bianco! Vittima di una narrazione sbagliatissima, chissà perché); fantasie prima poco battute (una su tutte: le righe); vari spessori (dalla lana merino sottilissima che a ottobre è un piacere, fino al cashmere a trecce per affrontare gennaio); occasioni d’uso diverse e ben più nobilitanti rispetto a un capello non lavato di fresco. Poi è arrivato Drake. E, per mia fortuna, il mondo è cambiato.
Il mondo, dal canto suo, s’è accorto che sul fronte pratico il dolcevita non rende necessaria la sciarpa, e la cosa non è per niente una cazzata, se si è distratti come la sottoscritta, che in un passato da studentessa scollacciata ha disseminato di sciarpe mezza Milano. Meno pensieri, meno tonsilliti, ma pure meno dreadlock, che puntualmente si formano a causa della strisciata perenne con i capelli, croce priva di delizia di chiunque si ostini a portare chiome sotto le spalle. In secondo luogo, il maglione a collo alto costituisce il rifugio perfetto per sfuggire all’alito fetido di un interlocutore che c’ha dato dentro con aglio, cipolla e affini: basta iniziare a giocherellare col collo, tirandolo in avanti con le dita per qualche secondo – quasi a simulare un gesto abitudinario – poi abbassare pian piano il mento fino a coprire bocca e naso, senza addurre giustificazioni di sorta. Il movimento dev’essere graduale e non eccessivamente esplicito, più un tic nervoso dovuto alla timidezza che non un tentativo di sopravvivere alla morte proveniente dalla bocca di chi sta parlando, per intenderci. Ormai ho perso il conto delle innumerevoli volte in cui mi sono salvata durante riunioni, cene, cinema, aperitivi o incontri galanti, e qui si giunge direttamente all’ennesimo luogo comune da sfatare: il dolcevita è l’outfit perfetto per un primo appuntamento nei mesi invernali, per una serie di ragioni abbastanza evidenti. Sempre che non si voglia concludere l’affare in quattro e quattr’otto, il maglione a collo alto è una specie di divisa multitasking che da un lato sottintende un «sei carino e tutto, ma stiamo calmi», dall’altro possiede anche la meravigliosa capacita di snellire, regalando però una taglia in più di reggiseno. In soldoni è un po’ la storia del bastone e della carota, che si concretizza in un innocuo divertissement per testare resistenza, pazienza e perseveranza del date in questione: nessun diktat sui colori bensì sul modello – meglio slim – e sulla presenza delle coste, che per via di una bizzarra illusione ottica aiutano (Drake insegna). Ultimo, ma non meno importante, nella sua versione più leggera il dolcevita si presta alla sovrapposizione con maglioni più spessi e rappresenta così il sogno proibito dei freddolosi, nonché degli introversi, dei germofobici e di coloro che – come la cara Nora Ephron – non hanno un buon rapporto con il proprio collo.
I veri pro, Emily Ratajkowski in testa, lo indossano pure d’estate, magari smanicato o cropped, accoppiato a gonne lunghe o shorts a vita alta. Nonostante il mio ruolo di spicco all’interno di un ipotetico Turtleneck Appreciation Club, a tanto non sono arrivata: per ora mi gusto l’estrema soddisfazione di dire «io lo portavo quando non era cool», in barba al New York Times e ai detrattori che preferiscono il girocollo. Insipienti che non siete altro.