Il marito di Mara Maionchi è l’influencer musicale più autorevole in circolazione, va detto. Anche se nella frase che avete appena letto, ci sono due definizioni che lo faranno imbestialire: “il marito di…” e “influencer”. Fortunatamente non potrà bannare questo sito, come invece ama fare con chi non la pensa come lui su Facebook. Sì, perché se credete che la Maionchi abbia un caratteraccio, non avete ancora conosciuto Alberto Salerno. «Ma quanto dura questa intervista? – sbotta a un certo punto –poi taglierai qualcosa…». No, in realtà nulla, visto che stare ad ascoltare “il Salerno” come lo chiama sua moglie (l’inversione ora gli piacerà) è come sfogliare la Bibbia della canzone italiana.
Figlio d’arte di Nicola Salerno, che scrisse per Renato Carosone Tu vuò fa’ l’americano, tanto per intenderci, fin da giovanissimo si è imposto come uno degli autori di maggior talento. In estrema sintesi, ha sfornato classici come Io vagabondo per i Nomadi, Avevo un cuore per Mino Reitano, Terra promessa per Eros Ramazzotti, Donne per Zucchero e Senza pietà di Anna Oxa.
Insomma, se “la Mara” è un grande talent scout musicale e da qualche tempo anche un personaggio televisivo, l’artista di casa è indiscutibilmente lui. E non cascateci quando dice che ormai è «un felice nullafacente». Basta seguirlo sui social per capire che l’aria da pensionato non gli si addice: a colpi di giudizi impietosi su quello che ci propinano la tv o la discografia (per non parlare della politica), in poco tempo ha già “fulminato” due profili privati e cresce a vista d’occhio con quello pubblico e gestisce persino una pagina di auto storiche: “Sono rimasto un bambino che gioca con le macchinine”. Un bambino che alla soglia dei 70 anni (il 30 dicembre, se volete fargli gli auguri) ha ancora un sogno: «Un museo interattivo della musica a Milano» e ha scoperto la formula della longevità di un matrimonio: “Mantenere una grande speranza: poter divorziare”.
Chi è oggi Alberto Salerno?
Un felice nullafacente! Ho smesso l’attività. Non amo definirmi “pensionato” perché sono attivo tra mille cose, però il mio lavoro di autore, produttore discografico e editore è terminato.
Come mai?
Finché sei in un mondo che ti riconosce e riconosci puoi dare un contributo, quando capisci che quello che ascolti e si muove nel mondo della musica è troppo lontano da quello che erano le tue abitudini di scrittura e produzione è inevitabile tirare le somme. Avrei potuto continuare a fare il discografico, ma con i chiari di luna che c’erano, con Mara non ce la siamo sentita di portare avanti neanche l’etichetta.
C’è stato un momento preciso in cui hai capito che la discografia, per come la conoscevi, è definitivamente tramontata?
Era il 2008-2009 e Mara era ad “Amici”. Avevamo trovato Gerardo Pulli, il vincitore del talent (ora autore di canzoni, come Io sono bella di Emma Marrone, in supporto a Vasco, ndr). Ci piaceva, ma le vendite si erano limitate a 30-40mila album. Ho detto: “Ragazzi, qui è cambiato il vento”.
Questo come produttore, mentre come autore di testi musicali?
L’ultimo Festival di Sanremo che ho vinto era con Alexia nel 2001. Ero ancora in grande forma. Poi, sai, sono emerse realtà dove il tuo lavoro di professionista della parola non serve più. Come negli anni ’70 quando presero piede i cantautori romani, si scrivevano tutto da soli. Non c’era più il mercato. Come il passaggio della fotografia dall’analogico al digitale.
Il “paroliere” è stato un mestiere di famiglia.
Io e mio fratello siamo nati nella musica, ne eravamo davvero immersi. Mio padre era un autore molto famoso, con conoscenze pazzesche. Casa nostra un porto di mare, passavano Aurelio Fierro, Toni Dallara, Fausto Cigliano, i migliori cantanti dell’epoca, come in seguito in casa mia Ramazzotti, Gianna Nannini e Tiziano Ferro. Ho sempre vissuto in questo contesto.
L’artista che per primo ti ha colpito?
Modugno! Ne ho ancora un vivissimo ricordo. Un giorno è arrivato a casa nostra e indossava un cappotto scuro sulle spalle, ma senza giacca, aveva la camicia bianca e i pantaloni neri. Sembrava fosse entrata una tempesta. Aveva appena vinto il festival di Napoli del ’64 con Tu sì ‘na cosa grande e mio padre aveva partecipato con due pezzi, scritti per la Vanoni e Arigliano. Quell’incontro ce l’ho stampato in testa.
Quanto è stato importante tuo padre per la tua carriera?
Moltissimo! Fin da piccolo scrivevo 30-40 testi al giorno senza le musiche. Scrivevo, scrivevo, scrivevo tutto il giorno. Poi mi allenavo prendendo canzoni straniere e facendoci sopra il testo. Lui le leggeva e le analizzava. Mi dava dei consigli. Poi mi ha introdotto nell’ambiente, per cui da quel punto di vista è stato fondamentale.
Tua madre, invece?
Non c’entrava niente con mio padre. Lui veniva da una famiglia napoletana di otto fratelli, partito a 20 anni con la valigia di cartone perché mio nonno non voleva che facesse il pittore, ancor prima dell’autore. Mia mamma, invece, era di famiglia piemontese, di Cuneo, banchieri ebrei. Quindi tutto l’opposto. Non so come hanno fatto a convivere, però è stato un bel matrimonio finché hanno vissuto. Mia madre sperava per me un lavoro sicuro, lo studio di ragioneria e il posto fisso in banca. Non le ho dato questa soddisfazione.
Non ebbe modo di preoccuparsi, visto che il tuo successo arrivò prestissimo a soli 18 anni con Avevo un cuore per Mino Reitano.
In realtà avevo già scritto dei buoni successi a 16 anni. Tre-quattro dischi che non avevo potuto firmare perché non iscritto alla Siae, mi aveva sostituito mio padre. Con I Corvi, per la facciata B di Ragazzo di strada, mi aveva fatto guadagnare dei soldini. Grazie a quelle canzoni mi sono potuto comprare la prima macchina, benché senza patente. Aveva anticipato i soldi mio padre, visto che non erano arrivati dalla Siae. Comunque, era già una soddisfazione vederla in garage.
Come si cresce avendo successo così giovani?
Ero totalmente inconsapevole. Quando ho scritto Io vagabondo avevo 22 anni e mai avrei immaginato cosa avrebbe scatenato. Non lo facevo per lavoro, ma perché mi piaceva. Il successo, non mi ha mai dato alla testa perché chi è impegnato dietro le quinte non è coinvolto emotivamente. Certo ho cercato il successo, ma ho sempre abbinato il piacere al lato economico.
Viene naturale chiederti: come nasce un capolavoro, per esempio Io vagabondo?
Era il periodo dei Figli dei fiori, per cui c’erano gli hippy, si scappava di casa per andare a vivere nelle Comuni. Infatti, c’è dentro questa necessità che sentivo anch’io. “Una notte di settembre me ne andai, il vento sulla pelle…”, sognavo di andare negli Stati Uniti, a Woodstock. Franco Daldello, editore della Numero Uno, la portò all’Equipe 84, però Maurizio Vandelli, molto intelligentemente, capì che non era adatta a loro e ci disse: “Provate con i Nomadi”. In effetti da lì è partito tutto.
I grandi successi possono anche rovinare rapporti. Con Ramazzotti siete andati per avvocati.
A causa di incomprensioni di fondo. Avevo scritto Terra promessa, nata sull’onda del movimento dei Verdi. Lui invece, dopo aver vinto Sanremo, fa questa intervista in cui dice che io e Renato Brioschi gli avevamo rubato testo e musica. Ma Eros aveva scritto solo le prime quattro righe del testo. Avrei potuto non riconoscergli nulla. Così come la musica, di Ramazzotti c’era solo il “cappello”. Allora gli abbiamo fatto causa. Da un lato è stato un suo errore giovabile, infatti poi mi ha chiesto scusa, e dall’altro noi ci siamo forse un po’ troppo intestarditi. Oggi non lo farei più.
Che artista è Ramazzotti?
Ha fatto una carriera meravigliosa. Uno dei più grandi cantanti italiani, anche all’estero. Non condivido tanto le scelte artistiche degli ultimi anni. Purtroppo, il pop non è come il cantautorato, ti costringe a inseguire il pubblico. Per cui i ragazzi che ti amano a 15 anni poi crescono e diventano 30-40enni e scelgono altre cose. Non puoi sempre adattare la tua musica. Bisognerebbe tentare, anche se è molto difficile, di avere un atteggiamento più adatte alla propria età.
Immagino che su Zucchero il giudizio sia diverso.
Molto diverso. Con Adelmo ci siamo divertiti, con lui ti fai delle risate pazzesche. Mentre facevamo i quattro inediti per il Best Of, era nata Menta e rosmarino. Un grande artista, che è riuscito ad avere delle collaborazioni internazionali pazzesche perché è molto abile a creare relazioni, essendo particolarmente simpatico, un compagnone. E poi insiste. Una volta, quando non era ancora famoso, per conoscere Joe Cocker è rimasto tre ore sotto la pioggia fuori dal suo albergo a Roma. Il produttore, impietosito, glielo ha fatto incontrare e ha potuto consegnargli la cassetta. Era un testone, con grande tenacia e questo alla lunga paga.
Lo ripete spesso anche Mara a X Factor…
“Il lavoro duro batte il talento se il talento non lavora duro”. Lucio Battisti apriva lo studio alle 9 del mattino e lo chiudeva alle 16 del pomeriggio. Questo oggi manca molto, c’è troppa improvvisazione.
Uno dei pochissimi con cui non hai mai collaborato è Vasco Rossi…
Per me Vasco è il profeta. Nella musica italiana ce ne sono tre: Vasco Rossi, Renato Zero e Francesco De Gregori. Vasco batte Zucchero dieci a zero, non perché Zucchero non è bravo, ma perché Vasco ha qualcosa in più, anche se adesso dopo 40 anni di carriera non possiamo pretendere, tutti diventiamo vecchi, grinzosi e incazzati. Però rimane su un altro pianeta. Esprime delle cose che hanno una potenza di fuoco come nessun altro. Non ho mai avuto la fortuna di lavorarci o incontrarlo, ma sarei impazzito con lui, mi sarebbe piaciuto tantissimo. Ma non voglio andare da lui apposta, magari gli rompo le balle. Non è capitato, le occasioni devono succedere.
Uno degli artisti a cui sei più legato è Mango. Come mai?
Abbiamo lavorato tantissimo insieme. Lo abbiamo lanciato io e Mogol, con Mara producendo quattro album. Bisogna capire che il successo dei cantanti non dipende solo da una persona. Oggi sembra che uno scriva un testo e arriva il successo. Ma dietro c’è sempre un team. Con Mango avevo un rapporto speciale, mi faceva impazzire la sua voce. Di livello mondiale. In studio, per la sessione delle voce cantava la prima e noi: “Perfetta”. Non ci credeva, allora la rifaceva: “Perfetta” un’altra volta. Tutte uguali. Alla fine, gli dicevamo: “Scegli quella che vuoi”. E’ stato sottovalutato dalla critica, sempre molto tiepida nei suoi confronti.
Per passare alle manifestazioni canore, cosa ne pensi delle polemiche che sono circolate intorno a Sanremo e al premio Tenco?
Sanremo è sempre stato criticato. Non ricordo una edizione senza polemiche. Pensa che nel 1981, il periodo in cui io avevo Le Orme con Marinai, Claudio Villa fu eliminato e si mise a imprecare e bestemmiare contro Gianni Ravera. Sosteneva che le giurie non esistevano. Effettivamente quell’anno non c’era giuria e Ravera aveva in tasca dei foglietti sparsi con i giudizi sui vari artisti. Ma come dice la famosa canzone “perché Sanremo è Sanremo”. Quindi di riffa o di raffa è quella roba lì. Però sono sette giorni divertentissimi. Credo che ultimamente abbia perso molto di più il Tenco rispetto a Sanremo.
Non hai apprezzato la scelta di invitare Achille Lauro?
Lui è un bravissimo ragazzo, però andare al Tenco e cantare Lontano Lontano…ci avrei pensato tre volte. Non è stato sbagliato portarlo lì, ma avrebbe fatto una scelta migliore a fare le sue cose.
Era accompagnato da Morgan. Su di lui ci sono sempre giudizi molto contrastanti.
Lo considero un grandissimo talento televisivo, ma come musicista in proporzione a quello che ha fatto ha reso molto poco. Invece ha una grande capacità di affabulazione. Gli darei una trasmissione in tv di musica: lui su un trono che racconta quello che vuole. Sarebbe un successo.
Qual è la musica da ascoltare e quella da non ascoltare?
Molto semplice, sarò lapidario: tutta la musica da metà anni ’60 a metà anni ’80 è da ascoltare. Il resto faccio fatica a capirlo. La musica di oggi la trovo un po’ scaduta. Forse qualche folksinger americano, come Damien Rice, merita ancora.
Se dovessi stilare la lista degli autori più rappresentativi, in che posizione ti metteresti?
Al primo posto Giancarlo Bigazzi, secondo Sergio Bardotti, al terzo Mogol e al quarto io. Poi Luigi Albertelli, Franco Migliacci, Cristiano Minellono. In Italia abbiamo avuto autori pazzeschi.
Però fra tutti puoi dire di esserti convertito in influencer musicale.
(sghignazza, nda) Ma figurati! Ho aperto un profilo per gioco, poi ho raggiunto il massimo di amici, ne ho aperto un altro e sono già finiti e allora uso la pagina pubblica. Facebook mi fa morire dal ridere, perché faccio in fretta: se qualcuno non è d’accordo come me lo elimino. Non è accettata la discussione, se dico una cosa deve essere quella, è un dogma. Sono nato a sinistra e rimango a sinistra. Non parlo tanto di politica, ma ogni tanto tiro fuori una bomba.
Dopo aver vissuto l’epoca delle grandi ideologie, come giudichi la politica di oggi?
Malissimo! L’Italia mi preoccupa tanto. In particolare, per come lo vivranno le mie figlie e i miei nipoti. Sembra un paese sempre perdente. Succedono cose per cui ti chiedi come sia possibile che siano avvenute. Come a Venezia con il Mose, ultimamente, con gente che ha rubato 15 anni e ora bisogna ripartire daccapo. Davvero, un paese che mi fa male vedere in questa condizione. Sarebbe vincente se non fosse abitato dagli italiani, che hanno distrutto tutto.
La prima proposta di Alberto Salerno ministro della cultura?
Non sarei in grado. Sono bravo a parlare, ma bisogna essere preparati in tanti altri aspetti. Forse farei quello che pensano tutti quelli del mio settore, cioè darei più fondi alla cultura. Solo che quando entri nell’apparato è difficile cambiare le cose. Un sogno che ho nel cassetto è di realizzare il museo permanente della musica, che volevo proporre a Milano. Tecnologicamente avanzatissimo, con la storia della musica mondiale, diviso per etichette, dove con il touch salta fuori Modugno in ologramma che ti canta Nel blu dipinto di blu. Ci vorrebbero un sacco di soldi e la volontà politica di realizzarlo. Chissà…
Intanto ho scoperto che gestisci anche una pagina Facebook di auto d’epoca…
Quella è puro divertimento. Sono molto appassionato di auto, sono dei capolavori. Per me è come giocare con le macchinine. In fondo sono rimasto un bambino.
Ho evitato finora, però qualche domanda dovrò pur fartela su Mara. Prendiamola alla lontana: cosa l’ha fatta diventare un personaggio tv tanto amato?
La spontaneità, sicuramente. Anch’io con gli anni ho perso un po’ di freni inibitori e mando affanculo la gente con una facilità pazzesca. Siamo molto simili. Se dobbiamo dire una cosa la diciamo.
Come si convive oltre 40 anni con Mara Maionchi?
Lei è una donna forte e indipendente. Sono ormai 45 anni che ci sopportiamo. Ma l’ho scelta così, perché mi è sempre piaciuto il suo carattere prorompente. Una dona che ti fa sentire vivo, fondamentale in un rapporto. Sono stato molto fortunato, ma credo che anche lei lo sia stata. Smettiamola di dire che sono “il marito di Mara Maionchi”. Anche lei è “la moglie di Alberto Salerno”. Ho un nome e un cognome. Il suo pregio più grande è di capire le persone e in pochi sanno che è di una generosità enorme. Fa tanta beneficenza senza sbandierarlo. Ormai siamo come Gianni e Pinotto.
Il segreto per far durare un matrimonio così a lungo?
Avere sempre una valigia pronta. In un matrimonio è necessario mantenere una grande speranza: di poter divorziare.
C’è una follia che avete fatto insieme?
L’unica che mi viene in mente è durante la luna di miele a Santa Maria di Leuca. Lei a cena ha scatenato una lite pazzesca con una persona della tavolata, al punto da arrivare a impuntarsi: “Adesso ce ne andiamo”. Alle undici di sera, con una auto Triumph TR6, siamo arrivati a Milano alle sei del mattino. Se questa è la cosa più allucinante insieme, figurati le altre follie.
Magari ne farete una per il tuo compleanno, il 30 dicembre. Che rapporto hai con il tempo?
Lo vivo come tutti quelli che vedono la strada davanti che si accorcia e quella dietro che si allunga, quindi è inevitabile che i pensieri vadano a quando la strada terminerà. Per rimanere agli aspetti positivi, il compleanno dei 70 anni lo festeggerò a dicembre alla grande in montagna con i miei amici e a gennaio ho organizzato una grande festa con 50-60 persone in un locale e ci berremo tanto champagne!