Dunque, è finita. O, forse, lo era già da tempo. In fondo Tredici ha smesso di essere una serie cult ben prima che Netflix lanciasse a giugno la quarta (e ultima) stagione. Diciamo che il sipario è calato con l’uscita di scena di Hannah Baker: più o meno, dalla seconda serie. Non a caso oggi sono sempre meno le persone che invocano censure, sospensioni e boicottaggi legati a Tredici, come se questa fosse diventata una storiella ordinaria (ma no, non lo è).
Peccato. Già, perché nel 2017 13 Reasons Why era un teen drama davvero esplosivo: di quelli in grado di far cappottare dal divano gli abbonati Netflix, scuotere l’opinione pubblica e far interrogare mezzo mondo. Per la prima volta il genere, fino ad allora archiviato come “quello degli amorazzi coi brufoli”, ha sparigliato le carte cimentandosi con il più delicato dei tabù: il suicidio tra gli adolescenti. Una piaga talmente complessa e tragica che si preferiva ignorare: ci si convinceva che fosse un fenomeno circoscritto e che, di certo, non sarebbe mai capitato ai propri figli. Fino a quando non è arrivata lei: Hannah Baker. Con le sue 13 cassette questa ragazzina ha decisamente creato un bel casino, e non solo all’amico Clay e compagnia. Ci ha infatti costretti a guardare nella direzione giusta: quella dei ragazzi, orfani dei propri sogni e forse anche dei giusti maestri. La serie era così ben scritta che, per quanto Hannah fosse un personaggio spigoloso, si finiva per pensare che il suo gesto fosse inevitabile: con lei il suicidio ha smesso di essere stigmatizzato e basta per iniziare ad essere indagato come espressione di un disagio sociale tra gli adolescenti. Che interroga tutti.
È bastata quindi qualche notte di binge watching perché la serie diventasse un cult tra i ragazzi. Davanti a cotanto successo, gli sceneggiatori hanno giustamente cercato di rilanciare: nel sequel hanno riesumato Hannah, facendola apparire nelle allucinazioni di Clay; al posto delle cassette hanno messo le polaroid e scodellato una serie di nuovi temi, tra cui lo stupro e le sparatorie nei licei americani. Eppure, mancava qualcosa: un qualcosa che si è andato ad amplificare anche nelle seguenti stagioni. Se infatti Hannah, con il suo stock di registrazioni audio, cercava di fatto l’approvazione dello spettatore (ottenendola), dalla seconda stagione in poi i personaggi finiscono per scivolare nell’autocommiserazione guadagnandosi, nel migliore dei casi, solo la nostra pietà. Troppo poco per dare vita a quel salto di prospettiva che nella prima stagione faceva empatizzare con le ragioni del suicida. Il cult, di colpo, non era più cult.
E questo vale anche per la stagione finale. Pur di rimpinzare ciascuna delle 10 puntate (l’ultima dura addirittura un’ora e mezza!), gli sceneggiatori buttano nel calderone più cose possibili: problemi mentali, droga, esercitazioni con sparatorie vere autorizzate dal preside, poliziotti che discriminano le persone di colore e proteste scolastiche contro la violenza delle forze dell’ordine (su questo la serie è sul pezzo più che mai), studenti trasformati in sorvegliati speciali, ideali rinnegati e camicie di forza. Troppo tutto insieme. Il risultato è un mix improbabile, che deraglia in un giallo sconclusionato di cui resta impressa solo la sfilza di morti. Verrebbe quasi da pensare che in passato la Liberty High School sia stata la scuola superiore di George R.R. Martin: solo il karma del celebre sceneggiatore di Game of Thrones potrebbe attrarre così tanti morti – e altrettante sfighe – dentro quattro mura. Così la denuncia sociale che aveva decretato il successo di Tredici si è trasformata in una farsa, troppo sopra le righe per essere convincente. Non bastano infatti il finale shock o il predicozzo sulle responsabilità degli adulti: la storia non riesce più a suscitare riflessioni forti. Quando Clay si chiede «C’è una domanda basilare: sopravvivremo alle superiori? Io sopravvivrò?», ecco: noi possiamo affermare che di certo lo spettatore non ha retto più. A meno che non fosse un fan duro e puro della serie.
E qui arriviamo al secondo nodo della questione. Se 13 Reasons Why ha smesso di essere un cult, non è solo per le scelte sbagliate degli sceneggiatori: di fatto la saga è stata superata non tanto dagli eventi, quanto dagli altri teen drama. Dal 2017 a oggi il genere ha sposato, peraltro con grande slancio cinico, la via del realismo nudo e crudo: ci ha catapultati in un abisso privo di ingenuità, dove i sogni si sono infranti troppo presto e troppo velocemente. I tempi dorati di Beverly Hills 90210 o l’idealismo di Dawson’s Creek sono finiti: ora abbiamo i ragazzi interrotti di Euphoria, gli psicotici giovani di The End of the F***ing World, le smaliziate prostitute di Baby. Droga, bullismo, stupri, eccessi, malattie mentali, suicidi: tutto già visto.
Tredici è rimasta insomma travolta dallo stesso filone che ha contribuito a creare. I nuovi cult teen hanno fatto propria la “lezione di Tredici”, al netto della commiserazione. Non si rivolgono più agli adulti, non vogliono svelare loro il vero mondo dell’adolescenza: semmai, sono storie a uso e consumo degli adolescenti, dove non si cerca nulla all’infuori del rispecchiamento reciproco. La stessa denuncia sociale è svaporata. Non c’è infatti un sacerdote donna che, come in apertura di Tredici, si chiede: «Cosa abbiamo fatto noi adulti per rendere il mondo dei giovani così complicato? Quali fardelli stiamo scaricando su di loro?». L’universo dei teen drama, o almeno una gran parte di questo, parla ormai solo a se stesso: è una narrazione egoriferita, e per questo schietta, che non vuole spiegarsi o cercare comprensione. Figuriamoci suscitare pietà. Il che, forse, fa rimpiangere Hannah…