La voce di Jehnny Beth è fatta per il caos. Quando canta coi Savages, il gruppo punk-noise di cui fa parte da una decina d’anni, ti sfida con bellezza e potenza, e sovrasta la carneficina di chitarre. Poi, con John and Jehn – il duo lo-fi che ha formato con il suo partner Johnny Hostile – ha sperimentato texture vocali espressioniste, perfette per sottolineare le parti di chitarra cupe dei pezzi. La sua voce brillava attraverso suoni crepuscolari. Nel suo primo disco solista, invece, il caos diventa parte della sua essenza.
Ispirata dal modo in cui David Bowie ha scritto il suo ultimo album Blackstar, cioè con la consapevolezza che sarebbe stato il suo addio, Beth ha scritto To Love Is to Live come un testamento. Quello che ne è venuto fuori non ha nulla a che vedere con i vecchi progetti: è un disco pieno di testi-diario mischiati a suoni elettronici extraterrestri.
Questa musica, che dà il meglio se assorbita tutta in una volta, si trasforma continuamente: a volte è dolce e cinematografica, altre amara e claustrofobica. Allo stesso modo, la voce di Beth vacilla tra il corrosivo e il nostalgico, e per certi versi echeggia quella di Patti Smith. I testi sono spiacevolmente rivelatori e scavano nei sentimenti dell’autrice a proposito di amore, sesso, peccato, femminilità, mascolinità, colpa cattolica e violenza, spesso nello stesso pezzo. Jehnny Beth è un raro esempio di artista che tende a iperanalizzare tutto (beh, è francese), ma l’album non suona mai eccessivo.
Il disco si apre con le parole «sono sempre nuda», pronunciate con voce profonda e aliena, quasi una rappresentazione della sua identità. Potrebbe benissimo essere il manifesto espressivo di tutto il disco, un unico flusso di coscienza lungo 40 minuti. Quel pezzo – I Am – fiorisce con la sezione d’archi cinematografica che balla attorno alla voce di Beth, che canta: “Sono giovane e innocente, ma brucio dentro”. Il fuoco torna anche nel pezzo successivo, Innocence, caratterizzato da un duro arrangiamento elettronico, in cui la cantante esamina i suoi dubbi e maledice il cattolicesimo che le ha insegnato che “è cattiva educazione pensare che un uomo sia un pezzo di merda”. Il concetto si sviluppa più tardi, in I’m the Man, dove esplora il punto di vista opposto e la mascolinità tossica. “Sono un uomo, non ci sono troie in città che non sappiano quanto forti possono diventare i miei calci”, dice il testo su un ritmo violento scritto insieme ad Atticus Ross dei Nine Inch Nails. Quei proclami – «Sono un uomo» – ci accompagnano fino a una ballata al pianoforte, The Rooms, che presenta una scena in cui i ruoli sono invertiti: le donne si comportano come gli uomini, che diventano prostitute. Il pezzo ha un’aria triste, nessun tipo di fascino. È difficile stare dietro a tutte le svolte del testo, ma ascoltarlo vi farà sprofondare nell’ansia.
La cosa più affascinante del disco è il modo in cui Beth interpreta ruoli differenti, probabilmente versioni alternative di se stessa. L’autrice ha detto che nonostante in passato si sia dichiarata bisessuale, Flower, con quell’arrangiamento lento e suoni da strip club, è la sua prima canzone d’amore per una donna. “La mia pelle è aperta, il mio cuore congelato per sempre”, canta. Poi sussurra seducente: “Perché non posso avvicinarmi di più?”. I sentimenti di Beth sono ancora più sfocati nella successiva We Will Sin Together, in cui svela il vero significato del titolo dell’album: “Amare è vivere / Vivere è peccare / Sprofonderemo insieme”.
Ci sono anche momenti in cui Beth abbassa la guardia, come in Heroine, un brano con un ritornello sublime – in cui canta “Tutto quello che voglio è essere la donna che non puoi vedere” –, e French Countryside, una stupenda canzone d’amore che dimostra ancora una volta quanto al sua voce sia perfetta insieme al pianoforte. “Per tutta la vita sono finita nei posti sbagliati”, dice il testo, “e adesso sono qui e ti dico che sto cambiando”. Beth parla dei suoi sentimenti come se fosse nel bel mezzo di un incidente aereo, e il contrasto con il caos del resto del disco fa sembrare le sue parole qualcosa di più di semplici cliché. È un momento di sincerità, ed è ancora più sconvolgente se ascoltato insieme a Human, l’ultima traccia del disco e anche l’unico passo falso. È un ritorno alle atmosfere claustrofobiche e a strani assoli di sax, mentre Beth spiega che internet le ha rovinato la vita. “Ho cercato di leggere un libro ma non sono più in grado di farlo”, dice in quello che purtroppo suona davvero come un cliché. Anche se l’idea che il web atrofizzi il cervello è valida, il pezzo rovina tutta l’atmosfera.
Prima che Human finisca, però, Beth torna al tema originale – “Sono sempre nuda… mi spiace per i miei errori” – e i suoi disordini e rimpianti tornano ad avere senso. Il modo in cui ha trasformato il disco in una sorta di inventario delle sue emozioni, dei fallimenti e della sua forza sembra quasi una discesa verso la follia, ed è incredibile che Beth sia riuscita ad arrivare alla fine. Ora che l’autoanalisi è finita, è probabile che il suo prossimo lavoro sarà ancora più affascinante.