Secondo l’ultimo rapporto Ocse sulla scuola, appena uno studente su cinque sa comprendere davvero un testo scritto. Il problema non riguarda solo i quindicenni: con madri, padri e fratelli maggiori come noi, che mai ci aspettavamo? Fate le cose semplici! Così urlavano gli allenatori delle giovanili di provincia. E le partite si trasformavano in sequenze di spunternate tra i fossi. Mark Zuckerberg è l’allenatore di provincia più vincente della storia umana. Chissà come sarebbe contento, mister Kevin Zappaterra dell’Olimpia Quartesana, del mondo che abbiamo creato con i social network.
Testo significa tessuto e per valutare la sua qualità dovremmo essere in grado di analizzarne la trama, individuarne i nodi, srotolarne la matassa. Invece noi pretendiamo che le pagine siano delle toppe, fabbricate già tutte intere, blocchi compatti da appiccicare sempre nello stesso punto, sulla nostra precomprensione del mondo, in modo da renderla ogni volta più robusta e voluminosa, in modo da nascondere l’abisso del dubbio.
«Ti faccio un disegnino?», si dice di fronte agli occhi vacui di un interlocutore che non ha capito un discorso più o meno complesso. Ecco, oggi il mondo intero è fatto di disegnini. Instagram è tutto un cosmo di disegnini. Il disegnino è più efficace di un testo perché ci fornisce già un’apparente soluzione. Che di solito è traducibile a livello verbale con: «Guarda un po’ che figata!». Il nostro grande, eterno non-detto. È chiaro che se non disponessimo della fotocamera dello smartphone, incapaci di strutturare una descrizione di noi stessi, dello spazio circostante, dell’attività che stiamo svolgendo, ripeteremmo all’infinito: «Eccomi che decoro l’albero di Natale: credimi, è una figata!», «Eccomi che mangio i funghi pigmei al burro di caviale venusiano nel ristorante otto comete di Pier Paté: credimi, è una figata!», «Eccomi in mezzo alla figa che se guardi bene bene mi si vuole pure fare: credimi, è una figata!» E così via.
In effetti, senza un adeguato supporto fotografico, faremmo una bella fatica a raggranellare follower. Proprio per l’immediatezza del mezzo, per la facilità con cui possiamo mostrare al mondo di essere i più fighi del bigoncio, proprio per l’incontrovertibile univocità del messaggio, su Instagram si litiga di rado. Tutt’al più si pensa: «Questo crede di essere figo e invece è un idiota», e via di pollice, verso il basso. Se ci ritraessimo incazzati con l’universo come in realtà siamo, pronti a prendercela con chiunque passi di lì, di nuovo, addio follower e addio dopamina.
È quando, su Facebook e Twitter, siamo costretti a tradurre in parole la nostra brama di piacere che nascono le polemiche. Qui non possiamo assicurare di essere nel tale posto da sogno, impegnati nella tal cosa da sogno: anche il più becero dei contatti pretende un minimo supporto per la sospensione della propria incredulità. Qui l’approvazione degli altri deve passare attraverso un surrogato d’intelligenza: per ottenere dei like bisogna commentare un fatto di pubblico dominio. Se l’obiettivo resta quello di essere belli e giusti e compresi e consolati e idolatrati, qui toccherebbe però immergere le mani nel gran merdone della complessità. E chi ne ha più voglia? La formula alfanumerica che si avvicina di più alla fotografia è lo slogan. E così ci esprimiamo a slogan. Pensieri predigeriti che hanno l’immediatezza della fotografia. A qualcuno il nostro disegnino piacerà. Ne avrà acquistato uno simile nello stesso magazzino di slogan (partiti, movimenti, hashtag, ecc), riconoscerà la marca. Non riuscendo a tessere idee, acquistiamo a prezzo scontato le toppe dell’ideologia. Le acquistiamo a stock così enormi che non vediamo l’ora di appiccicarle ovunque.
Come il tizio che è appena stato lasciato dalla fidanzata. Tu gli fai: «Accelera, che sennò viene rosso». E lui: «Anche Marta nel novembre 2016 si era tinta i capelli di rosso, stava così bene con quel maglione nero a collo alto, poi un giorno sua cugina le ha detto di rifarsi la frangia e allora…». È così via per cinque minuti di apnea. La gente cerca solo scuse per ammorbarti col pensiero che la ossessiona in quel dato momento. Puoi scrivere un pezzo sull’etologia degli scoiattoli guatemaltechi, ma se il commentatore di turno ritiene il proprio stipendio troppo basso, è capacissimo di commentare: «Come se tutta la gente potesse permettersi degli scoiattoli allo spiedo?!?! Ma dove viveteeeee?!?».
Capire un testo significa dare il beneficio del dubbio all’autore di quel testo. Chissà, magari non sta dicendo una cazzata. Per esserne certi dovremmo arrivare al punto finale. L’ultima frase potrebbe riverberare una luce inaspettata su tutte quelle che l’hanno preceduta. Capire un testo significa sforzarsi di vedere il mondo con occhi diversi. Ma non facciamo che cercare ovunque specchi di noi stessi. Se l’immagine che ci torna indietro è diversa dalla rappresentazione mentale che abbiamo dell’universo – e cioè, di nuovo, di noi stessi – allora quello specchio dev’essere difettoso.
Non facciamo che leggere, come mai era accaduto nella storia umana: messaggi di WhatsApp, didascalie di Instagram, post di Facebook, aforismi di Twitter, sommari e spezzoni di articoli. Ma non abbiamo più la capacità di restare concentrati su uno stesso testo per più di un minuto. Perché poi arriva un’altra notifica, poi un’altra, poi un’altra. Già dopo due righe non vediamo l’ora di condividere l’opinione raffazzonata che abbiamo abborracciato: così contribuiamo alla metastasi di contenuti e alimentiamo il circolo vizioso della superficialità. Siamo diventati incapaci di digerire una cena, ci alimentiamo a tartine. Dopo un boccone, quel sapore ci ha già stancato. Vogliamo assaggiare qualcosa di nuovo. Post, didascalie, titoli: i finger food della cultura. Cosa ci aspettavamo, che i quindicenni si appassionassero alle marmitte di minestrone e alle parafrasi dell’Iliade?