Mentre tutto il mondo attua misure di lockdown, e anche i leader politici che vi si erano opposti – come Boris Johnson, Trump e Bolsonaro – hanno compiuto, o sono stati costretti a compiere, dei parziali dietrofront sulle loro proposte di evitare le misure di restrizione del contagio, la Svezia continua sulla sua strada: nessun lockdown.
In Svezia le scuole sono aperte, così come i posti di lavoro e i ristoranti. Si raccomanda, se possibile, di lavorare da casa. Chiuse le università, vietati gli eventi con più di 50 persone, e dal 31 marzo non si può più fare visita alle case di riposo. Nelle affermazioni istituzionali, il governo sta basando la sua strategia sulla fiducia: si confida che i cittadini seguiranno le raccomandazioni ed eviteranno comportamenti pericolosi.
Secondo quanto riporta Internazionale, l’epidemiologo di Stato, Anders Tegnell, ha affermato che alla Svezia serve una strategia adatta alla società svedese, non a quella di un altro paese. Sarebbe la mentalità svedese, di una società “che si conforma alle regole e si basa sulla fiducia”, a favorire questa strategia, assieme al grande numero di persone che vivono da sole, che i figli vanno presto via di casa, e che ci si saluta senza baci e abbracci – a differenza che in Italia o Spagna, si puntualizza nell’articolo. Ma al di là di queste affermazioni vagamente nazionaliste, quali sono i dati?
A oggi in Svezia sono stati registrati 16.004 casi confermati, con 550 guariti e 1937 morti. Confrontiamola con i paesi vicini, che attuano misure di lockdown: in Norvegia, 7.338 casi confermati e 187 morti; in Finlandia 4129 confermati, 2000 guariti, 149 morti; in Danimarca, 7912 casi confermati, 5087 guariti, 384 morti. La Svezia mostra un primato assoluto sui decessi positivi al coronavirus, in un numero di un ordine di grandezza superiore a quello degli altri paesi scandinavi. E tuttavia, un paio di giorni fa il governo ha affermato che il picco sarebbe stato raggiunto intorno al 15 aprile, e che l’obiettivo di raggiungere l’immunità di gregge per la Svezia si sarebbe ottenuto già a maggio.
Salvo doversi subito rimangiare le proprie parole, non solo perché lo studio su cui si sviluppava la previsione partiva da stime sbagliate ma anche perché nel paese comincia a serpeggiare la rabbia. Il premier Stefan Lovfen ha dovuto ammettere che non è stato fatto abbastanza nelle case di riposo, in cui hanno contratto il virus circa un terzo delle vittime. Inoltre è proprio nell’ultima manciata di giorni che il numero di nuovi contagi e decessi ha avuto un’impennata.
Inoltre pare che sul piano scientifico l’idea di perseguire l’immunità di gregge al coronavirus sia considerata poco ragionevole. Lo indica una revisione condotta sui dati e le pubblicazioni di questi mesi dal Programma di ricerca sulla biosicurezza dell’Università del New South Wales. Raina MacIntyre, che ne è responsabile, scrive che “l’immunità di gregge è un mito. Ha una connotazione di eugenica”.
Secondo lo studio oltre alla possibilità di un impatto troppo vasto del virus, tale da saturare la capacità del sistema sanitario, da un approccio come quello svedese ci si potrebbe aspettare che circa metà della forza lavoro finisca in malattia o in quarantena, riducendo anche l’efficienza degli ospedali. E in più non si sa né quanto tempo potrebbe durare questa situazione né se davvero porterà a un’immunità di gregge: “non sappiamo quanto duri l’immunità da Covid-19, non sappiamo se si formino mutazioni anche minori che farebbero circolare un ceppo leggermente differente. Se questo avvenisse, non sappiamo se una precedente esposizione offrirebbe una sufficiente immunità”.
Insomma, mentre in Italia si fa un gran parlare di “fase 2” e si auspica – soprattutto da parte di Confindustria, che lo proponeva già a inizio aprile – un ritorno più veloce possibile a misure più leggere soprattutto un ritorno nei posti di lavoro, forse è bene vedere quali saranno gli sviluppi del metodo svedese e trarne qualche insegnamento.