Non avevo la minima idea di chi fosse Sergio Sylvestre fino a stamani, quando sono comparsi gli insulti su internet per aver cannato l’Inno di Mameli in diretta nazionale nella finale di Coppa Italia. Trattasi di un americano di padre haitiano trasferitosi a Lecce e diventato resident artist di un bagno di Gallipoli e poi approdato ad Amici, mi dice Wikipedia.
Sono andato a cercarlo su YouTube, l’ho ascoltato e credo sia una delle cose più belle ed emozionanti che mi siano capitate in questi giorni.
Andiamo per gradi.
Il fatto che Sergio non sappia le parole del vetusto inno nazionale non rappresenta un problema per nessuno se non per i suoi detrattori, che lo insultano per due motivi. 1) sono tipo dei grammar nazi 2) è uno straniero e non si può permettere di sbagliare l’inno sacro del calcio. Inutile girarci attorno, siamo sempre pronti a fare le pulci agli altri, dai. Nemmeno i calciatori conoscono il testo dell’inno, benché meno gli studenti, le persone normali. Tutti sanno bene solo la parte che fa: «parapà! parapà! parapappappapà!».
L’inno risale al Risorgimento italiano e divenne una hit durante i moti di violenza del 1848. Un po’ come se oggi spopolasse un pezzo trap nato negli scontri di Minneapolis. I classici si impongono come dei best seller, ci insegna Umberto Eco. Niente di più. Era la canzone giusta al momento giusto. Testo del giovane patriota Mameli, che inviò a Torino la sua composizione per farla musicare (oggi diremmo “produrre”), da Novaro, altro patriota. Novaro se ne innamora subito e sforna una hit, di sicuro l’inno nazionale più ganzo del mondo rispetto a quelle robe melense che cantano gli altri (inglesi in testa).
Però ecco è roba di quasi duecento anni fa. La gente non sa che è successo con Tangentopoli figuriamoci se sanno che è l’inno di Mameli. Figuriamoci se è tenuto a saperlo Sergio whotefuckis Sylvestre, che comunque lo canta da dio. C’è quell’attimo sospeso di ictus cerebrale in cui si inceppa nello stadio vuoto che santo il dio vorrei abbracciarlo, povero stellone. Chissà che vergogna per lui quel blocco. Doveva cantare «Stringiamoci a coorte», che magari non riusciva a pronunciare. La frase è una citazione dell’inno francese in cui la parola “corte” è allungata in una doppia “o” ormai atipica. Acquisisce una sillaba in più che va bene per la composizione, ma manda in tilt il cervello.
Nessuno sa che cazzo significhi l’inno di Mameli però tutti sono felici a cantarlo. Ci siamo riscoperti un popolo che issa le bandiere al terrazzo lontano dai mondiali, solo nel 2020 con il Covid, prima non se ne erano mai viste. Non siamo mica gli americani, che issano la stars and stripes. Non siamo mica patrioti noi. Il motivo lo spiega bene Alessandro Barbero in un suo podcast sull’Italia, messa assieme nelle cartine geografiche dopo secoli di divisioni, con la pretesa che quello fosse il collante per un popolo. L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani…
Quindi, vale la pena incolpare il povero Sylvestre? No, non direi.
Non è colpa sua se sono secoli che siamo un popolo incasinato, scisso, diviso su tutto. Siamo anche un popolo capace di grandi gesti artistici e umani e lo dimostriamo sempre.
L’inno è bello, suona ancora come un classico, ma diciamo che nessuno ci si può rispecchiare perché ha duecento anni e i tempi sono cambiati. Oggi abbiamo i jingle, i pezzi su Spotify, Tik Tok, canticchiamo Calcutta e Froci della Nike sotto la doccia, forse sarebbe l’ora di cambiare sigla.
L’italiano di Toto Cutugno? C’è chi dice no di Vasco? Gli anni degli 883? Paracetamolo di Calcutta? Vip in trip di Fibra? Aida di Rino Gaetano? Cara Italia di Ghali? Non mi sento sacrilego pensando che sono più adatte del vecchio.