Col suo bagaglio di trionfi e cadute, e con almeno tre vite alle spalle, Omar Pedrini è probabilmente uno degli ultimi esemplari di rockstar avvistabili nel nostro Paese. Quella che lunedì 2 dicembre terrà al Fabrique di Milano non sarà semplicemente l’ultima data del tour celebrativo dell’album dei Timoria Viaggio senza vento, ma un happening in cui si alternano musica, arte, letteratura. «Il tour doveva durare due mesi, siamo arrivati a nove», racconta. «Non starebbe a me dirlo, ma è anche vero che la falsa modestia è la scienza degli imbecilli, quindi mi permetto di godermi un momento di vera felicità. C’è grande attenzione non verso Omar, o comunque non solo, ma soprattutto verso l’album Viaggio senza vento e ciò che ha rappresentato. Non è un’operazione nostalgica, mi sarei sentito vecchio. Questo viaggio è vivo più che mai, tanto che tra i tanti ospiti ne abbiamo scelto uno per decennio. L’ultimo ad accogliere l’invito è stato Ensi. Sarà una festa senza età anagrafica, dove si andrà da mia figlia di 6 anni al documentario sul mio amico Ferlinghetti, fresco centenario».
Ai tempi avevi la consapevolezza di quello che stavate realizzando con Viaggio senza vento?
Forse qualcuno di noi sì, di certo non io. All’epoca non ero lucidissimo e non potevo rendermi conto che, nel nostro piccolo, stavamo scrivendo una parte importante di storia della musica italiana. Sapevo che le cose andavano bene, ma mi facevo caricare sul furgone, mi occupavo del soundcheck e del concerto e poi andavo a strafarmi in albergo. Poi la mattina il nostro manager veniva a recuperarmi e tutto ricominciava da capo. L’unica eccezione fu quando riempimmo il Palalido, da sempre il simbolo del rock straniero a Milano. Eravamo la prima band italiana a fare un sold out. Di quello mi resi conto persino io.
Se negli anni ’90 anche in Italia c’è stata una scena rock, in parte lo dobbiamo a Viaggio senza vento. Siete stati un po’ i nostri Pixies, i nostri Mudhoney.
Sono felice che tu citi due dei miei maggiori punti di riferimento di allora. Col senno di poi sì, in qualche modo quell’album diede vita ad una scena, ne piantò i semi. Poco dopo Gianni Maroccolo inizia a produrre i Marlene, gli Afterhours trovano il coraggio di cantare in italiano, i Ritmo Tribale escono dall’underground. Fino ad arrivare ai Subsonica, che con le loro contaminazioni rappresentano allo stesso tempo l’ultima cosa importante del decennio e la prima degli anni zero. Prima di allora le major non inseguivano i gruppi italiani, perché non davano profitti. E se gente come Pagani e Finardi si prestarono, come fanno ora al Fabrique, a prenderne parte è perché compresero l’urgenza di cui parli.
Questa celebrazione va intesa un po’ come una rivincita nei confronti della vita e della sorte?
La vita in realtà mi ha dato tantissimo. La scintilla vera è scattata dopo la ristampa: guardai la classifica generale degli album e quella dei vinili e vedere Viaggio senza vento in entrambe le Top 10 mi toccò dentro. Sono felice, perché mi ha permesso di riconquistare il mio pubblico rock, i miei grigioni come li chiamo io, ma anche di presentarmi a una buona parte di ventenni che non vogliono allinearsi alle sonorità che funzionano oggi. E sai bene che te lo dice uno che ama le nuove generazioni. Ma questi sono ragazzi che mettono ancora in piedi una band in un momento storico in cui tutti ci dicono che le chitarre non servono più.
Col personaggio di Joe sei riuscito nell’impresa di trasformare il personale in universale. Qualcosa in cui qualsiasi ventenne disadattato può riconoscersi anche oggi.
Credo proprio che l’album riesca ad arrivare ancora ai ventenni perché hanno l’età del suo protagonista. Joe è un disadattato, con problemi di droga, alcol e solitudine che, quando tocca il fondo, decide di scappare verso l’oriente, verso la spiritualità. È un perdente, la parola più violenta che riesca ad immaginare oggi. A Milano, di questi tempi, va molto di moda dividere le persone tra vincenti e perdenti e questa cosa tocca un mio nervo scoperto. Joe è figlio di papà Tommy degli Who e mamma Siddharta di Herman Hesse. La storia parte dalla mia biografia, ma diventare di chiunque si trovi a vivere la stessa situazione. In qualche modo è come il peyote: è lui che cerca la persona che ne ha bisogno, non viceversa.
Negli anni ’90 definivi i Timoria dei provocatori pacifici. Ti riconosci ancora in quella definizione?
Sì, o al contrario dei poeti armati. Resto un caso anomalo, uno nato incendiario che vuole morire piromane.
The Wall ha appena festeggiato quarant’anni. È un album nato dall’alienazione di Roger Waters e da uno sputo indirizzato a un fan che era a un concerto dei Pink Floyd per tutto tranne che per la musica. Una sensazione molto simile a quella che provò Kurt Cobain. Ti sei mai trovato a vivere una situazione simile?
Diciamo che io al massimo ho preso a calci qualcuno che saliva sul palco, ma perché magari ero sovreccitato (ride, ndr). Piuttosto mi sono sempre messo a cercare di capire perché chi mi stava di fronte si trovasse nell’assenza totale di contenuti o di consapevolezza di ciò che stava facendo. Però ho vissuto anche l’esperienza opposta. Quando i discografici che avevo contribuito ad arricchire e prima che Noel Gallagher mi salvasse il culo ero obbligato a suonare da seduto, magari per venti o trenta persone. E non erano lì per poter dire di essere stati a un evento. Erano lì solo per me.