Parafrasando uno dei suoi brani più celebri, Siamo donne, si potrebbe dire che Giovanna Coletti aka Jo Squillo è tutto un “c’è di più”: un passato punk, l’italo disco, la televisione (chi non ricorda il game show Il grande gioco dell’oca?), il lancio di un format duraturo e credibile come TV Moda. È tornata alla ribalta ai tempi del Covid-19 con Jo in the House, una serie di dj set che stanno facendo molto parlare (dal lunedì al venerdì alle 17 e il sabato alle 22), diventando un cult formato Instagram.
Come sono nati questi dj set?
Dalle esigenze delle amiche che mi chiamavano dicendo che si sentivano sole, che erano in lacrime e non riuscivano nemmeno ad alzarsi. Alle mie ballerine Valentina e Michelle mancavo molto perché non facciamo più concerti, essendo stata annullata ogni attività.
E quindi?
Dopo aver messo a posto un po’ casa, fatto spazio e cucinato una torta, ho pensato fosse tempo di reagire e dare un senso a tutto questo che non ha un senso. Ho preso i manichini, li ho portati in terrazza e ho messo su un po’ di musica per le amiche e per quelli che si sentivano giù.
Perché l’hai fatto?
Perché so cosa vuol dire dolore e sofferenza: ho perso i genitori – uno fra l’altro con una broncopolmonite – e ho vissuto tutta la tragedia e lo strazio degli ospedali, dell’allontanamento, del non sapere cosa fare. Ho pensato, quindi, di asciugarmi le lacrime e asciugarle a tutti quelli che in questo momento soffrono. La musica è il modo migliore per lavare l’anima e guardare, attraverso un raggio di luce, quello che sta dentro di noi. Ricollocandoci in una parte più umana, più profonda, più sensibile.
Che cosa devono fare gli artisti in questo momento?
Il loro lavoro. Il mio dovere, come artista, è portare armonia e gioia nel cuore delle persone. E portare la mia energia sana, pulita, semplice, naturale, italiana. Un’energia di cui oggi abbiamo bisogno. Siamo in primavera e la primavera è rinascita. Dobbiamo amare la nostra Terra, come sto cercando di fare diventando persino vegana. Non bisogna provocare sofferenza. Mafalda diceva “Fermate il mondo che voglio scendere”. Il pianeta non si è fermato, non sarà più come prima. E ora noi artisti, visionari, ribelli, dobbiamo prendere in mano questo mondo per farlo girare dal verso giusto, più rispettoso, tollerante, amorevole e armonioso. La musica, con il ritmo, ha la capacità di tirare fuori il meraviglioso che c’è in noi.
Sei anche una conduttrice e probabilmente dopo questa emergenza cambierà il modo di fare tv…
Spero che cambi. La vita di prima non la rivoglio, ne voglio una migliore. Quello che ho fatto è un esempio del bello che possiamo fare noi italiani, del piccolo che diventa grande: ho iniziato sulla mia terrazza con le margherite, le ortensie e la musica a palla. Poi una sera, da 40 persone che eravamo, siamo diventati un popolo meraviglioso di 152 mila anime.
Ma quindi, chi fa intrattenimento oggi in tv, come lo vedi?
In qualche modo superato. Non ho bisogno di intrattenimento, ma ho bisogno di accoglienza, di dare un senso, sentirmi parte di un’umanità. Al di là dei bollettini, che è doveroso ascoltare, è tempo di ricostruire delle visioni diverse. Oggi spesso viene rappresentato il nulla: polemiche, odio, brutture, cattiverie, pettegolezzi. È la parte peggiore, non è quello che vogliamo vedere. La televisione viene superata – in un tempo di allontanamento sociale – dalla vicinanza offerta dai social. Per questo ho creato un movimento di liberazione.
Sarebbe a dire?
Celebriamo il meraviglioso modo di stare insieme in modo democratico. Sabato sera sembrava fossimo in un grande privé: era la più grande discoteca italiana. E tutti si sentivano parte di questo popolo accomunato dalle passioni. Il dolore che stiamo vivendo deve essere d’insegnamento, non deve cadere invano.
Sei diventata un fenomeno con “Jo in the House”. Le persone ti hanno riscoperta. Ti sei mai sentita sottovalutata?
Non mi faccio di questi problemi. Sono sempre stata una punk, ho sempre guardato avanti, non ho mai guardato indietro. Ho alle spalle 20 anni di musica più altri 20 di moda. Sono indipendente. Ho scritto 150 canzoni e quasi tutti mi chiedono Siamo donne, che rimane simbolo e inno delle donne di diverse generazioni. Anche Ravel ha composto il Bolero, ma anche tante altre cose molto più belle. A volte vieni riscoperta per caso.
Ti sei mai chiesta perché?
Credo che i miei genitori, dal cielo, mi abbiano guardata e mi abbiano insegnato a rinascere. È stata una rinascita sofferta, ma l’ho voluta condividere con gli altri. E sono contenta che in un momento così difficile possa essere d’aiuto. Sono commossa da quello che gli altri mi stanno dando, riconoscendo quello che sono sempre stata. Probabilmente sto insegnando a essere giovane, anche se ho una certa età.
Hai citato Siamo donne. A proposito, considerato che Sabrina Salerno è apparsa a Sanremo 2020, ci aspettavamo una celebrazione di quel brano sul palco dell’Ariston…
Io non mi aspetto mai niente dalla vita, ormai ho imparato.
Che mi dici della musica italiana di oggi?
È il rap e la trap. Mi fa piacere visto che è una strada che ho percorso. Anche il punk aveva dentro un modo di cantare e urlare basato più sul ritmo che sulla melodia. È una forma di comunicazione giovanile anche dissacrante, certe volte. Vorrei che seguisse meno cliché e stereotipi americani, che in quel contesto sono validi, ma nel nostro lo sono meno.
A che ti riferisci?
Alle gang, a queste cose anche un po’ maschiliste, stupidamente esplicative di una realtà che non fa parte della nostra cultura. Con la musica dobbiamo lanciare segnali di rispetto: le donne devono essere trattate in un certo modo, rispettate. Sesso, droga e puttane devono lasciare spazio al rispetto. Nella sua forma più nobile, però, questo genere è interessantissimo, il rap è un linguaggio che va oltre e, a dire la verità, sono 30 anni che lo faccio. Ho scritto brani come Voglio un microfono, Aria, Ode al reggiseno. Quest’ultima, ad esempio, è una canzone straordinaria che ha dei contenuti. Usavo il rap per dire delle cose, ancora oggi sono avanti.
Che mi dici invece del mondo del cantautorato, che è stato riscoperto?
Non mi piace la parola cantautore, perché uno deve imparare a fare tutto. Oggi è più facile. Quando lo facevo io, negli anni ’80, era un pochino più difficile.
Quindi cosa bisogna fare per essere grandi artisti?
Non essere interpreti. La figura dell’interprete non l’ho mai capita. Oggi c’è tutta una generazione di interpreti che viene dai talent. Ma quanti scrivono canzoni belle? Pochi. E allora, poverini, c’è un mercato anche limitato. Ci sono tanti artisti meno precisi dal punto di vista vocale – come Battisti che era leggermente stonicchiato – ma con un’empatia e una carica che vogliamo vedere.
Hai ideato TV Moda. C’è qualcosa che vorresti portare in televisione?
Ho creato tanti format in questo periodo. TV Moda è l’unico canale della moda visibile in tutto il mondo. L’unico. Se l’avesse fatto un altro sarebbero tutti lì a dire: «Cazzo!». Sono 20 anni che racconta la moda e supporta il Made in Italy nel mondo. Poi all’interno ci sono tanti contenitori e modi di raccontare, come il rapporto con le celebrities. Pensa che sono finita addirittura in un documentario su Lil Peep perché sono stata una delle ultime persone a intervistarlo. E lui era uno che non si faceva intervistare neanche da sua sorella.
E perché da te sì?
È una questione di rispetto artistico, empatia, sensibilità, sentimenti. Non a caso mi è venuto – con la mia mentalità punk – di andare sul terrazzo e mettere musica a palla con due manichini.
Che cosa ricordi con maggior piacere della tua carriera?
Tantissime cose, emozioni molto diverse. Quelle del palcoscenico come Sanremo, Rock Against Racism con Bob Geldof davanti a 150 mila persone, i concerti in cui lanciavo i tampax colorati di rosso per la campagna Tampax gratis, la canzone sui detenuti. E poi l’esibizione all’Arena di Verona in cui prima è uscita mia sorella gemella e poi, quando sono arrivata io, ho sentito 20 mila persone fare un “oh!” di meraviglia che è il senso dell’arte, della musica.
Lato non artistico, invece?
Quella che mi dà più gioia e soddisfazione è la realizzazione della mia parte sociale con la onlus Wall of Dolls che racconta, attraverso quattro documentari, dove nasce la violenza. Un progetto che vuole essere d’aiuto per capire ed essere contro il femminicidio e la violenza di genere. Questo è il mio impegno contro le ingiustizie. Sno stata anche una delle pochissime ad andare a trovare un amico, Chico Forti, ingiustamente in carcere da 20 anni. Voglio lanciare un messaggio di vicinanza a persone che non hanno commesso crimini e stanno pagando un prezzo altissimo. Sono cose che mi rimarranno per sempre, come il saluto in un carcere americano di questo italiano così giusto che non vorrei abbandonare.
Hai fatto anche un documentario in carcere: Donne in prigione si raccontano.
Ho ricevuto grandi insegnamenti dalle detenute e dalla polizia penitenziaria sulla vita quando non c’è più la libertà. Ho passato quattro mesi nel carcere di San Vittore insegnando. E dando la possibilità di cantare un brano di rinascita che ha scritto Martina, una reclusa. Un bellissimo progetto su chi deve e vuole pagare – perché le donne vogliono pagare per quello che hanno fatto – mantenendo la dignità umana.
Prossimo progetto?
Una canzone molto bella che ho registrato a New York dal titolo Strong Together.
Un’ultima curiosità. Durante Sanremo hai parlato delle canzoni di Junior Cally. I suoi follower, sui social, hanno controbattuto tirando in ballo il tuo brano Violentami. Cosa rispondi?
Non si può ignorare il movimento punk degli anni ’80 e cosa significa essere punk e le sue provocazioni. Io, donna, ho scritto “Violentami, violentami piccolo”, perché una ragazza era stata violentata in metropolitana, tutti pensavano se la fosse cercata e nessuno ha fatto niente per difenderla. Questa cosa, che succede ancora oggi, è frutto di una mentalità maschilista. Il punk era un modo per dire un no alla violenza sulle donne. Eravamo un gruppo di cinque ragazze terribili, le Kandeggina Gang, che andavano in giro a provocare. E la provocazione era “Violentami, violentami piccolo, se ne hai il coraggio”. Questo era il linguaggio degli anni ’80.
E quello di oggi qual è?
L’uniformità e l’adattamento di una cultura maschilista americana del “Yeah, io cazzo, tu puttana”. Il problema di questa generazione è che non conosce la musica del passato. Io ero punk, ma conoscevo i Beatles e i Rolling Stones. Essere giovani significa rielaborare il passato e farne tesoro: guarda, impara, studia e fai. Questa è la lezione.