Non è solamente la fase 2 ad aver fatto notizia: ce n’è anche una meno importante, ma non per i fan dei Pink Floyd. Roger Waters si è lamentato del fatto che David Gilmour non gli permette di pubblicare materiale solista dal sito ufficiale del gruppo. Sì, anche se Waters è la storia dei Floyd e nonostante l’apparente armistizio dopo la morte di Wright e la fine della band, siamo ancora a quando i due si tenevano a una distanza superiore al metro e mezzo regolamentare.
Ora, non è chiaro perché Gilmour non ceda, ma lo immaginiamo: a Waters non perdona il suo fare da capetto. Dopo aver pubblicato sul tubo una versione di Mother versione lockdown molto seguita dai fan, Waters ha rivelato che non può postarla sul sito ufficiale nonostante abbia provato in tutti i modi a far capire ai soci l’importanza della condivisione. «Se più di 40 milioni di fan sono iscritti al sito è grazie a tutto il lavoro che noi cinque insieme abbiamo creato, una delle cose che avevo chiesto era di avere tutti uguale accesso alla pagina e ai social per condividere i nostri progetti, mi sembra una cosa giusta». A Gilmour no. Il fatto che Mason se ne lavi le mani dimostra che la faccenda riguarda loro due e basta. E soprattutto che Gilmour si comporta in maniera speculare a Waters: questo ci fa pensare che l’eterna rivalità nasca dal fatto che… eh sì, mi sa che sono simili.
Molti a queste mie parole salteranno sulla sedia, ma la popolarità dei Pink Floyd è cresciuta nel tempo tanto quanto le aspettative dei suoi membri. Tutti nei Floyd a un certo punto hanno sentito la necessità di staccare da una realtà che li soffocava: già da Wish You Were Here la band non esisteva più, il disco era un’ammissione di fallimento. Alcuni fan, addirittura, direbbero che i Floyd erano morti con l’uscita di Barrett. Waters a un certo punto ha preso in mano la situazione, se non altro perché aveva le idee più chiare rispetto ai concept e scriveva testi allucinati e graffianti. Gli altri membri avevano problemi, chi di droga (come Wright) e chi di cuore (come Mason), e tutta la band li aveva di soldi, tutte cose che non aiutano la creatività. Ma Gilmour in qualche modo ha tenuto testa a Waters grazie all’abilità di produttore/arrangiatore e per il fatto che la sua chitarra (criticabile o meno) era un trademark non indifferente e produceva dei classici (Dogs su Animals parla da sola). Parallelamente c’era la volontà paranoica di Waters di gettarsi anima e corpo nel progetto Pink Floyd finché alla fine non ha pensato sul serio di essere la band, perché senza di essa non sarebbe probabilmente riuscito a dire nulla.
Gilmour invece era Gilmour solo se prendeva parte al processo compositivo. Aveva lo stesso problema, senza i Floyd non andava da nessuna parte. Si è trovato schiacciato, con tante sue idee scartate, penalizzato dalla mancanza di una poetica “concettuale” solida. Che invece aveva il collega, il quale però non possedeva una visione di gruppo, che probabilmente era propria del chitarrista. Proprio in virtù di questo, Gilmour avrebbe fatto la stessa cosa di Waters, solo che lui c’era arrivato prima. E infatti non c’è modo migliore per capire quest’aspetto psicologico se non analizzare lo strano percorso incrociato di alcuni album solisti di Waters e Gilmour, che alla fine tanto diversi non sono, soprattutto musicalmente, nonostante le apparenze.
Rendendosi conto che i Floyd stanno lentamente diventando un progetto solista di Waters, uno dei primi a fare uno strappo con la band è proprio David Gilmour che pubblica il suo primo disco solista nel 1978, poco prima di quel mastodonte che è The Wall. Certo, Waters aveva già fatto Music from The Body, ma quell’esempio isolato vedeva la partecipazione di Ron Geesin e degli stessi Floyd. In David Gilmour, il chitarrista fa il primo tentativo di essere un capobranco: non a caso chiama i compari del suo primo gruppo, i Jokers Wild, senza rifondarlo ma comportandosi esattamente come Waters con i Floyd, allenandosi alla futura leadership nella band.
Strano ma vero, il disco regge: nella bellissima cover di There’s No Way Out of Here degli Unicorn troviamo la fiamma dell’ispirazione. Nelle trovate chitarristiche e nel sound (la sperimentazione con i delay e con il flanging unito alla guitar synth che poi ritroveremo non solo in The Wall, ma anche in alcune uscite dell’amico e collaboratore Manzanera in Manifesto dei Roxy Music) si sentono echi di Run Like Hell, Comfortably Numb, Hey You e dello storico solo di Another Brick in the Wall dal doppio del 1979. Il suono qui presente è diventato una delle colonne portanti di The Wall, senza dubbio, confluendo nell’opera in maniera quasi naturale. Dico quasi perché la vena rock-blues qui presente, e talvolta gratuita, nel classico dei Floyd sparisce, o meglio è sottotraccia. Ma non si dica che Waters fosse lontano dal genere. In The Pros and Cons of Hitch Hiking del 1984, il suo primo album solista, troviamo una strana similarità con queste atmosfere in bilico tra leggera psichedelia e fumi di blues bianco sporco (come in Sexual Revolution).
La stranezza prosegue col fatto che David Gilmour produrrà un minifilm promozionale del suo disco omonimo e la stessa cosa farà Waters con The Pros and Cons. Entrambi i dischi sperimentano una tendenza ad allontanarsi dal vuoto rigoroso e pneumatico del suono dei nuovi Floyd per tornare a un discorso classic rock. Certo, il concept di Waters è più potente, la storia di un uomo intrappolato in un sogno erotico pieno di situazioni strane, i testi sono più incisivi. Quello di Gilmour è un diario esistenziale fatto di disagio e delusioni e malcontento e depressione malinconica (i testi sono tutti suoi e sicuramente più diretti di quelli che verranno dopo) e c’è da dire che non arriva all’esaurimento nervoso solo perché il disco lo registra per ripigliarsi, mentre l’ex socio lo fa per entrare diretto e senza sconti nel buco nero della sua vita. Ma rispetto alla roba dei Floyd, sia The Pros and Cons, sia David Gilmour sono passeggiate di salute. Volendo dirla tutta, sono entrambi dischi solisti dell’era Pink Floyd, almeno a livello legale perché nel 1984 Waters è ancora formalmente nella band tanto che The Pros and Cons avrebbe dovuto essere un nuovo album dei Pink Floyd, ma gli altri rifiutarono la proposta. Probabilmente pensarono che quel concept album sul sesso fosse troppo monolitico rispetto al resto della loro produzione, che in linea di massima toccava tutti gli argomenti umani salvo poi inzupparli nel comune denominatore della follia (forse The Pros and Cons non era abbastanza folle, onirico sì, ma folle no).
Dopo l’ultimo disco Floyd periodo Waters, cioè The Final Cut del 1983 la cui realizzazione fu allucinante e quasi insopportabile per tutti, David Gilmour lavora a un nuovo disco solista, il secondo. In About Face del 1984 fa il “coatto” in alcuni pezzi, buttandola troppo in caciara sul sound anni ’80 alla moda, elettronico e di plastica. Nulla di male, potrebbe essere un tentativo di svecchiare un suono, come fece Richard Wright con gli Zee, o un momento di insicurezza rispetto alla strada da prendere, visto che era probabile una carriera solista per uscire dal limbo in cui si trovavano i Floyd. Però ci sono dei pezzi che oggettivamente ti fanno pensare proprio che About Face sia una costola di The Final Cut. In certe tracce praticamente si ascolta quello che Gilmour avrebbe potuto apportare nel disco dei Floyd e che in parte, a livello di arrangiamento, si ascolta in pezzi come Not Now John che in effetti, almeno come spinta a un suono moderno, è uno dei meglio riusciti di The Final Cut.
La storia dice che Gilmour nel 1983 si è seduto pigramente sugli allori, ma con i Pink Floyd deve onorare un contratto discografico con la EMI. Waters ha un’idea nuova, trasformando quello che era una raccolta di outtake di The Wall in un epitaffio in onore del padre morto in guerra, una cosa molto intima collegata a un discorso politico contro la Thatcher, in pieno conflitto delle Falkland. Gilmour, preso in castagna, chiede a Waters un paio di mesi in più per elaborare delle idee musicali che ha: Waters invece ha fretta di chiudere quello che più che un disco sembra psicoterapia, e rifiuta la proposta. Inizialmente i due sembrano reggere la pressione e andare stranamente d’accordo facendo lunghe partite a Donkey Kong in studio. Poi esplode la bomba: Waters vuole dire la sua anche in sede di produzione e di arrangiamento, dove Gilmour ha con Michael Kamen un ruolo ben preciso. David rinuncia al suo ruolo, si limita a suonare la chitarra e si toglie dai credits.
Ascoltando alcuni brani di About Face come Murder, Out of the Blue e Near the End, sembra un’occasione persa. The Final Cut sarebbe stato probabilmente a prova di bomba. I pezzi di Gilmour in questione sono di una rara bellezza drammatico-armonica e avrebbero apportato quell’empatia tra le parti, una condivisione di sentimenti che non avrebbe stonato né col concept di Waters, né con i suoi brani, mantenendo l’atmosfera cupa e dolorante del disco. Anzi c’è da dire che interpretano perfettamente il mood del socio, a volte abbracciandolo. Il fatto che ad arrangiare i pezzi sia proprio Michael Kamen implica che Gilmour ci teneva a contribuire a The Final Cut.
Waters abbandona la band nel 1985, ma il suo secondo album solista arriva solo nel 1987, quando i Floyd stanno tornando in pista dopo tutte le beghe legali da lui intentate per impedire ai soci di usare il nome del gruppo. In Radio K.A.O.S.: Waters farà la stessa cosa del Gilmour di About Face, abbandonando il mood blues-rock di The Pros e preferendogli un pop allo stesso tempo elettronico e plastificato, a volte filtrando coll’italo disco, ma che alla fine di innovativo ha solo l’uso del sintetizzatore vocale (che poi, ironia della sorte, tornerà nell’ultimo disco dei Floyd, The Endless River, passando per la comparsata di Stephen Hawking). È un tentativo di andare da un’altra parte, ma il modo in cui lo fa è stranamente vicino al suo ex compagno. Al solito il concept di Waters è molto solido, ma per il resto, a parte il sound che su allontana dalla precedente produzione e per questo interessante per gli amanti della weirdness, pecca di insicurezza. About Face e Radio K.A.O.S. sono dischi pieni di difetti, come due orfani di se stessi: solo per questo meritano un ascolto incuriosito, come se a metterli insieme potessimo ottenere un capolavoro storpio.
Quindi da solisti i nostri eroi fanno entrambi schifo? Beh, Waters si è ripreso alla grande con Amused to Death del 1992, che è finora la migliore cosa solista, in cui rende più affilata la lama già affondata con Animals e The Wall, con suoni aspri e testi antisistema (la storia di una scimmia che guarda la tv e da lì partono tutta una serie di stilettate politiche), perfettamente inserito negli anni ’90 del noise rock (pensiamo a What God Wants). Ma è anche pieno di ballate desolate in stile Floyd e autocitazioni tutto sommato compiaciute. È il parto di uno con i soldi che può vivere tranquillamente di rendita e che trova ispirazione prevalentemente in se stesso, nel riciclo della propria opera. Che prende, smonta e rimonta a piacimento fottendosene della critica, esponendo anzi questo suo egocentrismo come un pregio. In questo Gilmour ha risposto egregiamente nei toni opposti – ma appunto complementari – con On an Island del 2006, paradossalmente migliore di qualsiasi cosa fatta dai Floyd post Waters, dove affiorano degli umori acustici dilatati barrettiani (Gilmour farà una cover di Dominoes dal vivo e chissà come sarebbe stato On an Island interpretato dalla voce stentorea e psicotica di Syd). È il documento della maturità che non ha più nulla da dimostrare.
Alcuni critici hanno sottolineato il fatto che sia un prodotto di un musicista milionario ormai anziano e imbolsito compiaciuto del suo staccarsi dal mondo: ma per questo è finalmente un disco di Gilmour sincero, senza finzioni. Sì, è ricco e imbolsito, e allora? Proprio perché con la fine dei Floyd non ci saranno più live titanici, o altre stronzate del genere, la cosa è più schietta. È la sua versione della noia barrettiana, dello svacco esistenziale, dell’isolamento come da titolo, della morte che avanza (l’ha anche cantata in quarantena), con sbuffi psichedelici che non ti aspetti (come in Take a Breath).
L’ultimo dei Floyd, The Endless River, è una raccolta di outtake e niente più, è il The Final Cut di Gilmour, una mezza truffa tirata giù per attirare i completisti che può interessare per il suo valore storico, ma non certo esaltare per il suo contenuto musicale. Non si capisce per quale motivo, a questo punto, On an Island non sia uscito dal cilindro prima: forse perché i Floyd erano troppo impegnati a cercare di doppiare il loro ex collega?
Da una parte abbiamo il Waters cinico dei fine ’70 che si ripropone al pubblico, dopo anni a cercare di passare come fine compositore, dall’altro il Gilmour intimista di More che ritorna a più miti consigli dopo anni passati a cercare di fare il rockettaro. Tutti e due sono riusciti a fare due album dei Pink Floyd che praticamente sono dischi solisti (The Final Cut per Waters, A Momentary Lapse of Reason per Gilmour). E tra l’altro, nei loro veri dischi solisti, dove manca Gilmour arriva un chitarrismo che lo imita, quando manca Waters idem per il basso. Strano eh?
Sugli ultimi dischi dei due (Is This the Life We Really Want? del 2017 e Rattle that Lock del 2015) non ci esprimiamo: è ancora troppo presto per formulare un giudizio sensato. Quello che è sicura è il carattere speculare del percorso: il primo disco di Gilmour nasce quando i Floyd sono in mano a Waters, il primo disco solista di Waters esce quando i Floyd praticamente non ci sono più e sono già in mano a Gilmour. In pratica è una vita che si rincorrono: ci sorge il dubbio che tutto sia nato per una rivincita non concessa a Donkey Kong, quando giocavano in studio durante le session di The Final Cut. Ma questo “taglio finale” con la storia dei Floyd, ahimè, nessuno dei due l’ha fatto ed è in grado di farlo: è questo il loro vero problema. Ancora non sanno “which one is Pink”.