Si dice che il rap sia l’unico genere musicale che non rimane mai uguale a se stesso, che cambia e si evolve a tal punto che quello delle origini e quello di oggi non hanno praticamente più nulla in comune. È effettivamente così, da sempre. Ma esistono dei momenti precisi in cui questi cambiamenti si manifestano alla massima potenza, in cui è possibile identificare con precisione un prima e un dopo. Ecco, il debutto di Eminem è uno di questi momenti topici e catartici. Dall’avvento di The Slim Shady LP sulla scena mondiale, vent’anni fa (o poco più: uscì il 23 febbraio del 1999), nulla è più stato lo stesso. Potremmo continuare a parlarne per altri due decenni, e ancora non avremmo detto abbastanza, come dimostra anche l’edizione celebrativa che arriva proprio oggi nei negozi, The Slim Shady LP (Expanded Edition), composta da un triplo vinile e/o doppio CD ricco di rarità, freestyle e bonus track.
All’epoca della sua uscita, Eminem non aveva neanche una carta dalla sua, almeno se si considera ciò che di solito veniva richiesto a un qualsiasi rapper. Non era afroamericano o latino. Veniva da Detroit, un posto che prima di allora aveva glorificato il soul grazie a un’eccellenza cittadina, la Motown, ma che per l’hip hop manistream era praticamente tagliato fuori dalle mappe. Sfoggiava un’abilità tecnica talmente mostruosa a livello di incastri, metriche, rime e assonanze che è considerato da molti il miglior rapper vivente, a livello di virtuosismo; non a caso era un campione di freestyle, una disciplina che in Europa è sempre andata molto forte, ma negli Stati Uniti era passata di moda già da parecchio. E soprattutto, sfoggiava una cattiveria che andava ben oltre quella rabbiosa e muscolare dei suoi colleghi. Le sue punchline erano crudeli, sadiche, volgarissime, chirurgiche nel colpire personaggi noti, simboli dell’establishment, o anche semplicemente persone che facevano parte della sua cerchia stretta; in primis la madre, accusata di drogarsi più di lui, e la moglie Kim, che sia nella traccia ’97 Bonnie & Clyde che nella copertina dell’album viene metaforicamente uccisa e stipata nel bagagliaio dell’auto di Em per poi essere scaricata sul fondo di un lago sotto gli occhi della figlia di due anni Hailie (non temete: è tutta finzione scenica, i due si sono riappacificati, per poi lasciarsi definitivamente nel 2006, e ora avrebbero rapporti piuttosto civili).
Il primo singolo estratto, My Name Is, era tutto un programma: “My brain’s dead weight, I’m tryin’ to get my head straight / But I can’t figure out which Spice Girl I want to impregnate” (“Il mio cervello è un peso morto, sto cercando di mettere la testa a posto / Ma non riesco a decidere quale delle Spice Girls voglio ingravidare”). E ancora: “Well since age twelve, I’ve felt like I’m someone else / ‘Cause I hung my original self from the top bunk with a belt” (“Fin da quando avevo 12 anni mi sento qualcun altro / Perché ho impiccato il me stesso originale al letto a castello con una cintura”). E via con un susseguirsi di omicidi gratuiti, molestie sessuali, mutilazioni rituali, tutti ovviamente esasperati e fintissimi come quelli di un film splatter di quarta categoria. L’unica cosa che dovette effettivamente evitare fu inserire insulti omofobi, cambiando addirittura alcuni versi per andare incontro al desiderio dell’autore del brano originale che aveva campionato, il musicista Labi Siffre, apertamente gay. Noi italiani, come sempre scarsamente avvezzi all’inglese, la percepivamo come un’innocua e divertente canzoncina, grazie anche al simpatico video in cui il rapper si travestiva da televenditore, presidente americano, scienziato pazzo, Marilyn Manson. Ma in America fece scandalo come pochi altri brani prima. Non solo per il linguaggio, ma soprattutto per il fatto che a utilizzarlo era un ventenne bianco dalla faccia simpatica e pulita. Uno in cui i ragazzini ricchi e borghesi potevano identificarsi ancora di più, e quindi era socialmente ancora più pericoloso.
The Slim Shady LP è scritto quasi interamente dalla prospettiva dell’alter ego di Eminem, Slim Shady, appunto. Una persona deprecabile da tutti i punti di vista, eppure il simbolo dell’americano medio, che nell’adolescenza – basti pensare a tutto quel filone di commedie demenziali alla American Pie – sembra non desiderare altro che la trasgressione fine a se stessa, fino a raggiungere picchi di stupidità e crudeltà quasi inverosimili. “Now follow me and do exactly what you see / Don’t you wanna grow up to be just like me?” (“Ora seguimi e fai esattamente quello che mi vedi fare / Non vuoi crescere per diventare proprio come me?”), dice Eminem in Role Model, un altro dei singoli che fecero da traino al disco. E in effetti il primo a prendersi di mira, a darsi del fallito, ad ammettere di essere del tutto sbagliato, è proprio lui, Slim Shady, al contrario dei colleghi rapper dell’epoca, che erano in pieno ego trip autocelebrativo.
Prodotto da Dr. Dre, già un campione di controversie con i suoi N.W.A, l’album stranamente collezionò solo due querele: una da parte della madre stessa di Eminem, e una dall’ex compagno di scuola D’Angelo Bailey, che in Brain Damage veniva citato con nome e cognome e definito un bullo con tanto di descrizione delle violenze subite. In compenso, ai Grammy Awards di quell’anno, The Slim Shady LP vinse sia nella categoria per il Miglior album rap che in quella per la Migliore performance rap, entrambe ottenute per la primissima volta da un bianco. E vendette talmente tanto (si parla di quattro milioni di copie nei soli Stati Uniti) che Dr. Dre volle premiarlo aprendogli un’etichetta tutta sua, la Shady Records, con la quale produsse a sua volta 50 Cent e oggi Griselda, il supergruppo/etichetta/crew di cui tutti parlano, nel rap underground. Una favola a lieto fine, insomma, in cui l’eroe è un supercattivo e un superfallito dai superopoteri.