C’era un agnello sulla copertina del secondo album di Francesco De Gregori. Era un disco bello, strano e acerbo, quello, frutto dell’idea che nelle canzoni vale tutto, che non è necessario proporre narrazioni coerenti, che l’inatteso e l’illogico trovano una ragion d’essere accompagnandosi a ritmi e melodie. C’è un agnello sulla copertina di Merce funebre, album d’esordio di Tutti Fenomeni, che di nome fa Giorgio Quarzo Guarascio e s’accoda, lui apprendista e loro giganti, a una lunga tradizione di autori di testi spiazzanti e illogicamente seducenti. Come De Gregori, ma ancor più il Panella dei dischi bianchi di Lucio Battisti e Franco Battiato.
Un disco che si apre con la citazione della Marcia funebre, col cantante che intona un “la la la-la” sulle note di Chopin può sembrare pretenzioso e un filo sciocco. Merce funebre è entrambe le cose. Ma è anche divertente, stimolante, sorprendentemente intelligente. Ti riempie la testa di domande a cui non è necessario trovare risposte. Accende l’immaginazione. Nelle sue canzonette – tutte brevi, tutte orecchiabili, tutte apparentemente frivole – Guarascio mette di tutto, immagini di vita quotidiana, riflessioni stralunate, citazioni da opere liriche, soprattutto in Hikmet.
Nella lingua di Tutti Fenomeni convivono frasi paradossali, osservazoni acute, giochi di parole, puro nonsense. Qualche esempio: “Voglio vivere solo i giorni lunghi e comunicare solo coi gerundi”; “I poeti vivi hanno gli aggettivi per gratificare i nuovi primitivi”; “Metabolismo, non toccarmi la corona Anna Bolena”; “Siamo tutti regine, siamo tutti origine, cellule innamorate di un mondo accidentale”; “1 2 3 4 sugar free più caffè David Byrne”; “Sto ancora aspettando qualcuno che si espone, brindiamo alla mia e alla tua generazione”; “Leonardo Da Vinci era molto rock, mentre Caravaggio era più tipo un rapper”. Difficile dire dove finisca il gioco e dove si faccia sul serio. Forse il punto è che tra le due cose non c’è alcuna separazione.
Tutto si tiene anche grazie alla leggerezza, quasi alla noncuranza quasi con cui Tutti Fenomeni interpreta i pezzi. Non è un grande cantante, né fa nulla per esserlo. La produzione è curata da Niccolò Contessa. È ‘sintetica’, con rimandi al synth pop e alla new wave anni ’80 – ad esempio i Depeche Mode, omaggiati anche nel video di Valori aggiunti. Anche per questo motivo vengono in mente gli album bianchi di Battisti-Panella. Sono musiche semplici, con alcuni particolari ben curati e in certi passaggi giocose, fatte apposta per balzare fuori dalle cuffie collegate allo smartphone. L’estetica musicale ben si sposa con le fantasie di Guarascio e proietta in una dimensione strana e lunare, ma l’album è più audace dal punto di vista dei testi che delle musiche. Sono buone canzoni. Non sono ancora grandi canzoni.
In un mondo di it-popper dediti alla narrazione di fatti minimi, la musica di Guarascio suona come una liberazione. C’è tutta una vita là fuori ed è talmente complessa che incasina le parole che usiamo per raccontarla. È più vero il racconto di quello che t’incita a crogiolarti nelle piccole miserie dell’esistenza o questo strano personaggio che canta l’inaccessibilità dell’amore e che L’infinito non l’ha scritto Mogol?
In questo gioco dove la riflessione seria si mischia allo sberleffo, in questo disco un po’ folle e un po’ saggio pare persino di rintracciare un senso. Col suo linguaggio paradossale e le sue immagini sorprendenti, a volte rivelatrici e a volte semplicemente assurde, Tutti Fenomeni intona una marcia funebre per un mondo orrendo e mercificato di fronte al quale non resta che citare la litanie della Beata Vergine Maria, come avviene nel finale bello e straniante di Trauermarsch.
“Rivoluzionari vestiti di merda come il Che”, dice il testo di Reykjavik. Non che Guardascio vesta benissimo. Nell’unica foto ufficiale che gira sembra un giovane bancario al primo giorno di lavoro. È tutto tranne che cool. Forse ci voleva uno così per raccontare l’aria che tira. Tutti Fenomeni è il contabile di quest’epoca di miserie e disordine.