Interno Borghi
Scattare una cover story nonostante il lockdown si può. Basta avere Alessandro Borghi, uno shooting che si è fatto (quasi) da solo e una nuova serie ('Diavoli') che lo riconferma tra i migliori della sua generazione. Non definitelo «un attore che sa fare tutto». Borghi voleva solo fuggire da Alessandro. Poi è arrivata la quarantena
Foto: Alessandro Borghi
Il tempo che, come noi tutti, sta vivendo Alessandro Borghi, lo fissa lui stesso nelle foto che vedete. Lo shooting te lo devi scattare da solo. Fatto. Pure fotografo. Però. «Fortuna con me c’è Irene, la mia fidanzata. Diciamo che l’abbiamo fatto insieme. Prima le prove generali, con io che fotografavo lei. Poi le ho detto: questi sono gli ambienti e le luci. E le ho dato la reflex». Casa, libri, fogli di giornale: per auto e viaggi, non è ancora tempo. «Io così tanto dentro casa non c’ero mai stato, e sì che sono un tipo abbastanza casalingo. È che, dall’inizio della quarantena, non sono veramente uscito mai. Ancora reggo, ma inizio a sentire la mancanza di contatto fisico. Sto tanto a casa, sì, ma casa mia è sempre piena di gente, sono un compagnone».
Tutto si ferma: il cinema, i film. Solo un titolo italiano non viene rimandato: Diavoli, la serie Sky e Lux Vide (su Sky Atlantic e NOW TV da stasera), dal romanzo di Guido Maria Brera. Borghi è Massimo Ruggero, finanziere di quelle grandi banche tutte vetri della City, delfino del capo Dominic Morgan/Patrick Dempsey, ma forse squalo a sua volta. «L’ho appena rivista tutta e, parlando come se non l’avessi fatta io, dico che in giro non sono tanti i prodotti così». L’ho vista anch’io. Da veneratore di Billions, azzardo che è un tentativo di rifare, alla nostra maniera, quella roba lì. «Billions, però, ricalca un mondo della finanza che era già stato raccontato. Qua alla parte fica della finanza – la gente coi soldi e la Ferrari – si unisce una componente più umana, forse pure un intrattenimento più forte». Il tempismo con cui arriva è – nell’alta finanza si dirà così? – una botta di culo. «Nel male di quello che ci è capitato, è quasi profetica. C’è in corso una crisi diversa da quella che raccontiamo (la grande recessione di inizio anni ’10, ndr), ma le dinamiche economiche sono sempre le stesse». Diavoli è piena di materiali di repertorio: la mappa dei PIIGS, la caduta di Dominique Strauss-Kahn, le maschere di Guy Fawkes per la strada. Vestigia dell’altro ieri, ma pare un passato mitologico. «La riflessione che posso fare senza spoilerare è che, oggi come allora, l’unica cosa di cui avremmo bisogno è il whatever it takes, inteso come uno alla Mario Draghi che si prende la responsabilità di una scelta che mette d’accordo tutti. L’Europa vacilla. In Italia si cerca di fare il possibile, ma il possibile, s’è capito, non è abbastanza. Nella prima fase della quarantena, ho avuto la sensazione di non sapere chi ascoltare, ed era una sensazione molto brutta. Ora la paura del virus sembra, almeno in parte, superata. E il pensiero è: ok, la gente adesso come la facciamo mangiare?».
In videochiamata su WhatsApp, pure noi facciamo quello che fanno tutti: immaginiamo, senza troppi strumenti, il nostro futuro prossimo. «Ci sono vari livelli. Quelli molto alti: le aziende, le multinazionali. E quelli più bassi, che non sono meno importanti: hanno solo una struttura diversa. Un occhio qui dentro ce l’ho, ho due piccoli ristoranti a Roma, e coi miei soci ho deciso di chiudere prima dell’inizio della quarantena, senza pensare al “come faremo?”, ma solo alla salute di chi lavora per noi. Siamo chiusi da un mese, dei vari incentivi e casse integrazione promessi non s’è visto materialmente ancora nulla, persone a part-time da noi che guadagnavano 600 euro al mese ora ne prendono 400, è impossibile pensare di poter sopravvivere così ancora a lungo. Non è solo un “ce la faremo”, “andrà tutto bene”, tutti quegli hashtag lì. Ma non ho una soluzione, non sono uno di quelli – e sono tanti, di questi tempi – che devono dire la loro a tutti i costi per dimostrare di non essere da meno rispetto agli altri».
Le dirette, però, s’è messo a farle anche lui. «La prima senza organizzarmi, come fosse un test: quando mi collego, guardo chi è connesso e tiro dentro qualcuno. Poi ho visto le dirette di alcuni colleghi, e ho pensato che farle tutti allo stesso modo sarebbe servito a poco. Non mi sono inventato un format, ho solo pensato: se mi metto vicino chi è più intelligente di me, allora forse ha senso. Ho coinvolto Guido Maria Brera, e Fabrizio Lucherini, che fa il radiologo, tutta gente che poteva dare il suo apporto tecnico su cose che io per primo che non conoscevo. L’unica cosa complicata delle dirette è il dibattito: ognuno si sente in diritto di esprimersi spesso con toni da stronzo. Mi ha fatto incazzare chi puntava il dito: questi stanno a fa’ duecento dirette al giorno. Stai sereno. Se le dirette ti danno fastidio, non le guardare. È questo il meccanismo che mi manda fuori di testa. Quello per cui la scelta che fa uno corrisponde automaticamente all’obbligo dell’altro di assecondarla. È l’evoluzione dell’andare sui profili degli attori e scrivere: “Ti volevo dire che la tua serie mi ha fatto schifo”. Non me ne frega un cazzo, nun la guarda’!».
Tiro fuori una sua affermazione recente: «Un bravo attore non deve saper fare tutto». Lui però, codificato nell’immaginario popolare dal biopic cristologico di Stefano Cucchi e dal romanzo criminale di Suburra, forse può: ascoltare, a questo proposito, il suo accento inglese nella serie nuova. «Ormai questa cosa avviene in maniera organica. Come ci si innamora di un progetto, così si deve essere in grado di capire se si è “giusti” oppure no. Nel momento in cui si pensa di essere diventati bravi nel proprio mestiere, ci sono due meccanismi che si autoalimentano, e che sono entrambi nocivi. Il primo è dire: posso fare tutto. Il secondo è: posso – anzi, devo – fare tutto perché gli altri si aspettano questo da me. Ed è ancora peggio. Nel mio piccolo, ho iniziato ad assaporarlo da subito. Tutti dicevano: vabbè, ma Borghi fa solo film in romano, fa solo er drogato. Se avessi voluto dimostrare che non era così, sarei entrato in un loop controproducente per la mia carriera. Col tempo, sono arrivato a questa conclusione: scelgo quello che mi piace, e basta. Mi è capitato, e lo dico con molta sincerità, di dire: guardate, io non vado bene, ma prendi quest’altro, che è perfetto». È l’epoca in cui va di moda fare i nomi e i cognomi. «Non te li dico. Ma in un paio di casi è successo. Ora sono felice, ma ho faticato: dieci anni di gavetta, di “mi dispiace, non t’hanno preso”. Succedeva anche perché non c’era un grande ricambio, lavoravano sempre gli stessi. Ora le cose sono cambiate già di per sé, ma quello che possiamo fare noi che siamo più fortunati, noi che veniamo messi nei progetti perché così prendi i fondi, e i soldi del Ministero, eccetera; ecco, la cosa intelligente è, quando non siamo convinti, fare un passo indietro. E, quando lo siamo, convincere chi è sopra di noi nella produzione a coinvolgere colleghi che hanno bisogno di possibilità, come ero io fino a pochi anni fa. Se Sollima non mi avesse inserito in un contesto di grandi attori (nel film Suburra del 2015, ndr), ora non starei qui a parlare con te».
C’è un altro tema sottotraccia: lo star-system italiano – o quello che possiamo permetterci – e il suo possibile rinnovamento. «Non bisogna far finta di essere cascati dal pero. Quando si pensa un film, si offre il ruolo del protagonista a un nome che è forte in quel momento. Ma mi fanno incazzare quelli che vogliono tutto il cast di gente nota. Non serve. Non è che se metti tre attori famosi fai tre milioni e se ne metti otto ne fai otto. Prendine uno o due, e usa la forza di questi per affiancare loro persone nuove. Questa fusione creerà un’opportunità: per il film successivo non avrai solo tre attori tra cui scegliere, ma sei. È un processo faticoso, ma in cambio hai un mercato più ampio. Con le nuove piattaforme, le cose iniziano a cambiare. Se apri Netflix o Amazon, è difficile trovare un attore forte in una nuova serie. Col cinema è diverso, ma qualcosa si muove. I fratelli D’Innocenzo, per dire. Sono due fenomeni, hanno preso due attori sconosciuti ma bravissimi e hanno girato il loro primo film, La terra dell’abbastanza, che è meraviglioso, anche se l’hanno visto in pochi. Ora hanno fatto Favolacce, che purtroppo non può uscire nelle sale, con Elio Germano. E chi gli affiancano? Tutti sconosciuti, perché va bene così. Quello che stiamo vivendo può essere l’occasione per ristabilire un intero sistema. Anche perché, se questa cosa va avanti ancora come sembra, i contenuti inizieranno a scarseggiare. E usciremo di qui con la voglia di vedere tante cose nuove, in tutti i sensi». Parla come uno pronto a fare il salto “di là”. «Non ho grandi velleità di regia. Sono curioso, anzi morboso, negli anni ho sfruttato tutti i set per “rubare” dai vari direttori della fotografia, tecnicamente so un sacco di roba. Ma, al massimo, potrei produrre qualcosa, un po’ per la questione del ristorante: mi piace mettere su una squadra, guardarla lavorare. Se devo essere parte di un meccanismo, preferisco ancora fare l’attore».
Nello stare “di qua” c’è un altro elemento con cui – rimando alla visione di questi scatti – dialogare: il narcisismo. «Famola ’sta riflessione, mi piace. Il narcisismo è stato molto presente nella mia vita, almeno fino a un po’ di tempo fa. È importante averci a che fare, ed è ancora più importante liberarsene. Ti faccio un esempio: Matthew McConaughey. Per anni ha fatto il figo e non se l’è cagato nessuno; appena ha capito che non doveva essere bello per forza, ha vinto un Oscar. È il riassunto di ciò che penso di questo mestiere. E tutti diranno: sì, per te è facile, c’hai gli occhi azzurri. Per chi è fatto in un certo modo, alcune cose possono essere più semplici. Poi però guarda Adam Driver, uno degli uomini più brutti del pianeta, lo possiamo dire?». Io sono d’accordo, ma attenzione: ci linceranno. «Vabbè, ma quanto è fico, che attore è. Quando mi offrono un film, la prima cosa che dico è: fatemi brutto, rasatemi, staccatemi i denti. I ragazzi più giovani mi chiedono consigli, io rispondo: se qualcuno vi ha detto qual è il vostro profilo migliore, scordatevelo; se qualcuno vi chiede qual è, mandatelo affanculo. A me serve per abbandonare Alessandro. No: faccio questo mestiere proprio perché con Alessandro voglio averci a che fare il meno possibile».
In sei settimane, Borghi ha dovuto passarci molto tempo, con Alessandro. Sta andando bene? «A volte. Ho le mie riflessioni esistenzialiste da tenere a bada. In questi giorni m’è tornato in mente quando mi chiedevano “vorresti diventare papà?”, e io rispondevo: mah, non lo so, che mondo lasceremo a questi figli, vale la pena dargli questa possibilità? In questi giorni di pandemia il tema è riaffiorato, son lì sul divano e mi dico: ti ricordi, Alessa’, che avevi fatto ’sto pensiero, e adesso? E mi rispondo: vabbè, poi vediamo». La quarantena è un ottimo alibi per procrastinare tutto. «Tanto, per esorcizzare i pensieri, ci sono le cose belle, i film, le serie. Sono stato obbligato da Irene a comprare su Amazon i cofanetti di The Leftovers e The Handmaid’s Tale. E sto vedendo un sacco di documentari su Netflix, ho scoperto una grande passione per quelli sportivi. Tipo QB1, che racconta di tre ragazzi che partono dal college per diventare campioni di football americano. Il sacrificio legato allo sport mi emoziona tanto». Vedi che, alla fine, Borghi con Alessandro ci sta bene? «La benedizione è stata che la mia fidanzata è tornata da Londra, dove vive da tanti anni, poco prima del lockdown, ed è rimasta bloccata qua. Se no la metà di questa intervista sarebbe stata diversa». Ride. «Poi non so se, adesso, è meglio stare in coppia o da soli. Qualunque sia la modalità in cui ciascuno la sta vivendo, la quarantena sarà un test. Sullo stare insieme, sullo stare da soli. Io questo ho fatto. A un certo punto, mi sono quasi dimenticato che fuori c’è tutta quella roba brutta. Ho limitato l’informazione alle due-tre fonti che reputo attendibili. E ho detto: devo stare a casa? Ok. Cercherò di farlo bene».
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Tutte le immagini del servizio (tranne la foto di scena) sono di Alessandro Borghi