Paul Thomas Anderson fa 53 anni. «Solo?», diranno alcuni. Perché la statura dell’autore nato a Los Angeles il 26 giugno del 1970 è quella di un maestro. Di più: lo è stata fin da giovanissimo. A 30 anni, aveva già piazzato almeno due capolavori. E altri ne sarebbero arrivati. In attesa del prossimo (e ancora misteriosissimo) progetto – la storia di un enfant prodige del cinema nella Valley degli anni ’70 – ripassiamo i suoi nove film. Pochissimi, ma buonissimi: metterli in ordine dal più brutto (per modo di dire) al migliore non è stata impresa facile.
9Sydney (Hard Eight) (1996)
Sì, anche Paul Thomas Anderson all’inizio voleva “fare Tarantino”, e la sua opera prima avrebbe potuto essere liquidata come l’ennesima emulazione cinefila post Pulp Fiction. Ma PTA è così innamorato dei suoi personaggi, su tutti il misterioso giocatore d’azzardo interpretato dal grande Philip Baker Hall e il suo allievo, l’esaurito al verde (John C. Reilly), da andare oltre i dialoghi cinematograficissimi e la raccolta di cliché indie pseudo-ribelli, dai motel fatiscenti a Samuel L. Jackson. E anche se il pacchetto del film è impressionante, l’obiettivo è meno a fuoco. Un piccolo film, è vero, ma che dimostra già quanto di belle speranze (e talento) fosse il giovane PTA. Che per la cronaca qua aveva 26 anni.
8Vizio di forma (Inherent Vice) (2014)
I cinéphile duri e puri hanno adorato questo neo-noir tratto dal romanzo omonimo di Thomas Pynchon. Perché il tuffo negli anni ’70 non sta solo nella ricostruzione filologica del décor. È insito nel profondo della parabola dell’investigatore privato Larry “Doc” Sportello (un come sempre debordante Joaquin Phoenix), che sembra riprendere, su tutti, almeno un titolo memorabile del mentore di PTA: Il lungo addio di Robert Altman. Tirando fuori ciò che meglio sanno fare i migliori sulla piazza (leggi: Josh Brolin e Benicio del Toro) e regalando nuove nuance a new entry del suo immaginario (Reese Witherspoon), Anderson filma e firma un “gonzo movie” solo apparentemente casuale, in realtà perfetta tessera di passaggio tre le grandi epopee Vecchia America rappresentate dal Petroliere e The Master e il fiammeggiante mélo “europeo” Il filo nascosto. E mette a segno uno dei suoi film più (auto)ironici, spiazzando quelli che ormai l’avevano incasellato tra gli autori “seri”. Se proprio si vuole trovare un difetto al film (ma è difficile): be’, lo dice il titolo.
7Ubriaco d’amore (2002)
Paul Thomas Anderson, l’auteur artsy, e Adam Sandler, il principe dei clown da grande schermo. Una combo bizzarrissima che però dà vita a una commedia romantica eccentrica e tenerissima, un frenetico quasi-musical su un venditore di sturalavandini solo e passivo, soggetto a momentanei scatti d’ira, che vive intrappolato tra l’acquisto compulsivo di budini inseguendo una promozione che regala miglia aeree e chiamate disperate a hot line sessuali che sfociano nel ricatto. Almeno finché non incontra Emily Watson: “Ho un amore nella mia vita. Mi rende più forte di qualsiasi cosa tu possa immaginare”, dirà il protagonista di Sandler a un certo punto. Premio per la regia al Festival di Cannes del 2002. E con una performance clamorosissima e instant cult del solito, gigantesco Philip Seymour Hoffman, titolare della hot line e di un negozio di materassi, in una scena al telefono da antologia. La dimostrazione che Sandler era già un attorone quasi vent’anni prima di Diamanti grezzi, la differenza la fa solo il regista.
6Il petroliere (2007)
Ascesa e caduta del mito americano. Nel lontano West – e dove sennò –, che però vede corrispondere alla sua crescita anche la sua fine. La vita di Daniel Plainview (Daniel Day-Lewis, premiato con il secondo Oscar della sua carriera) diventa la nascita di una nazione: il semplice minatore scopre il giacimento di petrolio sotto i suoi piedi e, perciò, cede al potere, all’avidità, alla hybris che gli sarà fatale. In un confronto quasi parricida con l’eterno rivale (Paul Dano, in versione doppia), anche se il vero nemico sarà la crisi del ’29: c’è un nuovo secolo e una nuova pagina di storia da scrivere, per il vecchio mito del self-made-man forse non c’è più posto. Anderson ha in mente un cinema “gigante” (letteralmente: le location sono le stesse dell’ultimo film di James Dean) e non risparmia né le prodezze tecniche né le ambizioni intellettuali. E, secondo la maggior parte dei critici e delle testate cinematografiche internazionali, firma la migliore pellicola del primo decennio di 2000. L’aggiornamento alla fine del ventennio non l’ha fatta scendere di posizione.
5Magnolia (1999)
Un film così istantaneamente classico che, oggi, si attira più di una critica, anche da parte dei fan del regista: siete seri? L’impianto (e l’intento) sarà più programmatico che altrove, ma all’opera terza (!) Anderson costruisce il pezzo di “Americana” più incredibile della fine del secolo scorso. Tra guru d’accatto (un Tom Cruise mai più così monumentale), mogli contrite (Julianne Moore), infermieri impiccioni (Philip Seymour Hoffman), poliziotti tormentati (John C. Reilly) e tutti gli altri, ne esce un America oggi (Altman è sempre l’eminenza grigia che incombe) meno leggero e forse più ricattatorio, di certo intriso delle colpe che porta con sé la fine del ’900 e del suo edonismo. Arriverà davvero una pioggia di rane a punirci (o ripulirci) tutti? A trent’anni, il nostro è totalmente padrone del suo cinema: pure troppo. Indimenticabili le canzoni di Aimée Mann, altra ragione per cui il film è diventato subito un cult.
4Licorice Pizza (2021)
Una storia solo apparentemente piccola diventa, alla solita maniera del suo autore, un film mastodontico. «Hometown of mine / Just got back from the boulevard, can’t stop crying / The guy at the corner shop gave me a line and a smile / I know he was trying / But a lie is a lie», cantano le Haim nella loro canzone Los Angeles. E proprio Alana Haim è protagonista di questa storia di formazione scombinatissima e per questo sorprendente. Gary (Cooper Hoffman, figlio di Philip Seymour Hoffman) è un teen actor di seconda fila; incontra Alana (l’esordiente Haim), assistente di un fotografo capitata nel suo liceo per gli scatti dell’annuario scolastico. Tutto qui? Sì e no. Ci sono anche Hollywood (il divo di Sean Penn, il parrucchiere delle star di Bradley Cooper), la politica, e lo spirito della San Fernando Valley in cui è cresciuto l’autore. Un capolavoro, punto.
3The Master (2012)
Joaquin Phoenix vs Philip Seymour Hoffman: Anderson dirige uno scontro fra titani del cinema e, insieme, il suo film più imperscrutabile, enigmatico, ipnotico. Liberamente ispirato alle origini di Scientology, The Master è la storia di un veterano della Marina reduce dalla Seconda Guerra Mondiale (Phoenix), che cade sotto l’incantesimo di uno pseudo-profeta new age à la L. Ron Hubbard. Tantissime domande sul piatto, ma nessuna risposta. Solo un’analisi psicologica primitiva, accompagnata da una narrazione onirica (e dalla colonna sonora da brivido di Jonny Greenwood dei Radiohead alla seconda collaborazione con il regista): due uomini segnati da traumi passati, incapaci di raddrizzare la propria vita. Sì, Phoenix ha vinto l’Oscar per Joker, ma ricordate quanto era imprevedibile e animalesco qui di fronte al mood abbottonato di un Hoffman, pure lui in stato di grazia? Le sedute occhi negli occhi dei due sono semplicemente cinema di un altro livello. Al punto che è impossibile anche per noi sbattere le palpebre.
2Il filo nascosto (2017)
Un mélo? Un thriller psicologico? Una miniatura d’epoca? Un horror? Tutto, e niente. Un film di PTA e basta, nel pieno della maturità estetica e della libertà di scrittura dell’autore. Le fonti sono sfacciate: da Alfred Hitchcock (per il plot psycho-sentimentale; e anche per i funghi velenosi) a Stanley Kubrick (vedi pezzi di cinema come la sontuosa scena della festa di Capodanno). Ma il cinema dell’autore losangelino ormai assomiglia solo a se stesso, tanto è capace di partire da un pretesto qualsiasi (in questo caso, la Londra delle case di moda anni ’50) per parlare di tutt’altro. Ovvero: l’eterna guerra dei sessi, che forse guerra non è: è proprio nella tensione tra vittima e carnefice (con le parti continuamente ribaltate) che si risolve qualsiasi relazione umana, non solo amorosa. L’eleganza inarrivabile della forma non schiaccia – anzi, esalta – il fuoco che brucia sullo schermo. Merito delle performance da applausi a scena aperta del solito Daniel Day-Lewis, della rivelazione Vicky Krieps (è nata una stella: ma l’Academy l’ha colpevolmente dimenticata) e di Lesley Manville, la caratterista British che ogni regista sogna. Nell’immensità.
1Boogie Nights – L’altra Hollywood (1997)
Una sbirciatina dietro le quinte dell’industria cinematografica del porno nella California di fine anni ’70 che pare un’epopea, quasi un Goodfellas a luci rosse. E che resta ancora oggi il film più amato, celebrato, citato di PTA, all’epoca 27enne (!). C’è il rapper di belle speranze Marky Mark, che Anderson trasforma nel'”attore Mark Wahlberg”, nei panni di un giovane lavapiatti dalle dimensioni che contano, diventato la più grande sensazione pornografica del Paese. C’è una Julianne Moore che spacca il cuore con la sua “milf originale”, una pornoattrice schiava della droga e alla quale viene tolto il figlio. E c’è un Burt Reynolds larger than life, aka il regista maestro dell’hard che vuole dare dignità al cinema a luci rosse. Poi Heather Graham, John C. Reilly, Don Cheadle, William H. Macy, Philip Seymour Hoffman. Ma soprattutto una sicurezza impressionante di Paul Thomas dietro la macchina da presa, una colonna sonora clamorosa e un umanesimo da lacrime agli occhi nel raccontare questi magnifici disadattati, alla ricerca di una famiglia surrogata e del sogno americano nel posto più ridicolo che si possa immaginare. Boogie Nights racconta la fine di un’epoca: quella del porno artigianale che è costretto a cedere il passo a quello industriale sì, ma anche della pellicola che se la deve vedere con il vhs e della disco music insidiata dal pop. E segna la nascita di un autore, che l’Academy ha sempre lasciato a mani vuote. Vergogna!