Il 10 giugno, alla caserma “Serena” – un centro di accoglienza alle porte di Treviso che ospita 320 richiedenti asilo – un operatore pakistano è stato trovato positivo al COVID-19. Alla decisione di mettere in quarantena l’intero centro i rifugiati, che hanno paura di perdere i propri impieghi, si ribellano. Seguono tre giorni di rivolte che terminano con 20 denunce e 3 notifiche di espulsione. Intanto, il 12 giugno, nella baraccopoli di Borgo Mezzanone nel Foggiano, scoppia l’ennesimo rogo. Muore Mohamed Ben Ali, detto Bayfall, di 37 anni. Nel frattempo i casi di coronavirus nelle baraccopoli e negli insediamenti abusivi aumentano, come a Roma, nell’edificio occupato alla Garbatella.
L’emergenza sanitaria in corso ha allontanato l’opinione pubblica dalla questione migratoria, mettendo in secondo piano un tema che è stato centrale negli ultimi anni e che, verosimilmente, continuerà a esserlo in futuro. A riflettori spenti, però, la situazione è tutt’alto che migliorata. Per le decine di migliaia di persone costrette ad attraversare mari e frontiere per arrivare in Europa, ai fattori di rischio abituale si è aggiunto anche quello del contagio da COVID-19, mentre le limitazioni alle frontiere e la sospensione dei voli costringe ancora più migranti a optare per mezzi di fortuna o a rassegnarsi a lunghe soste nel limbo di qualche campo profughi lungo il tragitto: lontano dalla partenza e lontano dalla meta.
Ma anche per chi la meta l’ha raggiunta la situazione non è facile, tra condizioni abitative malsane e lavoro ininterrotto, costretti in molti casi a fare a meno anche delle protezioni previste per i lavoratori in regola, che hanno dalla loro un minimo di potere contrattuale. “Sono in contatto soprattutto con tre tipologie di lavoratori: quelli del settore agricolo, i rider e chi lavora nelle cucine dei ristoranti senza contratto, soprattutto lavapiatti”, racconta a Rolling Stone l’antropologo Andrea Staid, che in questi giorni ha pubblicato con Nottetempo Dis-integrati. Migrazioni ai tempi della pandemia, un breve saggio antropologico-politico disponibile gratuitamente in e-book su Amazon. “Si tratta di lavoratori svuotati di diritti, perché pur lavorando tutti i giorni non hanno mai avuto la possibilità di regolarizzarsi. Per lo più sono arrivati in Italia con un visto turistico che poi è scaduto o più spesso sono entrati clandestinamente e non hanno quindi avuto modo di regolarizzarsi. E questo malgrado il processo in atto che riguarderà purtroppo solo una piccola fetta di lavoratori”.
La condizione di irregolari si traduce nell’impossibilità di avanzare richieste e tutele. “Le cucine hanno continuato a lavorare a pieno regime e lo stesso vale per i rider, che hanno continuato a consegnare le nostre spese e i nostri piatti pronti”, continua Staid. “Per quanto riguarda i braccianti, poi, ho avuto notizia di un lavoratore che ha chiesto ai superiori di poter usare la mascherina e come risposta è stato insultato e picchiato. È un caso emblematico di cosa significhi lavorare senza diritti, che in questo caso si traduce nell’impossibilità di rispettare le regole di prevenzione del contagio”.
Lo status di migrante irregolare pone gli individui nella condizione di sottostare a un ricatto continuo, e questo spiega in parte le rivolte, come quella dei rifugiati del trevigiano: persone che un nuovo lockdown non se lo possono proprio permettere.
All’impossibilità di mancare dal lavoro si aggiungono le condizioni abitative. Uno degli aspetti che è stato più fortemente investito e trasformato dalla pandemia, infatti, è stato proprio la questione abitativa, in tutte le sue articolazioni. Avere un alloggio appropriato e dai costi sostenibili è un’esigenza di base per tutti, ma in questo periodo è diventato ancora più evidente quanto questa necessità sia sentita e imprescindibile. E ancora una volta l’emergenza va a enfatizzare le già esistenti differenze sociali. “Il problema ovviamente non riguarda solo i migranti”, spiega Staid, “ma tutti coloro che non hanno un reddito tale da riuscire a pagare un affitto. Le situazioni più gravi riguardano slum e baraccopoli, aree cioè sovraffollate e con infrastrutture sanitarie inadeguate”.
Nei grandi slum dell’Asia o dell’Africa, ma anche nei fatiscenti edifici occupati delle nostre città o nelle tendopoli delle nostre campagne, l’accesso a misure preventive di base come il distanziamento o il semplice lavarsi le mani diventa un’impresa complessa e a volte del tutto infattibile. “Coloro che vivono nelle situazioni marginali e interstiziali delle nostre città e campagne, in condizioni quindi di estrema precarietà, si trovano ad affrontare un’ulteriore problematica: non poter rispettare le norme per prevenire il contagio”, spiega ancora Staid. “Non poterle rispettare a casa e nemmeno al lavoro”.
Senza contare che, come spiega il rapporto di World Health Organization, “i gruppi di migranti e le minoranze differiscono tra loro per ciò che riguarda l’accesso a conoscenze e informazioni sul COVID-19 e alcuni potrebbero non avere i mezzi socioeconomici o tecnici (come l’accesso a internet) per prendersi cura di loro stessi e delle loro famiglie durante l’isolamento”.
Nel frattempo, proprio in questi giorni, alcuni Paesi dello spazio Schengen stanno riaprendo i confini. Germania, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Svizzera e Grecia hanno revocato i controlli alle frontiere interne dell’Europa lunedì 15, mentre altri paesi, come Spagna, Portogallo e Malta, non hanno ancora completamente tolto le limitazioni. E l’Ungheria non sembra intenzionata a farlo. Ma gli impedimenti alla circolazione rimangono grandi. In particolare, senza gli aerei dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e i rimpatri dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, l’unica via di fuga è attraverso il Mediterraneo, che infatti, da maggio, si sta ripopolando di imbarcazioni di migranti alla deriva e di navi delle Ong.
Secondo Andrea Staid la pandemia non fa che mettere in luce ancora di più l’esigenza di affrontare la questione migratoria in modo sistemico, al di là della prospettiva emergenziale e delle false dicotomie come la contrapposizione tra rifugiati politici e migranti economici. E soprattutto, accettando come presupposto che lo spostamento verso un luogo più congeniale è una necessità che accompagna da sempre la storia dell’umanità.