Ringo Starr sperava di fare una grande festa per l’ottantesimo compleanno, ma la pandemia l’ha costretto a restare lontano dagli amici. Per rimediare, ha organizzato il Ringo’s Big Birthday Show, un concerto virtuale di beneficienza che inizierà su YouTube questa notte (alle 2 ora italiana), e ha rilasciato una lunga intervista video per Rolling Stone USA. Ecco i passaggi più interessanti della conversazione, che potete vedere integralmente qui.
Come stai gestendo il semi-isolamento di questo periodo?
Non sono uscito di casa per undici settimane. Ho ripreso a suonare colo questo mese, invitando un fonico. Sto in un cottage con una sola camera da letto e ha il miglior suono di batteria che abbiamo sentito in parecchio tempo. Passo il tempo suonando e dipingendo, ho una piccola sala dedicata all’arte. Vado lì, dipingo e faccio le mie cose. Mi piace stare seduto al sole. Amo Los Angeles. Amo la luce e passare il tempo qui. Non c’è molto altro da fare.
Non riesco a non pensare a quando da bambino sei rimasto in ospedale per parecchio tempo. Non so se ci hai pensato in questo periodo, che ovviamente sarà stato decisamente migliore…
Sì, c’è meno dolore fisico. Sai, ero un bambino in ospedale. La prima volta è capitato a 7 anni, e sono rimasto lì per un anno. Sono entrato a 6 anni e mezzo e sono uscito che ne avevo 7 e mezzo. La seconda volta, invece, ho festeggiato in ospedale il 14esimo compleanno, e abbiamo convinto tutti che ero abbastanza in salute per uscire. Quindi mi hanno lasciato andare in giro per un paio di settimane.
Ma sai, ne sono uscito meravigliosamente. Avevo 13 anni ed ero malato di tubercolosi. Ho imparato a fare l’uncinetto e cose del genere. Ti danno roba da fare, ma non è come a scuola. C’era anche una giornata dedicata alla musica, incontravamo una signora che portava tamburelli, maracas, triangoli e piccoli rullanti. Saranno stati larghi 20 centimetri. Da quel momento ho deciso che avrei fatto il batterista. Non volevo fare altro.
Sono uscito dall’ospedale e sono andato nei due negozi di strumenti di Liverpool. Andavo lì e guardavo le batterie, non le chitarre o i pianoforti. I miei nonni avevano un pianoforte, ma non mi interessava. Da bambino ci camminavo sopra! Insomma, è cominciato tutto così. A 13 anni avevo quel sogno e lo sto ancora vivendo. E questo è incredibile.
Non sembra che tu abbia 80 anni, sembri molto più giovane. È curioso, pensando ai problemi di salute che hai avuto da bambino…
Credo che quel periodo mi abbia dato forza. Non ho fatto alcun esercizio per anni. Lo facevo nei night club (ride). Ora ho iniziato a fare ginnastica, ho una palestra nella stanza accanto a questa. Ci vado tre volte a settimana, a volte anche sei. E sai, camminiamo molto. Ho iniziato a farlo quando abitavo a Monte Carlo. Camminavo nella zona del porto, andavo in un ristorante, fumavo una sigaretta e prendevo un doppio espresso. Non fumo da tanto tempo, ma apprezzo ancora il doppio espresso. E sono vegetariano. Mangio broccoli in tutti i modi possibili e i mirtilli ogni mattina. Faccio quel che mi sembra mi faccia del bene.
Com’è compiere 80 anni?
Ottanta? Io me ne sento 24 (ride). È una cosa bella e una cosa brutta. Ottanta è un bel numero. Insomma, è difficile arrivarci. Settanta è stato facile. E ci siamo divertiti un sacco al Radio City Music Hall di New York, Paul mi ha fatto una sorpresa e abbiamo suonato insieme. I quaranta sono stati i più difficili. Quest’anno… sarà quel che sarà. La festa sarà molto piccola. E faremo finta che siano ancora 79, perché speriamo di poter festeggiare davvero l’anno prossimo.
Ci sono diverse canzoni intitolate Life Begins at 40, ce n’è una molto vecchia e poi c’è quella che John Lennon ha scritto per te, giusto?
Non credo che l’abbia scritta per me, sai?
Sei tu l’esperto.
Credo che la canzone più bella che abbia scritto per me sia I’m the Greatest. Mi manca molto, anche George. Mi mancano quei due ragazzi. Ma sai, ho ancora mio fratello. Quindi è ok.
La cosa che mi piace di più del tuo modo di suonare la batteria è che esprime tutta la tua personalità. È una cosa di cui sei consapevole? E come ci sei arrivato?
Sai, sono mancino. Mia nonna si è assicurata che imparassi a scrivere con la destra. Ma nel golf e in tutto il resto sono mancino. Quando ho iniziato a suonare, il kit era già montato, quindi mi sono seduto e ho iniziato. Insomma, ho qualche trucco. Amo la profondità dei tom, quindi li uso molto nei miei fill, e cerco di entrare a far parte della canzone. E non suono granché quando c’è un tizio che canta. Ho sempre suonato con il cantante. Questa è la cosa più importante, e se faccio un fill è solo perché emotivamente mi sembra necessario. E nella maggior parte dei casi quel fill cambia in ogni take. Non è un processo consapevole. Non so da dove arrivino le parti. Mi piace pensare che vengano da dio.
Una volta Paul ha detto che amava il fatto che sapessi imitare lo stile di What’d I Say di Ray Charles. È un’influenza che sento molto nei tuoi primi dischi. È una canzone importante per te?
No, la conosco davvero bene. Ascoltavo i dischi, ma non prestavo troppa attenzione alla batteria. Sai, in I’m a Ram, la canzone del 1971 di Al Green, il batterista usa l’hi-hat in una parte. Beh, mi ha sconvolto. Amo quel pezzo. E l’unico assolo di batteria di cui mi piace parlare è in Topsy di Cozy Cole (un brano strumentale del 1958, nda). Era l’unico che apprezzavo. Anche John Bonham ne ha fatto uno molto bello, una volta.
Pazzesco che tu sia stato tanto vicino a Bonham e a Keith Moon. Chi dei due era il più scapestrato?
Ah, entrambi. Quando mi sono trasferito a Los Angeles negli anni ’70 e i Led Zeppelin passavano in città, Bonham aveva questo chiodo fisso per cui doveva prendere l’auto, venire a casa mia, prendermi e buttarmi in piscina. E lo faceva davvero. Poteva essere giorno o notte, ma lui arrivava e mi buttava in piscina.
E Keith, lui era una bellissima persona, ma tutti prendevamo roba e lui non faceva eccezione. Per i miei era lo zio Keith e per un certo periodo ha vissuto con noi, più o meno. È grazie a loro due se noi batteristi abbiamo la fama di decerebrati. Non è che tutti i batteristi son così. Loro due sì, ed erano miei amici.
C’è questa storia secondo cui Keith Moon faceva regali ai tuoi figli, solo che non li comprava lui…
Arrivava a casa nostra con un jukebox. Noi lo ringraziavamo e qualche tempo dopo ci arrivava la fattura. Ricordo un Natale in cui lui e la sua fidanzata sono arrivati con i regali, lui vestito da Babbo Natale e lei da regina delle nevi. E anche quella volta mi è arrivata la fattura. Alla fine degli ho detto: senti Keith, non comprarmi più regali, non posso permettermeli!
Una delle cose che i Beatles scoprirono in America, la prima volta che ci andarono, è il razzismo.
Dovevamo suonare [a Jacksonville, Florida, nel 1964], nel concerto doveva essere applicata la segregazione. Non lo capivamo. Voglio dire, gran parte dei nostri eroi erano musicisti e cantanti afroamericani. Così dicemmo che non l’avremmo fatto e loro, forse per non creare casini in città, dissero che in quella serata poteva esserci integrazione fra bianchi e neri. Facemmo la cosa giusta, ma solo perché amavamo tanti musicisti di colore. Non sembrava giusto, ecco.
Che pensi del film di Peter Jackson che sta per uscire?
Ho solo visto la parte sul tetto. Nel documentario originale copriva una dozzina di minuti, ora credo tre quarti d’ora. Fantastico. Non c’era gioia nel documentario di Michael Lindsay-Hoggs. Mostrava una cosa e ignorava le altre. E di materiale ce n’era: abbiamo trovato qualcosa come 56 ore di girato non usato. Grazie a dio, Peter si è unito all’impresa, solo che ora la macchina produttiva si è ovviamente fermata. Avrebbe dovuto uscire quest’anno, ma non succederà. Peter veniva da me a Los Angeles e mi mostrava sul portatile pezzi di video e di trama. Quante risate. C’è della gioia. Vedi la gente che viene a trovarci durante il documentario e ci sono divertimento e senso di unione tra i ragazzi. Quindi, grazie Peter. Anche lui ha un gran senso dell’umorismo. Per ora c’è stata una proiezione solo della parte girata sul tetto ed è grandiosa. Ma sono sicuro che anche il resto lo sarà, una volta completato.
In luglio sei salito sul palco con Paul McCartney e avete suonato Helter Skelter. L’avevi mai suonata dai tempi dei Beatles?
No. L’ho risentita una volta prima del concerto e mi sono detto: perché mai dovrei suonarla? Amo il modo in cui suona Paul. È un grande. Se è a Los Angeles e io sto incidendo, lui passa e suona. Per me è ancora il bassista migliore al mondo, il più melodico, amo il suo stile. Mi sa che sono quarant’anni che lo ripeto.
Prima di finire, puoi dirci qualcosa di Good Night? Non te ne ho mai sentito parlare.
Colpa di quella band. Io ero un cantante rock e loro mi davano da interpretare quei pezzi sdolcinati. Hanno rovinato la mia carriera!
Di nuovo, buon compleanno.
Grazie. Pace e amore a tutti.