Quando produttori o attori appena sbarcati sul piccolo schermo dichiarano di aver semplicemente fatto “un film di dieci ore”, questo mostra l’assurdo complesso di inferiorità che qualcuno ha ancora nei confronti della tv, pure vent’anni dopo l’uscita di titoli che hanno cambiato le regole del gioco come I Soprano, The Wire, eccetera. Ma è anche un’affermazione da prendersi talvolta alla lettera, purtroppo, capace di testimoniare come la “gente di cinema” consideri davvero le serie come film semplicemente più lunghi, col risultato di dare forma a trame infinite e senza senso invece di comprendere le differenze tra i due mezzi, e considerare i vantaggi che ha l’uno rispetto all’altro.
Tra le cose più soft che posso dire di Snowpiercer, la serie prodotta da TNT appena arrivata su Netflix, è che, pur essendo ispirata a un film – il thriller sci-fi di Bong Joon-ho del 2013 con Chris Evans e Tilda Swinton –, non fa l’effetto di un film di dieci ore. Ogni episodio ha una struttura precisa e un focus su un personaggio in particolare, anche se una storia più ampia fa da cornice all’intera stagione. Ma, riguardo a tutti gli altri aspetti, il nuovo Snowpiercer dimostra che non tutti i soggetti che funzionano su un mezzo (*) si traducono facilmente altrove.
(*) Tecnicamente, per essere più precisi, l’idea del film prendeva a sua volta spunto dalla graphic novel Le Transperceneige, che io però non ho letto.
Come nel film, anche nella serie l’azione si svolge interamente sul “supertrain” del titolo (*) composto da 1001 carrozze, che trasporta i resti dell’umanità su un binario che fa il giro del mondo dopo che una calamità ambientale ha congelato l’intero pianeta. Lo Snowpiercer è, come dicono molti personaggi, una “fortezza divisa in classi”. Più sei vicino alla locomotiva, più la tua vita sarà fortunata – c’è persino un vagone-acquario con il pesce pronto a diventare sushi per l’1% che popola la prima classe –, mentre le cose si fanno più difficili a mano a mano che ti sposti verso l’estremità opposta. L’ultima carrozza del treno è una sorta di prigione per la feccia dell’umanità, salita sul treno clandestinamente per sfuggire alla morte per assideramento che le sarebbe toccata. (Le persone che lavorano sul treno vivono invece, con modestia ma con tutti i comfort necessari, in terza classe; e c’è anche una seconda classe appena più dignitosa, che però non ci viene quasi mostrata, anzi pare del tutto ignorata.)
(*) Da non confondersi con il Supertrain della NBC, ad oggi una delle peggiori serie mai prodotte.
Le due estremità del treno sono rappresentate da Melanie Cavill (Jennifer Connelly), la sofisticata responsabile dell’accoglienza che – su richiesta di Mr. Wilford, il misterioso creatore dello Snowpiercer – è qui per soddisfare le necessità di tutti gli ospiti del treno, ma soprattutto dei ricchi che sono riusciti a comprarsi un biglietto prima della fine del mondo; e da Andre Layton (il Daveed Diggs di Hamilton), il leader ipocrita e calcolatore dei “parassiti”, che trama costantemente per organizzare una rivoluzione e portare un po’ di eguaglianza in quel poco di civiltà rimasto sulla Terra.
Il film, in cui Swinton ed Evans interpretavano i corrispettivi decisamente più grotteschi di Melanie e Andre al principio della rivoluzione, durava poco più di due ore, e la trama si svolgeva in un lasso di tempo che più o meno corrispondeva a quella durata. Era un tempo sufficiente a piazzare un po’ di memorabili sequenze action, facendo poche soste nel percorso che portava dalla coda alla testa del treno. Il treno stesso era la chiara metafora della lotta di classe dei giorni nostri, ma senza i tempi morti che ti costringevano ad analizzarla troppo a fondo. Se è vero che ci vogliono almeno due stagioni per far capire di che pasta è fatta una serie, allora Snowpiercer ha fin da ora davvero troppo, troppo tempo a disposizione. Tanto da trasformare questo incubo distopico addirittura… in un thriller poliziesco! Prima che Andre possa dare il via alla sua rivolta, Melanie gli chiede di investigare su un serial killer presente a bordo del treno, che evira le sue vittime e conserva i genitali maschili come trofei. Giuro che è tutto vero.
Nella tv recente, e soprattutto nell’ultimo decennio, c’è la stramba consuetudine di prendere storie e personaggi che sembrano inadatti a una narrazione lunga e ficcarli dentro inutili intrighi criminali. È successo con Sleepy Hollow, Lucifer e anche con Houdini & Doyle, che quantomeno ha avuto vita più breve. A volte funziona, ma spesso lascia il sospetto che al team creativo non interessi più il soggetto originale, o che non abbia la benché minima idea di dove voglia condurre la trama sul lungo periodo.
Non è esattamente ciò che fa qui il co-creatore di Orphan Black Graeme Manson, subentrato dopo che l’adattatore originario del nuovo Snowpiercer Josh Friedman è stato fatto fuori. Se mai, aprire la narrazione al genere murder mystery è più nelle corde di titoli recenti come Preacher e American Gods: temporeggiare il più possibile nell’incipit di una storia servirebbe a esplorare meglio il mondo narrato. (E/o ad ammortizzare i costi di un set che ha comportato la ricostruzione di un enorme treno fantascientifico.) Mentre Layton e la sua socia Bess Till (Mickey Sumner) si mettono alla ricerca del killer – con il capo dei Frenatori Roche (Mike O’Malley) nella parte del capitano di polizia sempre a un passo dal togliere il distintivo all’eroe di turno –, veniamo introdotti ai vari reparti del treno, da quelli dei ricconi snob che l’hanno finanziato a quelli dei poveri che continuano a mandarlo avanti anno dopo anno. È un pretesto meramente illustrativo, più che il focus della serie vero e proprio: tanto che il giallo viene completamente risolto tra il quarto e il quinto episodio.
Ma questo approccio al materiale di partenza genera non pochi problemi. Il primo è che la serie passa la prima metà dell’episodio pilota facendo finta di essere ciò che non è (e non facendolo manco troppo bene). È come se Manson o altri dirigenti di WarnerMedia fossero ancora delusi dagli elementi troppo grotteschi del film, e avessero deciso che il pubblico avrebbe digerito meglio questa storia se ci avessero messo dentro… conversazioni su membri maschili evirati. (E non abbiamo nulla contro Criminal Minds, sia ben chiaro.) La serie si trasforma drasticamente nella seconda parte del primo episodio, quando iniziano ad accadere cose una più insensata dell’altra (compresa qualche bella sequenza d’azione, niente però a che vedere con quelle del film originale). Ma chiedere agli spettatori di appassionarsi a un finto poliziesco – per di più lento e scadente – quando in realtà si sta vendendo loro tutt’altra cosa non è accettabile, nella cosiddetta Peak Tv. (Nemmeno nella sua versione meno affollata generata dall’epidemia di Covid-19.)
Cosa più importante ancora, scoprire come funziona il treno e immaginare come potrebbe essere la nostra vita in condizioni simili pone domande che rischiano di restare senza risposta. Più Layton e Till si muovono tra i vagoni e incontrano persone totalmente diverse tra loro, meno si capisce il senso del tutto. E, procedendo con la visione, ci si ritrova ad ignorare questioni assurde come la circumnavigazione dell’intero pianeta da parte di questa ferrovia. (Anche se gli oceani fossero completamente ghiacciati, costruire dei binari solidi sopra di essi in un momento storico in cui miliardi di persone stanno morendo congelate sembra improbabile, se non del tutto incomprensibile, considerato il poco che vediamo della tratta che fa lo Snowpiercer – capace però di passare da Chicago alla foresta amazzonica.) Ma l’indagine e i suoi effetti collaterali mettono sul tavolo nuove domande che distraggono ulteriormente. Per esempio: come possono Melanie e la sua collega Ruth (Alison Wright, a.k.a. “la povera Martha” di The Americans) percorrere così velocemente gli otto chilometri che separano la prima classe dalla coda del treno? E – dopo anni vissuti nello squallore, senza la luce del sole o una dieta adeguata – come possono Layton e la sua compagna di carrozza sembrare così belli e in forma, quando si ritrovano a fare l’amore in terza classe?
Ancor più che i dettagli fisici, è la realtà emotiva di Snowpiercer che si svela mentre lo show continua a trascinarsi. All’inizio della serie il treno è in funzione da quasi sette anni, eppure la maggior parte delle persone si comporta esattamente come avrebbe fatto nel mondo reale. Quando alcuni passeggeri ricchi chiedono a Melanie novità sull’omicidio, lei risponde che si tratta di “informazioni riservate”, come se stessero recitando tutti in un vecchio episodio di Law & Order: Unità vittime speciali. Un paio di personaggi sembrano malati di mente, o almeno eccentrici, ma per la maggior parte, i passeggeri e l’equipaggio sono inquietantemente normali, e Manson non ci fa caso o non se ne preoccupa fintanto che la trama può andare avanti. Il film usava il treno come una surreale e terribile allegoria della società; la serie cerca di rendere tutto reale, senza però riuscirci mai davvero.
E questa trasformazione è più evidente che mai nel passaggio da Swinton a Connelly. Connelly (nel suo primo ruolo televisivo da regular dopo la breve vita di The $treet su Fox tra il 2000 e il 2001) è di gran lunga la parte più forte dello spettacolo – cool e sicurissima di sé in un ruolo che richiede, proprio come Melanie, di concentrarsi su parecchie questioni diverse durante il viaggio. Alla fine della stagione, pare una John McClane in gonnella per alcune scene, e Connelly interpreta quell’aspetto con la stessa forza con cui fa qualsiasi altra cosa che Manson e compagnia (incluso James Hawes, che è succeduto al regista originale Scott Derrickson dopo che Derrickson si è scontrato con lo showrunner) le hanno chiesto. Ma una di queste è sembrare del tutto normale – radicare questa assurda ambientazione in un’emozione riconoscibile. Connelly, infatti, trasforma Melanie in una persona, non importa quanto siano complicate la sua storia passata e la sua vera agenda. Non è colpa sua, ma il risultato è che l’umanità che Connelly porta al personaggio indebolisce la serie e i suoi temi. La sua natura imperturbabile e molto contemporanea prende qualcosa che dovrebbe sembrare fantastico e lo rende banale, come se stessimo guardando una serie ambientata in una società di marketing particolarmente spietata. La performance di Swinton nel ruolo paragonabile del film non è mai stata sobria o discreta. Ma il suo character da cartone animato in realtà ha reso il mondo di Snowpiercer più plausibile, perché solo un ghoul come la sua Mason avrebbe potuto tenere in movimento anno dopo anno un treno mostruoso attraverso il mondo ghiacciato. (Inizialmente la serie sembra usare Wright per comunicare un po’ della stranezza di Swinton mentre Connelly lavora per la trama, ma presto capiremo anche le motivazione di Ruth.)
Questa spinta verso la normalità è anche una concessione alle esigenze della serialità. È molto difficile mantenere lo stesso livello di stravaganza settimana dopo settimana, stagione dopo stagione, e i pochi show in grado di farlo (Twin Peaks, Hannibal, Legion) sono stati liquidati come prodotti di nicchia. Tra la premessa e il tono, Snowpiercer apparentemente aveva bisogno di grandi cambiamenti per rendere il passaggio dal cinema e il tumulto dietro le quinte – oltre all’abbandono di Friedman e Derrickson, lo show ha fatto la spola tra TNT e TBS durante i suoi cinque lunghi e complessi anni di sviluppo – suggeriscono che tutto quello sforzo non ne valesse la pena. Negli episodi successivi ero abbastanza coinvolto da tutto il chiasso e dagli eventi della storia, ma come accade ogni volta che guardi uno show fatto da persone competenti abbastanza a lungo. (È la Sindrome di Stoccolma della serialità.) Forse Friedman, o qualcun altro, avrebbe potuto trovare un modo per rimanere fedele a ciò che era interessante del film, facendo in modo che Snowpiercer funzionasse anche per la tv. O forse quest’idea non è mai stata pensata per seguire l’impresa di Buffy o Friday Night Lights dal grande schermo a quello piccolo.