Se non sono un po’ fuori di testa non sono dei veri gattari. E mi ci metto anche io che sto andando a Lucca a vedere la Mostra Internazionale Felina. Anche io sono un gattaro, ma ho una scusante per questa fissa: sono un gattaro 3.0. Nel senso che non ho un gatto vero, ma la mia bacheca di Facebook, il feed del mio Instagram, le sponsorizzate: sono tutte a tema “gatti”. Sono vittima del gattismo come lo sono del consumismo, si tratta di una dipendenza indotta da un mercato che mi ha intercettato.
Colpa dei like, gliene faccio tanti ma sono troppo teneri, troppo intelligenti, troppo comici, troppo meglio dei cani. E come tutti i bisogni indotti le mie emozioni vengono stimolate fino a che si tratta di fantasticare, visto che nella realtà non credo che avrò mai un gatto. Cioè un conto è fare like, un altro è pulire quando vomita o doverlo seppellire quando inevitabilmente ti lascia (un dolore che mi spezzerebbe). Sono così drogato di gattini che ho pure comprato un manuale su come educarli senza mai averne avuto bisogno e adesso, sulla scia di questo impulso, sto guidando verso Lucca, per godermi una gara di bellezza tra animali. Eccitato come un bimbo, canto: «Forza Lucca, viva Lucca, tutta Pisa ce lo puppa». È incredibile come il cervello possa immagazzinare dati e riproporteli nel contesto giusto. Si tratta del ritornello di un pezzo raggae di una band lucchese che ascoltavo nei primi anni duemila. Non ricordo nemmeno il loro nome, solo il fatto che erano lucchesi.
Lucca è una città strana. È ricca e di lei si parla poco. Fanno iniziative top, dai concerti del Lucca Summer Festival al Lucca Comics e zitta zitta ruba la scena a città blasonate in tutta la Toscana. A Lucca sono di destra, Forza Nuova è sempre stata attiva, se ne stanno chiusi nelle loro mura storiche, hanno delle piazze e dei palazzi bellissimi, un sacco di ottima roba che richiama ogni anno turisti di tutto il mondo. Ma non è intasata di giapponesi tipo Firenze. Lucca è vivibile, ha il suo perché. La fiera dei gatti però si presenta subito diversa da come la immaginavo. Il gatto è l’animale nobile per eccellenza e mi ero già prefigurato merletti e tappeti rossi dove le celebrità gatte sfilavano altezzose. Invece mi accoglie il solito capannone. Per carità, si tratta di un Polo Fieristico con tutti i crismi, funzionale e pratico, ma santo cielo io non ne posso più di questi capannoni. Poi in Toscana… siamo stati la culla del Rinascimento e ora siamo la landa del capannone. Fanno tutto in questi edifici a forma di parallelepipedo, col pavimento industriale e il color grigio spalmato ovunque. Saranno comodi ma non c’è fantasia, non c’è stile. I gatti lo meriterebbero.
Entro e rimango stupito. Uno strano silenzio aleggia tra gli stand, nonostante ci sia un sacco di gente. I gatti sono tutti alloggiati in apposite gabbiette predisposte in fila e l’effetto è come ogni volta che vedi gli animali in gabbia: ti senti in colpa. Loro riposano o giocano, alcuni paiono classicamente gatti dimostrando indifferenza o fastidio verso il prossimo, altri ancora sembrano un po’ tristi e si capisce che non amano stare in mostra. Per un attimo penso: menomale che non sono cani. Se fossero stati cani ci sarebbe stato un rumore infernale. I gatti invece sono esseri superiori, sopportano tutto: persino noi umani con le nostre manie del cazzo che li trattiamo come bambolotti.
Spezzo però una lancia a favore dei proprietari. Qui c’è tutta gente che ama i gatti. Il padrone di un gatto è diverso da quello di un cane, tendenzialmente è meno egocentrico e non andrebbe in giro con un sacchetto a raccattare la cacca in mezzo alla strada. Però c’è aspettativa. E vincere conta. Non si tratta di una semplice gara, qui ci sono giudici internazionali, giudici che vengono dall’Argentina, giudici che possono giudicare solo alcune categorie di gatto. Così ci sono angoli per il make up del felino, tizi che spazzolano e pettinano le bestiole e vedi sfrecciare signore vestite di pile e uomini alti due metri, che tengono un micio in mano come fosse un neonato, porgendolo al cielo, facendosi largo tra la folla che si apre con gli occhi a cuore di fronte al passaggio del vessillo. È il tragitto per arrivare dai giudici.
Al tavolo, un’anziana signora dalle buone maniere e con un ottimo inglese, esamina il micio toccandogli la pancia, le zampe, le orecchie mentre il padrone culla il proprio animalino come fosse un neonato. Ah, è sbagliato chiamarli padroni. Lo dicono anche dal palco: ogni gatto ha un “umano”, non un “padrone” e la differenza è sostanziale.
I gatti da competizione sono assurdi. Le categorie di gatto sono assurde. Dominano i Maine Koon che sono dei mici giganti ormai molto di moda. Realmente simili alle linci, hanno poco del felino ordinario. Dove lo tieni un bestione del genere? Come lo alimenti? La gente li guarda con una sorta di timoroso rispetto. Poi ci sono quelli che in foto mi hanno sempre fatto effetto: i gatti pelati o “naked”, i Canadian Sphynx ma che dal vivo invece sono bellissimi. Oppure gatti ciccioni di ogni tipo e super teneri come gli Scottish Short Hair, il gatto che ti fa impazzire. Sembra un menù dal quale non sai scegliere la portata più buona e vorresti fare pet teraphy con ognuno di loro. Tanti concorrenti sono anche allevatori e mettono a disposizione il loro biglietto da visita per chi vuol fare acquisti. Non alla Fiera, qui non si può vendere, ma solo avere un contatto.
Penso sia difficile scegliere un gatto. William Burroughs, che non era certo un sentimentale, ha scritto le sue pagine più tenere su questi animali spirituali in un volume edito da Adelphi che non potete non possedere e si intitola Il gatto in noi. Stando a Burroughs è sempre il gatto che sceglie te. E l’autore de Il Pasto Nudo, l’uomo che ha sparato in testa a sua moglie mentre facevano il numero del Guglielmo Tell in Messico, strafatti, e che si è fatto scarcerare pagando una tangente, riesce a farti piangere quando parla dei suoi mici.
Ma tutta questa poesia che cerco è continuamente disturbata dalle onde energetiche del capannone. Bambini spazientiti stuzzicano i mici dalle gabbiette nonostante le decine di cartelli in cui si specifica di non farlo. Vecchiette col cellulare fanno foto storte a mici scoglionatissimi, in alcuni casi palesemente disperati. Dove è la poesia? Poi li prendono e li portano sul palco e loro stanno pure buoni, si fanno fare tutto. Sono così dolci. I primi a sfilare sono i gatti portatori di handicap e giuro che sono al limite del pianto. Li amo. Ma la poesia continua a scendere. Intorno a me c’è solo oggettistica gattistica, dagli ombrelli coi mici ai giochini da grattare, passando per i vari mangimi e le cuccette e comprendendo un orrido angolo di oggettistica per umano a forma di gatto: le ciabatte, la borsa.
Dietro ai banchetti, vari commercianti girovaghi dallo sguardo stanco cercano di tirare avanti la baracca e un tipo con la bancarella dei popcorn spippola al cellulare. Sembra di essere a Lucca, non succede davvero una sega. Dopo un ora mi rendo conto che l’odore dei gatti è veramente forte e nonostante il mega amore che provo per loro decido che ne ho piene le palle. Sono un gattista 3.0. Mai con un gatto mio. Mai più di un’ora. Ho troppo rispetto per queste bestie, per imporre loro il mio delirio.