Italia, Malta e Libia hanno chiuso i loro porti per l’emergenza coronavirus – per la prima volta, almeno formalmente, in tutta quell’area di Mediterraneo non c’è più nemmeno un porto sicuro. Ed è stata proprio l’Italia a dare l’esempio, dichiarando “non sicuri” i propri porti a causa dell’epidemia e decidendo di chiuderli attraverso un decreto firmato da quattro ministri – quello degli Esteri, Luigi Di Maio; quella dei Trasporti, Paola De Micheli; quella dell’Interno, Luciana Lamorgese; e quello della Salute, Roberto Speranza.
Il provvedimento non è stato ancora pubblicato nella Gazzetta Ufficiale ma è già stato una doccia gelata per tutte le organizzazioni non governative e di soccorso che lavorano ogni giorno nel Mediterraneo per salvare i migranti che cercano di raggiungere l’Europa. Sarà effettivo per l’intero periodo dell’emergenza e specifica che, per i soccorsi effettuati da navi straniere, “i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di Place of Safety (luogo sicuro) in virtù di quanto previsto dalla convenzione di Amburgo sul salvataggio marittimo”.
In particolare il provvedimento è arrivato in risposta alla richiesta di sbarco nei giorni scorsi avanzata dalla nave Alan Kurdi, che lunedì scorso ha salvato 150 migranti e al momento si trova a sud della Sicilia in attesa che le permettano di sbarcare. Dopo che l’Italia ha dato il là, anche Malta ha sposato la stessa linea, così come ha fatto la Libia.
“Una situazione gravissima”, ha detto a Rolling Stone Tareke Brhane, presidente del Comitato 3 ottobre e migrante a sua volta. “Pur comprendendo la situazione che il nostro Paese sta attraversando, l’emergenza non può essere gestita in questo modo. Nessuna ONG è stata consultata, nessuna realtà attiva sul campo. Chiudere non significa risolvere il problema. Noi abbiamo una casa, c’è gente che non l’ha mai avuta, che non ha patria. E noi dovremmo proteggere queste persone”.
Sebbene sia arrivato “in sordina” il provvedimento ha riscosso diverse critiche e reazioni. Alcuni parlamentari e senatori, insieme ad europarlamentari e amministratori locali hanno firmato un appello affinché vengano disposti protocolli sanitari adeguati e il decreto venga revocato. “Come abbiamo visto il virus non fa sconti a nessuno”, continua Brhane. “Firmare un decreto simile è come dire ‘non m’interessa se muori’, come se la vita di una persona valesse più di quella di un altra”.
Anche perché le alternative per gestire sbarchi e coronavirus ci sono. “In Sicilia ma non solo, ci sono tante strutture vuote dove si possono applicare i protocolli sanitari e quindi mettere in quarantena i migranti”, spiega Brhane. Lo stesso sindaco di Lampedusa, Salvatore Martello ha chiesto che arrivi “una nave dell’accoglienza” per svolgere i controlli sanitari necessari alle persone in arrivo – mentre sull’isola continuano quasi quotidianamente a registrarsi sbarchi autonomi. “Chiudendo i porti si sta negando il diritto di asilo, sospendendo quindi la convenzione internazionale. Il coronavirus non spaventa i migranti e continueranno a partire”.
E anche per i migranti già presenti nel nostro Paese la situazione in seguito alla pandemia si è fatta molto complessa. A differenza di quanto accaduto in Portogallo, dove sono stati temporaneamente regolarizzati – fino al 1 luglio – tutti i migranti per assicurare assistenza sanitaria e accesso ai servizi pubblici anche alle fasce più vulnerabili della popolazione, in Italia non è stata presa alcuna misura da questo punto di vista.
“Da una parte il governo ha sospeso le fuoriuscite dagli Sprar – il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati – ma dall’altra ci sono persone che si trovano in strada e non hanno diritto a nessun sussidio. C’è chi ha il permesso di soggiorno scaduto e con le procedure attualmente sospese, la situazione è molto difficile. Non possono nemmeno chiedere un pezzo di pane”.