Tom Waits è arrivato a un compleanno importante, 70 anni, senza invecchiare. Quanti artisti della sua età possono vantarsi di essere ancora contemporanei e allo stesso tempo avanguardisti? Non occorre rispondere. Perché Tom Waits non è solo songwriting, ma anche suono e significati estratti dalle fogne d’America come metafora della vita stessa. “Mi piacciono le belle melodie che mi dicono cose terribili”, ha detto della sua idea di musica. Ne ha fatto nascere un nuovo tribalismo urbano, reso attraverso un complesso armamentario di percussioni fatte in casa che sorreggono un pianoforte e, soprattutto, parole di lacerante poesia.
È una discografia immensa, la sua. E non solo quantitativamente. Tom Waits è un genio sempre al suo massimo al quale è giusto porgere i nostri auguri compilando una classifica delle sue canzoni migliori. Ci sono dischi, sapete quali, che andrebbero messi per intero e altri, a torto o a ragione, considerati minori, per i quali l’inclusione di un brano potrebbe sembrare scelta opinabile, se non fosse per quell’infinita carambola di significati che ognuno dà a una canzone rendendola così speciale. Abbiamo deciso di non chiuderci a riccio sui capisaldi, provando a spaziare in oltre 40 anni di produzione musicale, cinematografica e sperimentale (escludendo, soltanto per amor di leggerezza, spoken word e reading). Il risultato sarà ovviamente impossibile e imperfetto ma pensiamo che, per festeggiarlo al meglio, scegliere una via comoda e scontata sarebbe quanto meno ingiusto, se non delittuoso, rispetto all’opera di un artista della sua portata. Del resto, citando Waits, preferiamo “una sconfitta alle nostre condizioni che una vittoria alle condizioni altrui”.
22. “Jesus’ Blood Never Failed Me Yet” (“Jesus’ Blood Never Failed Me Yet”, Gavin Bryars, 1993)
Nato come un progetto di Bryars nel 1971, si basa su un unico atto in cui un senzatetto sconosciuto canta la breve strofa improvvisata del titolo mentre ricche armonie vengono man mano sovrapposte. Nel 1993 Tom è l’homeless per un disco/performance dove ripete 150 volte in 73 minuti la stessa litania sottratta anni prima dalla strada, con un’empatia artistica che mai fu più azzeccata.
21. “I Never Talk to Strangers” (“Foreign Affairs”, 1977)
Dal disco centrale e meno citato della trilogia che comprende anche Small Change e Blue Valentine ci sarebbero almeno tre canzoni di cui parlare. In bilico fra easy listening, esistenzialismo e ironia macabra, tra Jack & Neal, Potter’s Field e appunto I Never Talk to Strangers, quest’ultima ha dalla sua la presenza di Bette Midler (“Bette, you’re absolutely colossal!”) a farla primeggiare.
20. “Broken Bicycles” (“One from the Heart”, 1982)
One from the Heart è la colonna sonora candidata agli Oscar dell’omonimo film di F. F. Coppola (Un sogno lungo un giorno nella solita fantasiosa traduzione in italiano). Broken Bicycles, ripresa poi tra gli altri da Elvis Costello, è tra le poche senza il neo della presenza troppo zuccherosa della cantante country Crystal Gayle come seconda voce. E si sente che è una meraviglia.
19. “I’m Not Your Fool Anymore” (“Mississippi Lad”, Teddy Edwards featuring Tom Waits, 1991)
Certe collaborazioni riescono meglio di altre. Quella col sassofonista Teddy Edwards, un colosso del Mississippi bebop, è da brividi. Due sole canzoni, Little Man e questa, ne sono la prova. Pezzi negroidi per un album magnifico. “Ted suonava sempre come bevesse champagne su un treno per le vie del mondo. Elegante e consumato. Sono onorato di averlo avuto come amico”.
18. “Lie to Me” (“Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards”, 2006)
Con uno come Waits, vai a sceglierla una canzone migliore di un album triplo. Per non offendere la sensibilità e l’intelligenza di nessuno, possiamo dire che la traccia di apertura, Lie to Me, ne dice le intenzioni e la potenza d’ingegno. Qualcuno un po’ più noto di me, Simon Reynolds, la definì “Jerry Lee Lewis-meets-Howlin’ Wolf, sung from the shadowy side of the bar”. Non fa una piega.
17. “Just the Right Bullets” (“The Black Rider”, 1993)
Uno dei dischi più teatrali (e gutturali) dell’intera produzione del californiano. Un mix tra Brecht e Screamin’ Jay Hawkins che sulla carta risulta deforme e surreale, nelle mani e nelle capacità vocali di Tom Waits diventa una funebre fanfara circense. Co-prodotto e composto con William Burroughs (voce nei parlati) e Robert Wilson, tutto The Black Rider meriterebbe una riscoperta.
16. “On the Other Side of the World” (“Night on Earth”, 1992)
Tralasciando le citazioni al nostro Antonio Fogazzaro, in Good Old World, questo è da considerarsi come il main theme del film omonimo (Tassisti di notte) di Jim Jarmusch. Forse la migliore delle soundtrack di Waits, anche nei capitoli strumentali Los Angeles Theme e Dragging A Dead Priest, ha in questo brano la summa dell’alchimia dettata dall’unione di due menti geniali.
15. “Georgia Lee” (“Mule Variations”, 1999)
Altro disco, altra difficile scelta. La dylaniana Hold On, il gospel di Come On to the House, il blues ebbro di Chocolate Jesus: qual è la vostra preferita? Magari lo spoken di What’s He Building, ovvero la traccia che troverete in qualsiasi classifica. Noi, invece, preferiamo Georgia Lee: una tenue elegia per piano e voce che in quattro minuti e mezzo musica il vissuto di milioni di ragazze perse.
14. “Hell Broke Luce” (“Bad As Me”, 2011)
Se riuscite a immaginarvi Captain Beefheart strafatto di crack intento a comporre qualcosa, è assai probabile che il risultato finale suoni simile a Hell Broke Luce. E come ogni canzone attribuibile a Beefheart che si rispetti anche qui è un’impresa capirne il significato. Chi è Luce? Tom Waits ha dato in sede d’intervista cento interpretazioni, tutte diverse. Qualunque sia quella vera: grazie mille Luce.
13. “All the World Is Green” (“Blood Money”, 2002)
Una canzone che affascina facilmente per la sua storia. Nata dal film di Herzog del 1971, trova a sua volta origine dal dramma teatrale Woyzeck iniziato da Georg Büchner nel 1836 e rimasto incompleto a causa della morte dell’autore. Tra sfigati, si sa, ci si capisce. Il verde rappresenta sia il danaro che la terra dove veniamo tutti, prima o poi, sepolti.
12. “Alice” (“Alice”, 2002)
Non ultima di un’infinita serie di donne, ragazze, bambine, madri e amanti (Myra, Martha, Lucinda, Cora Belle, Ida, eccetera), Alice l’abbiamo conosciuta nel 2002 ed è stato facile amarla da subito. Anche solo per l’infinita potenza creativa che rappresenta. Alice, con quel meraviglioso sax e quel piano, è la rappresentazione di tutti gli anni (e di tutte le donne) che sono venute prima, di cui è un sorprendente compendio.
11. “I Don’t Wanna Grow Up” (“Bone Machine”, 1992)
Altro disco che straripa di canzoni importanti. Il nostro spirito punk ci spinge a scegliere questa, poi divenuta cover immensa rifatta dai Ramones. Con un testo così, la canzone non ha bisogno di nulla per palesare sé stessa: le basta una chitarrrina scordata e la voce di Tom Waits per creare quello che, in altri contesti, verrebbe definito un “anthem”, un inno.
10. “Jersey Girl” (“Heartattack and Vine”, 1980)
Mi sono sempre chiesto quanto e se Tom Waits abbia influenzato Bruce Springsteen. Springsteen, contemporaneo di Waits ma più popolare, mi viene facile pensare abbia invidiato l’anonimato del primo che riusciva a scrivere canzoni come questa, springsteeniana al midollo, infatti ne farà anche una cover.
9. “Hoist That Rag” (“Real Gone”, 2004)
Contiene personaggi del libro di Herbert Asbury Le gang di New York, possibili riferimenti alla serie tv anti-militarista M*A*S*H, alla letteratura messicana di Alberto Vea e forti immagini pseudo-patriottiche (“Issare quello straccio”). Alcuni dicono che Real Gone sia forse l’album più politico di Waits, ed è difficile metterlo in discussione, con la vicinanza all’11 settembre e alla guerra in Iraq. Comunque sia, la stratificazione di voci di Waits nel coro colpisce dritto allo stomaco.
8. “The Piano Has Been Drinking (Not Me)” (“Small Change”, 1976)
Ditemi come si fa a non amare una canzone con un titolo così? Waits veste il ruolo del pianista appassionato di letteratura beat che tiene una lezione sul suo stato di alterazione etilica. Pieno di immagini (“Cause the bouncer is a Sumo wrestler”) e osservazioni (“You can’t find your waitress with a Geiger counter”) a dir poco folli, alla quinta pinta di birra la troverete ancora più geniale.
7. “Temptation” (“Franks Wild Years”, 1987)
Temptation la spunta sull’immensa Innocent When You Dream, contenuta nello stesso disco, solo e soltanto per via di quell’inedito falsetto, che Waits stesso definì “alla Prince”, e quelle sonorità tra funk e cultura latina, che creano quasi un capitolo a sé nella sua produzione. Del resto, seppur nato in California, Tom era solito andare spesso in Messico, e qualcosa deve essergli rimasto addosso.
6. “16 Shells From a Thirty-Ought-Six” (“Swordfishtrombones”, 1983)
Questa, insieme a Shore Leave e Franks Wild Years, fu una delle canzoni bocciate dalla Elektra. Trovatemi ora una classifica dove non ce ne sia una o magari tutte e tre. Swordfishtrombones è il disco in cui Tom Waits è diventato Tom Waits, almeno in termini di suoni che avrebbe utilizzato per il resto della carriera. 16 suona come blues d’avanguardia su un piano da fabbrica, completato dalla voce di Waits imbevuta di whisky e sigarette, una cacofonia di percussioni e chitarra.
5. “(Looking For) The Heart of Saturday Night” (“The Heart of Saturday Night”, 1974)
Con quanti anni di anticipo rispetto ai Bee Gees Tom Waits decise di parlare di sabati sera? Sempre ovviamente ad alta gradazione alcolica a sorreggere l’impianto confidenziale del piano, ma sembra quasi che Waits si sforzi di farci sentire il vento di mezzanotte che soffia sulla Sesta Avenue mentre siamo in fila per entrare in un club. Per qualcuno la più fredda canzone d’attesa mai scritta.
4. “Christmas Card from a Hooker in Minneapolis” (“Blue Valentine”, 1978)
Christmas Card from a Hooker in Minneapolis è esattamente quello che dice di essere, il titolo è quasi una mini-storia di Hemingway o di Dickens di sei parole. Mentre viene letta la cartolina di Natale, apprendiamo un po’ della triste storia della nuova donna protagonista, e dopo l’ultima nota dolente del testo siamo praticamente pronti a inviarle dei soldi. Già che siamo a dicembre.
3. “Warm Beer and Cold Women” (“Nighthawks at the Diner”, 1975)
Il massimo della sfiga: birra calda e una donna fredda. “Roba che Marco Masini spostate”, nell’iconica dichiarazione di una amica mentre mi vede inserirla sullo scalino più basso del podio. Nella sua versione live, invece, lascia evincere le capacità di perfetto entertainer di Tom Waits. Sornione, triste, sarcastico, romantico, comico, ermetico e, come in questo caso, tutte queste cose assieme.
2. “Downtown Train” (“Rain Dogs”, 1985)
Parliamoci chiaro, tutte le canzoni di Rain Dogs sono finite almeno una volta in una classifica. Pure Cemetery Polka che ero straconvinto elettrizzasse soltanto me. Quindi poche storie: queste canzoni hanno tutte un loro perché. Downtown Train perché evoca New York di notte, perché ci ricorda quanto siamo vulnerabili e perché è in grado di fare apprezzare lo spirito blues a chiunque.
1. “Ol’ 55” (“Closing Time”, 1973)
È iniziato tutto da qui: è la prima canzone del primo disco, Closing Time, il cui titolo indica l’orario di chiusura e apertura dei battenti per la lush life dei nottambuli. Ol’ 55, come la Oldsmobile del 1955 con cui Tom va in cerca di fortuna, è la canzone con più armonie vocali della sua carriera, tanto da essere rifatta da Scarlett Johansson e prima dagli Eagles i cui dischi possono essere usati (come disse Waits al NME) “giusto per togliere la polvere dal giradischi”.