Ho vissuto per circa un anno negli Stati Uniti – a New York – a cavallo tra il 2013 e il 2014, un’esperienza che ha sì avuto parecchi pregi, ma che ha pure contribuito a un aumento esponenziale della mia ansia, soprattutto per quanto riguarda il tema: casa. La ricerca di una stanza (ribattezzata in fretta SdM, Stanza di Merda) mi tenne impegnata più di un mese, durante il quale vidi un po’ di tutto: appartamenti con bagni privi di lavandino («Che problema c’è, ci laviamo i denti in cucina!»); deliziosi loft corredati da topolino («Di’ ciao a Mickey Mouse!»); loculi spacciati per imperdibili opportunità («Che ti frega dello spazio, l’importante è la posizione!»). Mentre la speranza di vivere nell’East Village si allontanava per via di case infestate da scarafaggi e camere da letto grandi quanto sgabuzzini per la modica cifra di 1.800 dollari al mese (esclusi luce, gas e Internet), prendeva piede l’ipotesi di spostarmi al di là del ponte, in quella Brooklyn che, dicevano, era sicuramente più cool e affordable rispetto a Manhattan.
Così feci, e non cascai nemmeno male: finii a Williamsburg, in un appartamento spazioso al terzo piano (senza ascensore) di un building vecchio stile, con le scale storte, dei vicini bizzarri e un bagno cieco piastrellato che mendicava una riammodernata. A un certo punto mi convinsi di dover fare della capacità d’adattamento virtù, e mi decisi a pagare 1.400 dollari per un’ampia stanza dotata di un minuscolo walk-in closet; una cucina attrezzata; il bagno cieco di cui sopra; un coinquilino con qualche problema di droga; un cane sotto psicofarmaci (la mela non cade lontano dall’albero); una lavatrice inesistente che mi obbligava – col sole, col vento, con la pioggia o con la neve – a marciare col sacco della biancheria in spalla almeno una volta alla settimana fino alla lavanderia più vicina.
Un’esagerazione? Ovvio, ma giuro che mi era andata meno peggio che a tanta gente, ché il mercato immobiliare newyorchese – allora come adesso – non perdona e basa la sua ragion d’essere sulla sottile arte del compromesso. Metri quadrati o posizione. Due bagni o uno soltanto. Casa vuota o arredata. Coinquilini pazzi o sani di mente. Topi o scarafaggi. Ascensore o scale pericolanti. Minimo comun denominatore: l’impossibilità di vivere per conto proprio a meno di non essere schifosamente ricchi e poter regalare minimo 3mila dollari mensili a una quarantina di metri quadri in un quartiere dove la gentrificazione, giurano gli esperti, sta già arrivando. In una città verticale per natura, in cui è normale chiedere a qualcuno quanto guadagna subito dopo avergli stretto la mano, iniziai mio malgrado a sviluppare una malsana ossessione per gli appartamenti altrui, reali o immaginari che fossero. Mi trasformai, insomma, nella versione real estate del Nanni Moretti di Ecce bombo, con un’unica domanda che occupava prepotentemente i miei pensieri: ma come accidenti fanno i personaggi di alcune serie tv a permettersi le loro case?
Madre dei miei personali assilli, la Carrie Bradshaw di Sex and the City, rea di aver insegnato al mondo che sì, è possibile abitare nell’Upper East Side e possedere mille paia di Manolo Blahnik grazie a una rubrichetta su un giornale di second’ordine. L’inganno di Carrie era duplice: primo, il suo vero appartamento non si trova nell’Upper East Side bensì nel West Village, forse il quartiere più caro di New York da un punto di vista immobiliare; secondo, l’averci fatto credere in una leggenda metropolitana come quella dell’affitto bloccato, chimera di matrice anni ’80 che già nel decennio successivo non esisteva quasi più. Morale: l’eroina di Sarah Jessica Parker, raccontando le sue vicissitudini, si garantiva, oltre ai 700 dollari di locazione (per raggiungere il prezzo di mercato stimato aggiungetene 2.500), pure le spese folli in borse, scarpe, vestiti e accessori coordinati.
Non finisce qui, dato che ancora più incredibile è l’attico dove corona l’amore con Mr. Big: il lavoro di John Preston nell’alta finanza riuscirebbe davvero a coprire il costo di una penthouse con guardaroba-monolocale annesso, che si aggira intorno ai 50 milioni di dollari – 200mila dollari mensili in caso d’affitto? Come sei venale, replicherebbero le fan Sex and the City. Noi non ci perdiamo in simili piccinerie, a noi basta il sogno. Benissimo, signore. Veniamo allora al mio ex-vicinato, partendo da Max (Kat Dennings) e Caroline (Beth Behrs), le amiche di 2 Broke Girls. Le due – lo dice il titolo stesso della serie – sono broke, non hanno il becco d’un soldo, eppure servendo ai tavoli di un ristorante assai poco elegante potevano permettersi uno studio apartment a Williamsburg (3mila dollari), munito di un enorme cortile (3.500 dollari, dai) in cui era parcheggiato un cavallo (aiuto, mi sta andando in tilt il cervello).
Le cose non vanno meglio in Girls: Hannah (Lena Dunham) e Marnie (Alison Williams) occupavano un trilocale ben più grande di una scatola da scarpe, la dimensione che ci si aspetterebbe da qualsiasi trilocale occupato da una coppia d’amiche ventenni a New York. Per di più stavano a Greenpoint, graziosissimo quartiere a nord di Williamsburg, dove una metratura del genere si attesta in media intorno ai 3.300/3.500 dollari al mese: la prima è una cameriera, la seconda è assistente presso una galleria d’arte – e nel giro di poche puntate perde il posto. Il benefattore che consente a entrambe di pagare l’affitto ogni mese rimane tuttora ignoto. Il mistero s’infittisce quando Marnie si trasferisce insieme al marito Desi (Ebon Moss-Bachrach) a Chinatown, in un bugigattolo da 2.700 dollari mensili che i due – musicisti in bolletta e in cerca di una fama che tarda ad arrivare – non si sa come facciano a mantenere. Sempre in tema di musicisti, Rufus Humphrey (Matthew Settle) – padre del Dan Humphrey (Penn Badgley) di Gossip Girl, rocker in pensione e proprietario di una galleria d’arte che mica è la Gagosian – tirava su i figli in un quadrilocale a DUMBO, quartiere übercool di Brooklyn investito dal caro-affitti: non meno di 10mila dollari al mese per la casa degli Humphrey, diciamo anche 7mila ai tempi della serie, che vanno ad aggiungersi ai costi per l’educazione dei pargoli in scuole private parecchio à la page.
Non è ben chiara la location precisa dell’appartamento di Dev (Aziz Ansari) di Master of None: Lower East Side o Williamsburg? Che fosse Manhattan o Brooklyn, resta il fatto che Dev – single, trentenne, attore wannabe che vanta all’attivo un unico spot di successo – ci viveva da solo; e, a meno di non essere un abilissimo negoziatore di diritti, è alquanto improbabile che potesse permettersi cifre comprese tra i 2.700 e i 3mila dollari mensili.
La solfa non cambia se ci si sposta a Los Angeles: per il pubblico di New Girl doveva risultare plausibile che quattro ragazzi (un ex giocatore di basket, un barista, un marketing manager e un’insegnante elementare) guadagnassero abbastanza per vivere nel cuore dell’Arts District, in un loft con quattro enormi camere da letto, accesso al rooftop, una splendida cucina, una zona lavanderia, un bagno che pareva quello di uno spogliatoio e un’immensa zona living. Nella stessa area e nello stesso building esistono solo appartamenti da una, massimo due camere da letto, che vanno da 2.290 a 3.500 dollari al mese: fate voi i calcoli, moltiplicando l’importo per quattro.
Questo «real estate porn», come l’ha definito il New York Times, tocca il suo apice in Modern Love, adattamento televisivo dell’omonima rubrica del New York Times medesimo. Maureen Ryan sottolinea (giustamente) l’improbabile estrazione medio e alto-borghese di tutti i personaggi, che vivono in ricche case boho-chic con dettagli assai più memorabili delle storie che si svolgono al loro interno. Basta guardare il primo episodio per credere: Maggie (Cristin Milioti) recensisce libri da freelance e vive in un suntuoso palazzo prebellico munito di portineria a Prospect Heights, Brooklyn, «uno scenario più fantasioso di qualsiasi cosa mai accaduta in Game of Thrones», e macinando puntate l’andazzo non migliora.
Ultima in ordine di tempo, ma non meno importante, la bellissima, scazzatissima e insopportabile Rob (Zoë Kravitz) di High Fidelity, che a trent’anni gestisce – non si sa come – un negozio di dischi sempre mezzo vuoto e abita per i fatti suoi a Crown Heights, Brooklyn, che non è Williamsburg ma si difende gran bene. Il walkup building di Rob è situato al 615 di Lincoln Place, all’incrocio con St. Charles Place, una pittoresca strada a due passi dai bar e ristoranti più famosi del quartiere, nonché da Prospect Park. Su Streeteasy, gli appartamenti simili al suo vengono affittati a cifre comprese tra i 2.800 e i 3.500 dollari, e qui è sorto un interrogativo che non mi ha lasciata fino all’ultimo episodio: che cos’è più inconcepibile, che quella figa spaziale di Rob venga puntualmente mollata dal fidanzato di turno o che riesca a permettersi di pagare l’affitto vendendo un vinile al giorno? Da persona calcolatrice quale sono, propendo più per la seconda e azzardo un’ulteriore ipotesi: oggi, nelle serie tv, non è tanto l’abito a fare la coolness (tranne che per Carrie Bradshaw), quanto l’indirizzo di casa. E pure il famoso Kravitz factor di Rob, che molto probabilmente soccomberebbe nel Queens, a Staten Island o nel Bronx, non potrebbe essere più d’accordo.