Fare una pera di eroina a una ragazza è la cosa più romantica che ho mai fatto nella mia vita.
O almeno, così mi sembrava quando avevo sedici anni. C’era della magia in quel gesto.
Un senso di comunione, di appartenenza.
Tutto ciò che eri e che avevi vissuto, la tua intera esistenza, si fermava lì, dentro a quella fiala, creando un’atmosfera impossibile da replicare in qualsiasi altro modo. Due persone che si fanno insieme stanno mettendo a nudo tutto ciò che sono sulla punta di un ago, nel modo più intimo, intenso e drammatico che si possa mai vivere con qualcuno.
Una solitudine condivisa e tormentata, che riesce a unire, quasi a incollare.
Il sangue si mischia in un istante di disperata vicinanza. Fino a rendere due parti uno stesso insieme.
Respiri.
Baci.
Sguardi.
Gesti di complicità.
Frenetica e angosciante prima, calda, persa e abbandonata dopo.
Puoi trovare qualsiasi sfumatura nell’anima di due persone che stanno per farsi: il dramma, l’emotività, l’estasi finale e l’eccitazione. La perdita di ogni vincolo terreno ed emotivo con la realtà. Quando ti fai, spesso capita alla fine di una giornata tormentata, o dopo diverse ore di astinenza.
Ore che usi per decidere se vivere o impiccarti, se smettere o ricominciare di nuovo.
Ma se passa troppo tempo il tuo corpo comincia a tremare.
E anche una volta trovati i soldi, o trovato un modo per trovare i soldi, qualcosa alla fine si complica sempre. Non c’è mai niente di facile nel farsi le pere. La guerra che combatti è sempre la stessa, ma ogni giorno diversa e più difficile.
Pensieri veloci, traditori. Bugiardi.
Ho visto piangere, mentire, correre e morire.
Ho visto nascondere, ingannare, scappare e non tornare.
Sempre e solo per arrivare a trovare qualche grammo per salvarti la vita e placare quel demone.
Perché è quando l’eroina finisce che cominciano i problemi.
Puoi averla per giorni, settimane, anche in quantità più o meno grandi, puoi avere contatti e svolte che ti rendono tutto più facile. Ma prima o poi, per un motivo o per un altro, quel momento arriva sempre.
Sai perfettamente che arriverà, ma non sai mai bene quando.
L’eroina finisce e il mondo si ferma.
L’angoscia sale.
È una sensazione che conosci, la senti avvicinarsi. Senti il suo respiro freddo ansimarti sul collo.
Poi quel freddo infame ti si attacca alle ossa e diventa una parte di te.
Te lo senti addosso, e sai che non te ne libererai fino a quando non ne avrai trovata ancora.
Perché l’eroina, quella meravigliosa bastarda, ti costringe a vivere il momento. È la puttana migliore del mondo. Sovrana. Ogni cosa ti porta da lei, ogni cosa lontana da lei in quel momento per te non esiste.
E ogni volta che ti serve, arrivare a lei sembra impossibile.
Impossibile trovare una dose.
Impossibile trovare dei soldi.
Impossibile trovare un contatto.
La frenesia aumenta, il sudore diventa sempre più freddo.
Chiamate.
Cabine telefoniche.
Schede.
Numeri che non rispondono mai, scritti su piccoli pezzetti di carta o pacchetti di sigarette.
Giri impazienti da una parte all’altra di Roma.
Quartieri dove sei conosciuto e altri dove non sei conosciuto e non conosci, ma devi rischiare, avventurarti fra i palazzi e i cortili di qualche casa popolare.
I campi nomadi, le Torri, Tor Bella Monaca, il Tufello, Termini. Nel degrado civile e urbano distinguere tra la persona giusta e quella sbagliata non è sempre così semplice.
Da quelle parti non trovi mai delle belle facce ad aspettarti, e rischi di finire in un attimo a spararti calce grattata dal muro.
Se andava bene trovavi una dose, e qualche minuto dopo eri in paradiso.
Ma quando andava male, eri nella merda.
Ho visto l’eroina passata da ragazzini, da vecchi, da carcerati agli arresti domiciliari, da donne incinte. Pali che ti facevano fare due o tre giri del palazzo prima di darti la tua busta. Cinquantenni in zoccoli e catene d’oro che ti mandavano a raccoglierla a tre isolati di distanza. Nigeriani, marocchini, tunisini che sputavano palline fuori dalla bocca e te le passavano ancora sporche di saliva. L’ho vista calata giù in qualche cestino da vecchie, grasse signore sgraziate, affacciate al balcone in mezzo ai panni stesi. L’ho trovata nascosta nei fori di una parete. L’ho raccolta in pacchetti accartocciati e buttati per terra vicino a un albero o un palo.
I campi rom.
Il fumo che usciva dai bidoni incendiati.
Quell’odore acre di plastica bruciata che a volte mi sento ancora addosso.
Ogni faccia, ogni vicolo dietro la stazione, ogni zingaro con la Mercedes, ognuno di loro in qualche modo è rimasto dentro di me.
Loro erano lì per quello, io ero lì per quello.
Vendere una dose, comprare una dose.
E se qualcuno stava attraversando quel viaggio infernale con te, quando alla fine di quella ricerca disperata trovavi quello che stavi cercando, tutte le barriere crollavano improvvisamente. In quel momento, quella diventava l’unica persona al mondo in grado di capirti davvero, nonostante la maggior parte delle volte fosse lì solo per caso o per necessità.
In più, i tossici spesso sono degli infami, senza speranze né prospettive.
Pronti a tutto.
E dopo essersi fatti con te e averti dato un bacio, se vai in overdose ti lasciano lì, ti levano la catenina, i soldi o l’orologio e se ne vanno di corsa a cercare un altro pezzo per farsi di nuovo.
Ma quando ti fai con qualcuno che senti vicino, con cui hai un legame vero, le cose cambiano.
La leva emotiva e l’atmosfera che viene a crearsi è magica e surreale. È sempre la stessa merda in fondo, ma la percepisci in un modo completamente diverso. Amplificato, più profondo.
E quando lo fai con una donna, la tua donna, si trasforma in qualcosa di ancora più grande.
Chi pensa di sapere cosa vuol dire essere sconvolto dall’amore, dovrebbe sentire cosa si prova vicino alla ragazza che ama mentre si fa una pera. E quella donna lì, quella con cui lo feci per la prima volta, io l’amavo. O almeno, pensavo di amarla.
In quel momento era la cosa più vicina alla mia idea di amore.
Un amore pieno, intenso e scostante, che mi sembrava più vero del vero.
Un amore puro e drammatico, che mi strappava le emozioni dallo stomaco con mani forti e me le risbatteva dritte in faccia.
Era molto bella, una di quelle ragazze che ti piacciono così tanto che fai quasi finta di non vederle.
Lei fingeva di essere pulita.
Io sapevo che stava mentendo.
Lo vedevo scritto nei suoi occhi quando mi guardava.
Queste cose, se ci sei dentro o ci sei stato, non puoi nasconderle a chi è come te.
Potrei riconoscere un tossico dal primo sguardo, dal primo passo che fa quando entra in una stanza.
Riconoscere chi fa uso di sostanze, per chi ci è stato dentro, è molto facile, e non lo puoi nascondere a chi sa vedere.
Certe cose ti restano attaccate addosso, e il tempo, da solo, non basta per cambiarle.
Dopo poco, infatti, scoprii che si faceva anche lei.
Un giorno ci ritrovammo a camminare insieme intorno ai vicoli della stazione Termini, in cerca di un grammo.
Decisi. Convinti.
Camminammo per quasi un’ora persi in una bolla d’amore e dipendenza.
Lei non era in astinenza, non si faceva regolarmente. Io invece sì, e già non mi sentivo benissimo.
L’atmosfera di quel pomeriggio però aveva portato anche lei sulle mie stesse frequenze, e in qualche modo anche me un po’ sulle sue: sentivo che la smania, l’agitazione, i morsi allo stomaco, la nausea e il sudore freddo si attenuavano grazie alla sua presenza. I passi che mi spingevano avanti e ancora più avanti, senza sosta e determinati, quel giorno mi sembravano diversi.
Più leggeri.
E mentre camminavo, lei mi seguiva fiduciosa.
Quel giorno prese il colore di un’avventura da affrontare insieme. Comprammo una busta da un marocchino vicino a Termini, aveva una «bianca» buonissima e il fatto che lo conoscessi mi evitò di dover aprire i pezzi per ricontrollarli subito dopo avergli dato i soldi.
Mi sembrava tutto diverso dal solito.
Se fossi stato da solo probabilmente me la sarei sparata lì, dietro a un cassonetto, in mezzo ai neri della stazione e ai barboni che dormivano sui cartoni, con le macchine della polizia che facevano i giri per controllare le strade e qualche turista che camminava per andare a prendere il suo treno. Ma quel giorno non andò così. Salimmo su un autobus fino a tornare nel posto dove dormivo, mentre stava già calando il buio della sera.
Arrivammo a casa.
Eravamo soli e tutto sembrava perfetto. Era notte ormai.
Iniziammo a tirare fuori tutto e ci preparammo con molta calma, una calma insolita.
Lei era meno abituata di me a quelle tarantelle e cercai in qualche modo di dare solennità al momento.
Mentre si sedeva vicino a me, presi una cassetta e la misi nel registratore.
21 Tyson, dei Cor Veleno.
Amavo quel pezzo, lo sentivo sempre prima di farmi e, per delle strane circostanze, ero arrivato ad associarlo a quei momenti.
Quelle sonorità così sporche e intense mi catturavano.
E quando il beat iniziava, la potenza del suono così ruvido e caldo sembrava dare perfettamente voce alla sfida contro il mondo che sentivo di affrontare da solo ogni volta.
Amavo quella traccia come amavo l’odore penetrante dell’eroina: mi accompagnavano alle porte di un altro mondo, proprio nel modo in cui io volevo entrarci.
Ovviamente, la traccia a tutto si riferiva meno che all’uso di sostanze, eppure in qualche modo quella canzone sembrava rappresentarmi perfettamente.
Anche se persa nella mia dipendenza, in me c’era un’estrema voglia di riscatto.
Mi sentivo forte e volevo arrivare al limite, vedere dove fosse. Sfidare la morte e uscirne vincitore.
Quando entrava quel giro di basso e chitarra, io cominciavo a preparare tutto.
La mia siringa.
La mia acqua.
La mia dose.
Lei se ne stava seduta vicino a me, affascinata. La guardai negli occhi per un attimo, poi le diedi un bacio e tornai a quello che stavo facendo. Mi disse che non si era mai fatta in vena, ma sapevo che stava mentendo. Di nuovo.
Mi chiese di farlo io per lei.
Se voleva che fossi io a farlo, lo avrei fatto. Ci avrebbe resi ancora più vicini.
Tieniti forte solo se senti il richiamo.
Immediatamente calò un’atmosfera drammatica, intima e disperata. L’aria sembrava essersi fatta più densa.
Respiravamo piano, trattenendo il fiato. Ogni rumore diventava quasi impercettibile.
Stavamo per aprire la porta che ci avrebbe condotto in un altro mondo.
Le tue poesie da ora in poi saranno scritte col sangue.
Cominciai a mischiare la sostanza con l’acqua e a squagliarla. Continuai a cuocerla fino a quando non fu abbastanza calda.
Bollente.
Una volta cotta, iniziai a mescolarla con la siringa all’interno della boccetta dell’acqua distillata.
Poi presi un pezzo del filtro della sigaretta, lo misi sulla punta della siringa e tirai su per filtrare dal taglio tutta la sostanza.
Lo feci due volte, con due insuline diverse. Lei mi guardò negli occhi, e io guardai lei.
Strinsi il suo braccio con il pugno, e quando la vena cominciò a gonfiarsi, infilai dolcemente l’ago nella carne.
Poi tirai su, prima di iniettare, per vedere se l’avevo presa.
Immediatamente il liquido rosso e scuro entrò, mischiandosi con l’eroina.
Quel flusso di sangue era una visione ipnotica.
Vedevo in quel liquido l’unione di ciò che ero e ciò che sarei diventato nel giro di pochi secondi. Niente più pensieri angoscianti, sudori freddi, ansie e paure. Ricchezza o povertà, disperazione o gioia. Niente più stronzate su come ce l’avrei fatta o sarei cambiato. In quel preciso momento, ce l’avevo già fatta.
Il mal di pancia.
Il freddo.
Il senso di vuoto.
Appena la prima goccia di eroina bollente entrava nelle vene, si trasformava in un calore avvolgente da cui non sarei voluto uscire mai più. I brividi dell’astinenza che correvano sopra e sotto la mia pelle venivano travolti da quel flusso caldo.
In quei momenti avrei potuto baciare un uomo, una donna, un vecchio, un palo.
Stavo diventando il nucleo di magma da cui è nato l’intero universo.
Esisteva solo quello e nient’altro.
Immersi in quella stanza, il fluido rosso delle nostre vene si mischiava dolcemente dentro un’insulina, e ci raccontava che ora, finalmente, tutto era al suo posto.
Lei si stava affidando a me, completamente. La sua vita.
La mia morte.
La nostra innocenza.
Il suo disperato amore nelle mie mani.
Esiste un gesto di devozione più grande di questo?
In quel momento mi sembrava di no.
Iniettai tutta l’eroina che era nella siringa.
Lo feci piano, lentamente, per vedere che effetto le facesse.
Volevo essere sicuro che nulla andasse storto, che lei non si sentisse male.
Quando sfilai l’ago, una goccia di sangue cominciò a scenderle sul braccio, formando un piccolo rivolo sulla sua pelle. La baciai proprio lì, in quel punto, portando via con le mie labbra tutto il sangue rimasto. Poi baciai anche lei.
Un bacio intenso, lento, che durò a lungo.
I suoi occhi cominciarono a vacillare, il suo sguardo mi diceva che aveva già iniziato il cammino verso quegli abissi caldi e meravigliosi.
Per un attimo non fummo più insieme. Ora toccava a me.
Mi feci in fretta, come facevo sempre, perché adesso non c’erano più maschere da tenere. Non mi soffermai a guardare nulla, controllai solo di aver preso la vena, per essere sicuro di non sprecarla. Ma avevo vene grandi, e non sbagliavo mai.
Quando tirai fuori la siringa, lei non era più nemmeno in condizione di tenere gli occhi aperti. Ma mi fermò, lentamente.
Ripeté lo stesso gesto che io, poco prima, avevo fatto con lei. Prese la mia mano, baciò il mio sangue e poi baciò me. In quella notte morbida, lunga e intensa, l’eroina stava amplificando ogni nostro piccolo gesto.
Eravamo ritornati nel brodo primordiale e ci stavamo facendo il bagno dentro.
La nostra intimità, le nostre individualità si erano fuse insieme, mentre la Terra ci girava intorno.
Eravamo diventati un embrione, rientrato con un ago nel suo grembo materno.
Camminavamo veloci, in equilibrio tra la vita e la morte.
Tutto quello che eravamo, la nostra stessa esistenza, stava volando via, stretta in un abbraccio caldo.
Eravamo un bacio insanguinato.
Avevamo firmato così il nostro patto d’amore.
Un patto segreto.
Per sempre.
Tratto da ’33’ di Marco Ubertini, Sperling & Kupfer. La prefazione del libro è di Coez.