Chi ama la musica non può non amare la XL Recordings, un’eccellenza assoluta della discografia indipendente mondiale che fin dagli anni ’90 ha pubblicato album meravigliosi come quelli dei Radiohead, Adele, Sampha, Vampire Weekend, Prodigy, Sigur Rós, White Stripes, M.I.A., King Krule e di tanti altri ancora. L’uomo dietro a questa fabbrica dei sogni è Richard Russell, un produttore inglese e collezionista di dischi di 49 anni dalla visione illuminata ed eclettica. Ed è anche l’uomo dietro al progetto Everything Is Recorded, una sorta di suo personalissimo parco giochi in cui, affiancato da talenti emergenti e leggende della musica, raccoglie tutto quel che ha voglia di registrare (come dice il nome stesso) nel suo studio londinese, quando non è occupato a lavorare agli album altrui.
Il primo capitolo della saga, che si intitolava proprio Everything Is Recorded, è uscito nel 2018 e ha stupito tutti per la sua delicatezza e intensità; il secondo, Friday Forever, sarà pubblicato questo venerdì 3 aprile e mette insieme artisti urban emergenti come FLOHIO, Infinite Coles e Aitch, talenti ancora sconosciuti dell’elettronica sperimentale come James Massiah, cantautori come Maria Somerville e Kean Kavanagh e perfino Ghostface Killah del Wu-Tang Clan e Penny Rimbaud dei Crass. Tutto ciò che di buono la XL ha prodotto, in termini di sound, è condensato in questo disco, che è un concept album ambientato in un qualsiasi venerdì sera (pre-lockdown, ovviamente).
Lo raggiungiamo al telefono quando a Londra la situazione è ancora relativamente normale, e qui da noi la quarantena è appena iniziata. «Mi raccomando, tenete duro», ci tiene a dire ai suoi ascoltatori italiani prima ancora di iniziare a parlare di musica.
Quando è nato il progetto Everything Is Recorded?
Qualche anno fa, nel mio studio di registrazione, mentre ero al lavoro sull’album di debutto delle Ibeyi e avevo finito da poco di lavorare con Lee Scratch Perry. Per me è una sorta di santuario, una casa costruita apposta per dare asilo all’arte e alla creatività: sul muro ho appeso un cartello che dice “Lasciate fuori la realtà e il mondo esterno”. È sempre pieno di gente che va e viene, e all’improvviso mi sono reso conto che collaborare con altre persone era più divertente che fare musica da solo. È stata quasi una rivelazione esistenziale, e infatti l’album parla proprio di quello, in fondo. Uscivo da una lunga malattia molto debilitante (la sindrome di Guillain-Barré, un disturbo autoimmune che aveva seriamente ridotto la sua capacità di movimento, nda) e avevo avuto una o due folgorazioni sul senso della vita. Così, tra il luogo, il processo di guarigione e gli artisti con cui stavo lavorando, si può dire che Everything Is Recorded sia semplicemente accaduto: non l’avevo pianificato.
Il secondo, invece, è frutto di una decisione pianificata?
In realtà non proprio. Sono sempre in ballo con qualche registrazione: ogni volta che entro in studio faccio musica, anche quando non sto lavorando a nessun disco. In generale faccio cose per conto mio, in auto-isolamento, il che è perfetto per lo spirito dei tempi. Sono come quei produttori da cameretta che adorano il comfort della loro solitudine. Insomma, stavo facendo degli esperimenti su un campione di un coro, cercando di trasformarlo in una nuova canzone, quando mi è tornata in mente una frase di Francis Ford Coppola: “Se vuoi fare un buon film, devi avere già ben presente quale sarà il finale”. Così ho pensato che quella canzone sarebbe potuta diventare il perfetto finale di un audio-film targato Everything is Recorded. Avevo anche un altro paio di canzoni in lavorazione, che mi ricordavano le atmosfere dei club dove andavo a ballare quando ero giovane, e mi è venuto in mente che il mio film avrebbe potuto raccontare una storia che si svolgeva durante una nottata in giro. Da lì è venuto tutto naturale, anche perché tutti gli artisti con cui ho collaborato avevano un sacco di esperienze da raccontare sulla loro vita notturna.
La storia che raccontate nell’album ha un vero e proprio filo conduttore, quindi?
All’inizio era una specie di sceneggiatura: ne volevamo fare un film, avevamo già anche un regista. Poi ho capito che forse non era il caso, perché avrebbe limitato l’immaginazione dell’ascoltatore. Volevo che fosse un progetto aperto all’interpretazione della gente; credo che ci siamo riusciti, ma allo stesso tempo penso abbia anche una narrazione coerente, una voce, un percorso.
La copertina è molto particolare, c’entra qualcosa con questo concetto di film?
Così come io ho campionato molti dischi per arrivare a fare quest’album, l’artista che ci ha lavorato ha campionato diversi dipinti per arrivare al risultato finale. È uno dei miei migliori amici: gli ho dato l’album da ascoltare in anteprima e lui ha viaggiato in tutto il mondo, scovando nelle varie gallerie d’arte delle porzioni di dipinto da riprodurre all’interno della nostra copertina.
E il fatto che ci siano così tanti interludi parlati?
Quello viene dal mio amore per i dischi rap, soprattutto quelli dei Public Enemy, che contenevano tantissimo spoken word. Inoltre, quando ero piccolo mio padre ascoltava spesso vinili che contenevano le registrazioni degli spettacoli dei comici dell’epoca, come i Monty Python. Credo che usare un discorso parlato all’interno di una canzone sia un’arte: ci sono milioni di parole là fuori, e volevo trovare quelle giuste, che mi appartenessero davvero, da utilizzare in quest’album. Spero di esserci riuscito.
Alcune delle canzoni sono un po’ inaspettate, per chi aveva ascoltato e apprezzato il precedente album targato Everything Is Recorded. 01.32 AM / Walk Alone, per esempio, ha delle vibrazioni molto più dance rispetto alle atmosfere riflessive a cui ci avevi abituato…
So che è un po’ insolito. Quel pezzo in particolare ha un campione tratto da un classico della musica garage pubblicato dalla Vinylmania, che è l’etichetta affiliata al negozio di dischi di New York in cui lavoravo a 18 anni. Quell’anno trascorso in America ascoltando la musica da club è stato molto importante per me, ha influenzato molto i miei gusti, e volevo che per i miei ascoltatori fosse chiaro. In generale, anche se le atmosfere restano molto soul, ho usato delle ritmiche diverse da quelle che utilizzo normalmente, ma nella seconda metà del disco i beat sono un po’ più psichedelici e sognanti.
In effetti Friday Forever dà l’impressione di curiosare in un negozio di dischi, o nella collezione di dischi di qualcun altro…
Sicuramente i campioni sono una parte molto importante nella costruzione di questo lavoro, e contribuiscono a creare quell’effetto. Sono quasi tutti dischi degli anni ’70, ’80 e ’90, e creano un mood che viene poi completato dagli artisti con cui ho collaborato. È stato un processo molto delicato, perché devi sempre avere bene in mente la persona a cui vorresti dare un beat quando lo crei.
A proposito, come hai selezionato gli artisti che hanno collaborato all’album?
A sentimento. Penso che le sensazioni a pelle siano una delle cose più importanti, nella musica. È come fare il casting per un film: non basta trovare un attore bravo, deve anche farti scattare qualcosa. Non faccio calcoli o ricerche, ho fiducia che quando entrerò nel pieno del processo creativo incontrerò gli artisti giusti per il progetto. Ho avuto la fortuna di conoscere tantissime persone piene di talento nel corso della mia vita, ma non posso ascoltare tutto ciò che esce, non ne sarei in grado. Devo avere fiducia nel fatto che, se non sarò io a trovare gli artisti che cerco, saranno loro a trovare me.
Non bisognerebbe mai chiederlo, ma hai una traccia preferita, tra quelle dell’album?
È ovviamente difficile, perché sono tutte figlie mie, ma credo che se proprio dovessi scegliere probabilmente punterei su 03.15 AM / Caviar, con Ghostface Killah del Wu-Tang Clan, e su 11.59 AM / Circles con Penny Rimbaud dei Crass. Sono due miei miti, musicalmente parlando: il primo è parte di uno dei gruppi hip hop più importanti di sempre, il secondo è una leggenda del punk e porta avanti da sempre il vero spirito del DIY. L’idea di poter lavorare con artisti del genere, a cui ho sempre guardato con ammirazione, mi ha riempito di gioia. Ma anche scoprire tanti nuovi talenti è stato bellissimo.
Con la tua XL Recordings hai sempre voluto investire sui nuovi talenti, e ci hai quasi sempre azzeccato. Come fai a capire chi ha le carte giuste per entrare a far parte della tua etichetta?
Anche in questo caso è questione di emozione: non guardo mai alle cifre, alle visualizzazioni, alle statistiche o al tipo di prodotto. Sono cose completamente irrilevanti, per me, non significano niente. Spesso gli artisti più speciali sono quelli che ascolta poca gente e sono davvero contento di aver contributo a creare un’etichetta che possa aiutarli a farsi notare. È anche per questo che le uscite della XL sono relativamente poche: cerco di pubblicare solo prodotti che abbiano un significato reale e che siano davvero buoni, culturalmente rilevanti e magari che contribuiscano a creare dei cambiamenti nel mondo che ci circonda.
Tra i tanti che hai lanciato c’è anche una delle star del pop più importanti del nuovo millennio, Adele. È curioso pensare che sia diventata una delle bandiere della XL, visto che il tipo di musica che fa c’entra poco con il suono distintivo degli altri artisti che pubblicate…
Penso nessuno dei nostri artisti assomigli agli altri. Ognuno di loro ha trovato una maniera unica e personale per esprimersi. All’inizio sicuramente la XL aveva un suono distintivo, o comunque faceva riferimento a un certo tipo di scena musicale. Ma un’etichetta è come un artista, si evolve ed è libera di cambiare sound, a un certo punto, a volte di pari passo con la sua scena, o a volte perché comincia ad essere influenzata da nuovi sound. Penso che sia importante rimanere mentalmente aperti, per assicurarci una longevità. Insomma, non c’è nulla di insolito o di strano nel fatto che un’artista come Adele si trovi nel nostro roster.
In contemporanea all’album uscirà anche la tua autobiografia, Liberation Through Hearing: Rap, Rave and the Rise of XL Recordings. Come mai hai deciso di scrivere un libro sulla tua vita proprio adesso?
È scritto dalla prospettiva di un fan dei bei dischi, ovvero dalla mia. È una specie di viaggio attraverso gli album che mi hanno ispirato, le persone con cui ho avuto il piacere di lavorare e la musica come atto liberatorio. È solo grazie a lei che sono davvero libero, e volevo condividere questa esperienza. Chissà cosa ne penserà chi lo leggerà, però… È una cosa del tutto nuova, per me: mi hanno chiesto di provarci e l’ho fatto, ma non sono molto abituato a esprimere i miei pensieri in forma di parole. Speriamo che la gente lo apprezzi comunque.