Il coronavirus ci ha liberato da ciò che, più o meno segretamente, consideravamo ormai una fatica anacronistica: incontrare gli altri.
Basta pensare alle sigarette. Il fumatore è un tizio che non sapeva dove infilare le mani durante una conversazione con estranei e conoscenti. Queste due propaggini sempre di troppo, imbizzarrite. Un corpo perennemente fuori luogo, che pretende spazio. Quel corpo sei tu. E sei una minaccia, un intruso nella vita altrui. La sigaretta ti salva. Ora ho il mio da fare, vedete? Devo infilarmi in bocca questa cosa, espirare, e poi di nuovo.
Sentirsi giudicati non è una devianza, è la base delle relazioni umane. La distinzione tra amico e nemico è istintiva, e noi lo intuiamo. La vicinanza degli altri corpi mette in allerta i milioni di anni di lotta per la vita che custodiamo da qualche parte nella nostra paleocorteccia. Dopo pochi minuti di conversazione – a volte basta una parola o uno sguardo – gli altri ti hanno già classificato. E difficilmente noi vogliamo essere classificati come nemici. Comporterebbe un sacco di problemi: imbarazzo, spiegazioni, scuse. Amami, piuttosto, pensiamo. Ma di persona è difficile fingere: il peso, l’altezza, l’accento, l’odore, l’atteggiamento, i tic, le convinzioni profonde, che ti scappano di bocca prima che tu riesca a ricacciarle in gola. Di persona ci si tradisce in innumerevoli modi. Di persona tocca essere se stessi. Almeno in certa misura. Da qui, la pace del travestimento, la gioia del carnevale.
La società è una tortura quotidiana. Una lotta educata per la supremazia spaziale, una civile guerriglia, tutti contro tutti. L’alcol serve a questo: a darci il coraggio di affrontare la guerriglia. In fondo io non sono poi così male, pensiamo dopo un paio di bicchieri. Non posso non piacergli. E se non gli piaccio, affari suoi. Sopportiamo la ressa, in discoteche e locali, solo se sbronzi. Passata la sbronza, siamo da capo. Quando avevamo programmato un’uscita dopo una giornata faticosa e per qualche motivo quell’uscita salta, cuocendoci due uova in padella e poi mangiucchiandole sul divano, in silenzio e in solitudine, nel segreto, ci sentiamo salvi, redenti, nel posto dove dovevamo essere, nel nostro luogo. Certo, un po’ soli.
Ed ecco il successo di Facebook, Instagram, Twitter, Tinder. Un simulacro di vita sociale, senza gli inconvenienti connaturati a questi corpi da mammiferi onnivori e potenzialmente violenti. A distanza si piace di più. Si ha il tempo di meditare le parole, si ha modo di variare peso e altezza, di migliorare i connotati, di addolcire le espressioni, nei filmati possiamo perfino controllare tic e nevrosi – al massimo cancelliamo e registriamo di nuovo. Creiamo una proiezione che più facilmente verrà considerata amica dagli altri. Non è vero che nella nostra civiltà conta la bellezza del corpo. Conta la bellezza dell’immagine. I veri avversari dei chirurghi plastici non sono i testi sull’auto-accettazione e i trattati filosofici, sono i filtri di Instagram. Non ci si libera dall’orrore di essere se stessi leggendo Il coraggio di non piacere, Il manuale del guerriero della luce o Buddha per impiegati. Sui social possiamo anche calibrare le nostre risposte verbali: studiare le inclinazioni ideologiche e morali di coloro ai quali sono rivolte, analizzare i loro amici, immaginare il loro clan di appartenenza, pianificare con diplomazia le alleanze.
Arriva il coronavirus: quarantene, isolamenti, zone gialle e rosse. Consigliano un metro e mezzo di distanza. Che liberazione. Plausibilmente il livello di colesterolo si abbassa, non dobbiamo lottare per il nostro spazio vitale, ce lo assicura l’ordinanza del sindaco. In altre epoche, quando potevamo soddisfare il nostro bisogno di socialità solo a prezzo della vicinanza fisica, saremmo stati infetti meno mansueti. Adesso invece eravamo già pronti. In questi giorni si lamenta quasi nessuno. Ci preoccupa solo l’aspetto economico: vendere di meno, comprare di meno, meno trasferte e strette di mano: meno accordi commerciali. Per il resto, ce ne andiamo a lavoro con la nostra vaschetta piena di insalata, non alziamo la testa dal pc, otto ore di ticchettii sterilizzati dall’amuchina, e poi via, diretti verso casa senza guardare in faccia nessuno. Ci comportiamo così perché siamo circondati da possibili contagiati. Ci fa comodo crederlo. In realtà ci comportiamo così perché siamo circondati da nostri simili. Non ne potevamo più, di questi altri. Finalmente una buona scusa per portare a compimento la nostra evoluzione monocellulare. Come quando nevica: le strade sono bloccate, guarda che disastro, non ti senti in colpa a restartene a letto.
L’isolamento da epidemia è l’entelechia della civiltà digitale. Il coronavirus, poveraccio, credeva di avere fatto il proprio ingresso nella Storia al momento giusto: le low cost, la globalizzazione, la libera circolazione degli individui. Me li mangio tutti, si sfregava le mani. All’inizio i fatti gli hanno dato ragione. Ma non avrebbe passato l’esame di psicologia, il buon vecchio virus. Se questa condizione d’emergenza diventasse la norma, la maggioranza di noi, sotto sotto, non farebbe questo gran sforzo ad accettarla. Le proteste esploderebbero in maniera ben più violenta per un altro virus: informatico, che ci impedisse la connessione a internet per mesi. Dio mio, distruggi le nostre cellule ma non i nostri gigabit.