Tales of the City (1993-2019) – Netflix
Dal ciclo di romanzi (purtroppo poco noti da noi) di Armistead Maupin, una cavalcata nella diversity di cui è capitale morale San Francisco che giunge fino ad oggi. Sono quattro le miniserie in tutto, da quella del 1993 all’ultima, uscita l’anno scorso su Netflix (che ha reso disponibili anche le precedenti). Il registro – tra mélo, comedy e (soprattutto nell’ultima stagione) atto di militanza dura e pura – non è sempre a fuoco, ma negli Stati Uniti (e non solo) ha creato una nutrita community di fan. Grazie anche ai personaggi di culto, e alle relative prove dei loro interpreti, spesso rimasti immutati nei decenni: dalla Mary Ann Singleton di Laura Linney alla Anna Madrigal di Olympia Dukakis, icona trans per eccellenza.
Will & Grace (1998-2020)
La sitcom che ha cambiato per sempre la storia della sitcom. Portando nella tv generalista (anche italiana) un’ironia che fino ad allora sembrava confinata nella minoranza gay. E facendo delle apparenti macchiette omosessuali protagoniste – il Will di Eric McCormack e il Jack di Sean Hayes – dei personaggi a tutto tondo, che proprio con la leggerezza hanno saputo affrontare e condividere di fronte al grande pubblico temi, per così dire, anche molto politici. Tanto che, a distanza di più di vent’anni dalla messa in onda del primo episodio, il finale di quest’anno – pur tra le critiche di alcuni fan – è stato un evento imperdibile.
Queer as Folk (1999-2000)
Secondo molti, l’iniziatore di tutto. La produzione British firmata da Russell T. Davies (poi autore di altri notevoli pezzi di tv come Doctor Who e Years and Years, oltre al campissimo A Very English Scandal) inaugurava, non a caso, il nuovo millennio. Dando alla tematica gay un punto di vista nuovo, sicuramente “dall’interno”. Le vicende di Vince, Stuart, Nathan (un giovanissimo Charlie Hunnam) e tutti gli altri sono il documento precisissimo di una generazione, svelata senza censure e al contempo senza cedere al sensazionalismo. Un “remake” americano: ma non all’altezza dell’originale.
The L Word (2004-2009) – Sky
Dopo Sex and the City, sbarca sull’allora abbottonatissima tv italiana anche la sua versione (per così dire) lesbo: ed è una bomba. L’ex sogno etero-erotico di Flashdance Jennifer Beals si trasforma, per volere della showrunner Ilene Chaiken, in Bette Porter, la “lipstick lesbian” più famosa del piccolo schermo da quel momento ad oggi. Ma, da caposaldo saffico, il telefilm diventa ben presto un affresco completo e ricchissimo su tutto l’universo femminile, svelato sensibilmente non solo dal punto di vista sessuale. Una pietra miliare durata 6 stagioni, più un aggiornamento contemporaneo – The L Word: Generation Q, uscito l’anno scorso – che invece è passato in sordina (e si capisce perché).
Glee (2009-2015) – Netflix
Il teen-musicarello su un gruppo di magnifici loser del liceo segna l’esplosione di Ryan Murphy come autore (dopo Popular e Nip/Tuck) e la messa a fuoco delle sue tematiche: i ragazzi di questo glee club fittizio esplorano questioni come la sessualità, la razza, l’identità di genere, la bulimia, le gravidanze durante l’adolescenza, il bullismo e la violenza scolastica. E lo fanno cantando e ballando brani dei Journey (e di tutto il panorama pop e rock). Quella formata da Kurt (Chris Colfer) e Blaine (Darren Criss) è stata incoronata una delle “coppie TV più amate del millennio”. Menzione speciale anche per la love story tra le cheerleader Santana (Naya Rivera) e Brittany (Heather Morris). Un gioiosissimo inno alla diversità da 19 candidature agli Emmy Awards.
Orange Is the New Black (2013-2019) – Netflix
La prison dramedy al femminile tratta dal memoir di Piper Kerman è stata una delle hit di Netflix fin alla sua primissima stagione. E, nonostante qualche passo falso, ha cambiato il panorama dello streaming e della rappresentazione LGBTQ+ in tv. Non solo attraverso la relazione principale tra la protagonista Piper (Taylor Schilling) e la sua ex Alex (Laura Prepon), che si ritrovano in carcere 10 anni dopo, ma grazie anche alla moltitudine di personaggi queer: uno su tutti Sophia Bursett, primo personaggio transgender interpretato da una donna transgender, Laverne Cox. Che è anche stata la prima nella storia a essere nominata per un Emmy.
Looking (2014-2016) – Sky
Dal regista di uno dei più bei “gay movie” degli ultimi vent’anni (Weekend), la migliore delle serie a tema omo. L’inglese Andrew Haigh ambienta a San Francisco – e dove se no – quella che molti hanno definito “il Girls queer”. Non solo per la produzione HBO, ma per come riesce a parlare senza filtri di un universo che fino a quel momento, soprattuto sugli schermi USA, era stato quasi sempre relegato alla macchietta o alla scrittura “bigger than life” (che fossero giovani donne newyorkesi o gay californiani non fa differenza). Il finale non è una stagione, ma un vero e proprio film spin-off: da vedere anche quello.
Sense8 (2015-2018) – Netflix
Otto persone nate nello stesso giorno, che possono connettersi attraverso i loro pensieri e le loro azioni, impegnate in un viaggio insieme per scoprire perché sono quello che sono. Sense8 delle sorelle Wachowski è uno dei prodotti più unici e queer-friendly del panorama seriale, oltre ad essere noto per le scene di sesso esplicite e le orge, che riunivano regolarmente l’intero cast sullo schermo. La serie è stata cancellata dopo solo due stagioni, scatenando una protesta dei fan online tale da portare Netflix a commissionare un degno finale di due ore e mezza. Titolo? Amor Vincit Omnia. Non serve altro.
Black Mirror (San Junipero) (2016) – Netflix
Di certo quella di Charlie Brooker non è una serie che si può definire gay. Ma è bastato un episodio – San Junipero – per farla schizzare ai primissimi posti nelle liste dei titoli “necessari”, in fatto di ritratti omo sul piccolo schermo. La coppia protagonista, composta da Mackenzie Davis e Gugu Mbatha-Raw, è costretta a un eterno ritorno al futuro sensibile e struggente, e soprattutto capace di rivelare in modo al tempo stesso simbolico e carnale tutta la difficoltà di un amore (im)possibile. Un pezzo di cinema – perché di questo si tratta – da subito negli annali.
Pose (2018- ) – Netflix
Tra gli showrunner della nostra epoca, Ryan Murphy acquista di titolo in titolo un ruolo sempre più cruciale. E con Pose firma probabilmente la sua serie più toccante, complessa, importante. Prendendo come spunto la scene delle ballroom gay newyorkesi degli anni ’80 (e lo splendido documentario che già la raccontava: Paris Is Burning), realizza un’epica di tutti i giorni tra drag, trans, gay, e tutte le minoranze costrette ai margini che volevano prendersi (letteralmente) i riflettori. E, con una sensibilità ancora maggiore di quella già dimostrata nel film The Normal Heart, accompagna ai passi di Vogue di Madonna lo spettro dell’Aids, nemico di tutti i protagonisti tanto quanto la società che non era pronta ad accoglierli.
SKAM Italia (2018- ) – TimVision/Netflix
Martino e Niccolò: se questi due nomi ancora non vi dicono nulla, rimediate subito. Perché sono i protagonisti di una delle storie d’amore teen più autentiche e delicate della serialità italiana (e non solo). Se il principale merito di quella meraviglia di SKAM Italia è sempre stato quello di raccontare le Generazione Z senza filtri, cliché e sensazionalismi mentre affronta gioie e dolori dell’adolescenza, questo vale più che mai per la seconda stagione. In cui Martino (Federico Cesari) si innamora – ricambiato – di Niccolò (Rocco Fasano) e deve affrontare le sue paure rispetto a se stesso e a quel sentimento, il coming out con gli amici e la famiglia, l’omofobia. Un gioiello in cui non c’è mai nulla fuori posto: la scrittura, la regia, la colonna sonora, l’interpretazione.
Élite (2018- ) – Netflix
Nel panorama sempre più ricco delle serie teen europee, anche la Spagna è scesa in campo sulla scia dell’entusiasmo per La Casa di Carta. In questa lotta di classe tra i banchi di scuola con contorno di omicidio, tra i tanti amori che sbocciano c’è anche quello tra il tennista in erba Ander (Arón Piper) e il giovane musulmano Omar (Omar Ayuso). Che nella tamarraggine generale e ibericissima del prodotto si sono ritagliati uno spazio di realismo e tenerezza, al punto da guadagnarsi un loro soprannome: Omander. Il resto lo ha fatto Netflix che, rispondendo agli spettatori omofobi che li insultavano, ha pubblicato centinaia di emoji arcobaleno accompagnati dalla frase: “Ci dispiace di non poter leggere i vostri commenti circondati da tutti questi bellissimi arcobaleni”.
Sex Education (2019- ) – Netflix
L’educazione sessuale a scuola non si fa più? E allora ci pensano le serie. Il successo di quella firmata Laurie Nunn non sta, come si sarebbe potuto pensare all’inizio, nei tempi “pruriginosi” ritratti, ma nell’intento quasi didattico con cui li mette in scena. A cominciare dalla figura di Eric (il bravissimo Ncuti Gatwa), giovane omosessuale che sfida la famiglia di origine africana (e ultra-religiosa) e i pregiudizi sociali attorno a sé. Sullo sfondo di una comunità multi-sessuale che “normalizza”, nel senso migliore del termine, il racconto del sesso tra gli adolescenti di oggi: gay o etero fa davvero differenza?
Euphoria (2019- ) – Sky
L’hanno definita trasgressiva, estrema, più per adulti che per adolescenti. Euphoria, primo teen-drama del colosso HBO, prende i personaggi cliché del liceo e dà loro una moltitudine di livelli: alcuni sono così accurati da diventare inquietanti. È brutalmente onesta nella sua visione nichilista dell’adolescenza, ma è anche estremamente empatica nei confronti dei suoi protagonisti. Nessuna morale, nessun giudizio, solo uno sguardo straziante sulla Generazione Z. Il personaggio di Zendaya, una tossica appena uscita dalla rehab, si innamora di Jules (Hunter Schafer), la cui l’identità di genere rende la serie a suo modo rivoluzionaria: il fatto che sia una ragazza transgender non viene menzionato fino al terzo episodio, quello a lei dedicato, perché la narrazione prima tocca altri aspetti. E quando ci arriva, Euphoria non tace certo il lato difficoltoso di essere un’adolescente in transizione.
Hollywood (2020) – Netflix
Altro giro, altro Ryan Murphy. Che, dopo la ricognizione più che verosimile di Pose, gioca al “facciamo finta che”. Ovvero: che la Hollywood degli anni ’40 non fosse solo bianca ed etero, ma un posto in cui potevano sfondare anche gli afroamericani e gli omosessuali. A volte tutte e due le cose insieme: vedi l’immaginifico sceneggiatore Archie Coleman (interpretato da Jeremy Pope). È verissimo invece il personaggio di Rock Hudson (Jake Picking), l’attore che nella vita reale ha sempre dovuto nascondere la propria omosessualità (fino alla morte per Aids) e che qui invece può essere se stesso. Completano il cast “omo” il debordante agente di Jim Parsons e il commovente produttore di Joe Mantello, comprimari non più “in the closet” (o nascosti nelle ville per festini segreti, come quelli celeberrimi – e raccontati anche qua – di “the Queen” George Cukor).