L’anno sta per concludersi, è tempo di bilanci. La musica italiana quest’anno ha confermato il trend delle stagioni passate, con il rap che – in tutte le sue declinazioni – ha dominato le classifiche. Tuttavia, non sono mancate le sorprese, con il Festival di Sanremo che ha presentato al grande pubblico alcuni nomi diventati, durante l’anno, punti di riferimento nel panorama italiano. Spazio anche al suono più ‘ricercato’, tra esperimenti di super band ottimamente riusciti e un progetto elettronico finalmente convincente, come non ne sentivamo da qualche anno a questa parte. Infine, con l’ormai ex scena indie in pausa dopo la conquista dei palazzetti, ci ha pensato la vecchia guardia a tenere alto il nome del cantautorato. Insomma, in attesa di sentire quale sarà il suono del 2020, andiamo a ritroso riascoltando gli album migliori del 2019 italiano.
20. “Mina Fossati” di Mina, Ivano Fossati
«Io e Mina abbiamo in comune il disinteresse per il passato», ha detto Ivano Fossati del disco in coppia con la più grande voce italiana. Per questo, nonostante i riferimenti musicali siano vintage, in Mina Fossati non c’è nessuna traccia di nostalgia. Scritto interamente dal cantautore, l’album è uno straordinario esercizio di precisione: tra grandi ballate, leggerezza anni ’60 e sfumature rock e R&B, Fossati ha scritto un disco in equilibrio sulla contemporaneità. (Andrea Coclite)
19. “Kety” di Ketama126
“Potevo essere un tossico morto, invece sono un tossico ricco”, canta Ketama126 in Love Bandana. L’esponente più ‘oscuro’ della LoveGang, approdato a una major, è uscito con Kety, un lavoro crudo e potente che riprende il racconto da dove l’aveva lasciato con Rehab. Vera prova di maturità per il trapper classe 1992, l’album è arricchito dalle collaborazioni con alcuni tra gli astri nascenti della scena – Massimo Pericolo o Speranza – così come da mostri sacri del rap come Fabri Fibra o Noyz Narcos. Ciliegina sulla torta, il featuring ‘postumo’ con Franco Califano su Cos’è l’amore. (Alessandro Zaghi)
18. “Tradizione e tradimento” di Niccolò Fabi
Due dei migliori titoli di songwriting nostrano di quest’anno sono composti da due parole: Poesia e civiltà di Giovanni Truppi e Tradizione e tradimento di Niccolò Fabi. Casualità a parte, quello di Fabi, a distanza di tre anni dall’acclamato Una somma di piccole cose, ci mostra un uomo alla ricerca di nuovi equilibri piuttosto che di consolidare se stesso. Ne emergono sfumature più o meno inattese che danno al suo cantautorato trasteverino un inedito respiro internazionale. (Giorgio Moltisanti)
17. “Jennifer Gentle” di Jennifer Gentle
Ritorno col botto dopo dieci anni d’assenza per Marco Fasolo oramai lanciatissimo nelle vesti di produttore (degli I Hate My Village, altro nome che ha caratterizzato questo 2019). Del resto, dopo la parentesi con la Sub Pop era impossibile che la gentile Jennifer se ne stesse buona. Si accasa così con la consolidata La Tempesta e sforna diciassette temi psichedelici e lynchiani, come si evince anche dall’inquietante veste grafica. Un album coeso e maturo, questo, che ripaga gli anni di attesa. (Giorgio Moltisanti)
16. “Smith” di The Winstons
Se mai dovesse capitarvi di farvi un trip psichedelico, chiedete alla vostra guida psiconautica di mettere Smith degli Winstons come colonna sonora. In caso contrario nessun problema, il viaggio è garantito anche da lucidi, visto che la band formata da Enrico Gabrielli, Roberto Dell’Era e Lino Gitto spinge fortissimo sull’acceleratore della mistica e della psichedelia, ai limiti della realtà per una band italiana. Buon viaggio! (Edoardo Vitale)
15. “Stanza singola” di Franco126
Fin da quando Carl Brave x Franco126 hanno fatto il loro esordio con Polaroid, Carl Brave è considerato il mattatore del duo, ma è Franco126 che con la delicatezza e le sfumature di Stanza singola si candida a lasciare davvero il segno nella storia della musica italiana, al di là del pop e delle contingenze. Un album che fonde la freschezza del rap e l’intensità della canzone d’autore per un risultato unico e sorprendente. (Marta Blumi Tripodi)
14. “Smog” di Giorgio Poi
Giorgio Poi si sta finalmente prendendo i meriti di una carriera musicale di assoluto rispetto, raccogliendo quanto seminato in passato con Vadoinmessico e Cairobi. La sua partecipazione a singoli di enorme successo non deve trarre in inganno, questo album che suona come una boccata di aria fresca e purissima in confronto allo stantio, plasticoso, patinato panorama indie-commerciale di cui involontariamente fa parte. (Luigi Costanzo)
13. “Ecstatic Computation” di Caterina Barbieri
Fantas, il brano di apertura di Ecstatic Computation, supera i dieci minuti e se nell’ascolto chiudi gli occhi, quei seicento secondi sono giornate intere negli universi disegnati da Caterina Barbieri che si concludono disintegrandosi in un richiamo ai celebri loop di William Basinski. I synth modulari sono le impalcature su cui si edificano le architetture immaginifiche della Barbieri, in un ambient che parla di algoritmi e di astrazioni. Ecstatic Computation è la conferma che in Italia lavora una delle artiste musicali più interessanti del panorama elettronico internazionale. (Mattia Barro)
12. “Ballate per uomini e bestie” di Vinicio Capossela
Il bestiario di Capossela, uno zoo dove vagano giraffe, lupi, maiali, lumache e noialtri umani, è una metafora del nostro tempo disgraziato. Capossela lo descrive come un nuovo Medioevo in cui la Rete contagia gli uomini con dissennatezza e immoralità proprio come un tempo gli untori diffondevano la peste, quella vera. Disco di “poesia, filosofia e denunzia”, mette assieme suoni folk senza tempo e un po’ d’elettronica, una piccola novità per il cantautore. Ma alla fine è il Capossela di sempre, un po’ mette paura e un po’ diverte. E perciò, nonostante le premesse, Ballate per uomini e bestie è un disco stranamente rassicurante. (Claudio Todesco)
11. “Il nuotatore” di Massimo Volume
È stato un anno particolarmente intenso per una band ‘stitica’ come i Massimo Volume (tranquilli, è una citazione di Emidio Clementi): un nuovo album, la ristampa di Stanze, il tour nei teatri e poi nei club, insomma, mica male. Il nuotatore conferma quello che tutti i fan dei Massimo Volume sanno a menadito, ovvero che la classe non è acqua e che i Massimo Volume sono un esempio unico che vale un milione di punti nel ranking del lessico e della narrativa della musica italiana, che sta diventando sempre più elementare e scarno. Non esiste un album dei Massimo Volume dal quale non si esca arricchiti, stimolati o incuriositi da qualche citazione. Il nuotatore non è da meno. (Edoardo Vitale)
10. “Paprika” di MYSS KETA
Oltre Porta Venezia e fuori dalla circonvallazione interna di Milano c’è tutto un mondo da esplorare e conquistare. MYSS KETA lo sta facendo suo un po’ alla volta, a cavallo di una mortadella. Musica elettronica, giochi di parole e immagini pop distorte sono parti integranti di una vita che si fa performance. Più collettivo che artista solista, per questo secondo album l’eroina mascherata si è circondata di una sfilza di power-ranger tra cui Mahmood, Guè Pequeno e Gabry Ponte. Arma segreta: l’autoironia. (Michele Bisceglia)
9. “Immensità” di Andrea Laszlo De Simone
Nell’infinito gioco dei rimandi cultural-musicali teorizzato da Simon Reynolds e che ci accompagna ineluttabile nel presente vacuo che ci ospita, Laszlo getta a sorpresa l’asso Alan Sorrenti. Ne viene fuori un disco-concept, Immensità, di alternative pop che sfocia spesso e volentieri nel rock progressivo. Lui dice di non avere subito influenze, mentre la critica esterofila ed entusiasta lo ha associato a chiunque, compresi i Portishead e i Radiohead. (Giorgio Moltisanti)
8. “I Hate My Village” di I Hate My Village
La superband afro-indie composta da Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explotion), Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours) e Alberto Ferrari (Verdena), prodotto da Marco Fasolo, è stata senza ombra di dubbio una delle rivelazioni dell’anno e ha ottenuto un riscontro che probabilmente neanche gli stessi protagonisti si sarebbero aspettati. Nella nostra intervista ci hanno raccontato di come il progetto fosse nato senza troppi piani strategici, ma solo con la volontà di mettersi a suonare insieme, ispirati da ascolti comuni, tutti riconducibili a un sound tribale, ma espresso con le chitarre elettriche. L’abbiamo detto subito e lo ripetiamo: missione compiuta. Vi consigliamo di andare a sentirli dal vivo se vi capita. (Edoardo Vitale)
7. “Scialla semper” di Massimo Pericolo
Fino all’avvento di Massimo Pericolo, buona parte degli osservatori dava per spacciato il rap vero e proprio, ormai spazzato via e poi sepolto dalla trap. Poi è arrivato Scialla semper, l’album di un ventisettenne rabbioso e riflessivo al tempo stesso, e da solo è bastato a riportare sulla bocca (e nelle orecchie) di tutti un genere che veniva considerato ormai morto. E se la travolgente 7 miliardi ribalta chiunque, sono soprattutto brani intensi e meditati come Sabbie d’oro o Amici a colpire nel segno. (Marta Blumi Tripodi)
6. “Gioventù bruciata” di Mahmood
Viaggio dentro la testa di Mahmood, un ragazzo di Milano cresciuto tra la periferia e un padre assente. Un esordio che ha scosso prima il Festival di Sanremo e poi l’Europa intera. Rnb, rap e cantautorato per una manciata di canzoni che sono tra le cose che più ci ricorderemo di questo 2019. Con buona pace di Ultimo. (Filippo Ferrari)
5. “Machete Mixtape 4” di Artisti Vari
Allergico alle logiche mainstream, poco o nulla incline al compromesso, Salmo si conferma come fuoriclasse del rap italiano. Con il più classico buon senso del padre di famiglia ha raccolto intorno a sé il meglio della scena tra Machete Crew e special guest, da giovani leve come tha Supreme e Massimo Pericolo a veterani del calibro di Fabri Fibra e Marracash: questo Mixtape è una gran bella foto di gruppo, tutti carichi per la gita a San Siro il 14 giugno 2020. C’è chi può, chi non può e lui può, ehi! (Michele Bisceglia)
4. “1969” di Achille Lauro
Quel “sdraiato a terra come i Doors…” cantato sul palco del Festival di Sanremo è stato un verso liberatorio che ha lasciato una profonda cicatrice sulla musica pop italiana del 2019: aperta la gabbia, la tigre ha azzannato il pubblico dello zoo. Tra alti e bassi, 1969 di Achille Lauro scorre veloce come un giro sulle montagne russe e in un pezzo come Delinquente c’è tutta la divertente tensione di un sabato pomeriggio trascorso tra le giostre e l’Irish pub. (Michele Bisceglia)
3. “23 6451” di tha Supreme
Pare che nel bizzarro slang di tha Supreme il titolo dell’album si legga “Le basi”. Anche se ci vorrebbe un dizionario Italiano-Supremo per decifrare i versi, è uno degli album più rivoluzionari e originali che siano usciti nell’ultimo periodo. Quasi incomprensibile ai maggiori di 18 anni, è iperbolico sia nella forma che nel contenuto, per una freschezza incomparabile: ascoltare il singolo Blun7 a Swishland per credere. (Marta Blumi Tripodi)
2. “Liberato” di Liberato
Se qualcuno poteva ancora avere qualche dubbio sul progetto Liberato, questo album ha zittito anche i più scettici. Infatti, insieme alle hit che hanno lanciato nell’iperuranio l’hype che circonda il misterioso cantante napoletano – Nove maggio, Tu t’e scurdat’ ‘e me o Gaiola – il disco si arricchisce di momenti reggaeton, glitch elettronici, dance music e una tavolozza di sfumature urban impressionante. Che oltre l’enigma ci fosse molto di più si era già intuito con i live (partendo da quello messo in scena a Club To Club 2017), ma con l’esordio omonimo Liberato ha messo sul piatto uno tra i lavori più interessanti, originali e stratificati degli ultimi anni. (Alessandro Zaghi)
1. “Persona” di Marracash
In Italia non esiste un rapper più completo di Marracash. Dalla sua ha davvero tutto: tecnica, contenuti, personalità, profondità, gusto musicale. E probabilmente non ne esiste neppure un altro altrettanto perfezionista, motivo per cui dobbiamo sempre aspettare diversi anni tra un suo progetto e l’altro. Ma ogni volta ne vale assolutamente la pena.
Persona è riuscito a mettere d’accordo tutti e soprattutto, cosa ancora meno scontata, a commuovere e coinvolgere tutti, come se fosse stato scritto proprio per noi. Il che è un paradosso, perché è il frutto di un’esperienza che più personale e intima non si può: quella di un periodo cupo, di depressione lancinante, di chiusura totale nei confronti del mondo esterno. Una di quelle che ciascuno vive a modo proprio, e che è quasi impossibile descrivere a qualcun altro. Lui c’è riuscito, trovando le parole perfette per raccontare ciò che molti di noi hanno vissuto almeno una volta nella vita.
La struttura del disco, che assegna a ogni traccia una parte del corpo reale o immateriale, è particolarmente riuscita. Crudelia, la canzone d’odio per eccellenza, rappresenta i nervi; Madame, quella dedicata alla propria parte femminile e sensibile, è l’anima; G.O.A.T., che mette in discussione la motivazione e le aspirazioni di tutti noi, è il cuore; Tutto questo niente, sui desideri e la loro inconsistenza, sono gli occhi. Non mancano veri e propri colpi di genio, come Quelli che non pensano, rifacimento del classico di Frankie Hi-NRG MC Quelli che benpensano, o Greta Thunberg, exploit dance totalmente inatteso. Tra dieci anni parleremo ancora di quest’album, e con la stessa gioiosa meraviglia. (Marta Blumi Tripodi)
Hanno collaborato anche Luca Garrò, Raffaella Oliva e Patrizio Ruviglioni.