La Spada della Verità si deve essere un tantino arrugginita. D’altronde è stata oggetto di così tante leggende, storie, adattamenti, sequel, prequel e travisamenti vari che a un certo punto, persino lei, non ci deve aver capito più niente. Mossa da un rigurgito di girl power, ha infatti voltato le spalle a Re Artù per scegliere Katherine Langford, l’ex Hannah Baker di Tredici. È lei la protagonista della nuova serie di Netflix Cursed: prequel in salsa arturiana a metà strada tra una storia posh-fantasy e il coming of age, disponibile dal 17 luglio sulla piattaforma. Qui Katherine interpreta Nimue: la futura Dama del Lago che però, al momento, è impegnata a difendere la Spada della Verità dalle grinfie praticamente di tutti (compreso Artù, che in Cursed non brilla né per acume né per onestà…).
Non che la buona Katy non abbia il physique du rôle. Anzi. Sembra essere nata per interpretare donzelle di leggendaria memoria. Langford ha i tratti del volto giusti, la giovane beltà necessaria al ruolo, quel candore da ancella mancata e due occhi chiari in grado di infatuare persino il più tosto dei Templari. Tra l’altro, pur avendo fatto due cose in croce (il teen drama Tredici e un paio di film, Tuo, Simon e Cena con delitto – Knives Out), è una vera star tra i giovani: la sua Hannah Baker, con quelle 13 cassette e il tabù infranto del suicidio adolescenziale, è entrata nell’immaginario collettivo con una potenza seconda solo alla Laura Palmer di twinpeaksiana memoria. Cursed era insomma la sua grande occasione: la serie che poteva lanciarla definitivamente.
In fondo la Spada l’aveva scelta, le femministe l’avrebbero appoggiata: poteva farcela. Tutto era a suo favore, persino la presenza di un cast di semi sconosciuti: l’unico grande nome in grado di adombrarla era Daniel Sharman (Lorenzo il Magnifico nella saga I Medici, nonché regular di Fear the Walking Dead, The Originals, Teen Wolf) ma dato che l’attore passa tre quarti del tempo con un cappuccio calato in testa, il pericolo non sussiste. Invece, niente. Katherine proprio non ce la fa e quello che doveva essere il suo personalissimo coming of age, ossia l’evoluzione verso una carriera affermata, diventa un brutto passo falso. L’attrice conferma infatti di avere un repertorio di espressioni facciali ridotte a tre o quattro: le stesse già viste in Tredici. Se non fosse per il look, decisamente diverso, Nimue sarebbe identica a Hannah Baker e nessuno si stupirebbe se, a un certo punto, allungasse ad Artù un paio di cassette audio.
A onor del vero bisogna aggiungere che la sceneggiatura non aiuta la povera Langford. Forse proprio per cavalcare l’effetto Tredici, gli autori hanno infatti immaginato un’infanzia di vessazioni e soprusi per Nimue. I suoi coetanei sono convinti che sia malvagia, o maledetta, o tutte e due le cose insieme: la brucerebbero volentieri al rogo e la chiamano “la strega con il sangue di lupo”. Chi le è accanto, invece, crede che Nimue la faccia più grossa di quello che è: sua madre chiosa “non mi stupisce che non ti vogliano, tu fai di tutto per dimostrare che hanno ragione” e l’amica del cuore le ricorda che non è lei a dover sposare l’amico puzzone: “Andiamo, la tua vita non è così male”. Si crea così quell’effetto da adolescente eternamente incompresa che se in Tredici era fastidioso ma giustificato da una trama ricca di spessore, qui è solo fastidioso. Frasi come: “Tu non mi capisci, non sei tu la bambina con cui nessuno vuole giocare” ti spingono a controllare di stare davvero guardando una serie epica ispirata alle leggende di Re Artù. Per non parlare delle azioni senza senso che le fanno compiere. Ne citiamo una su tutte: quando i Paladini Rossi mettono a ferro e a fuoco il villaggio, Nimue raccomanda al bimbo, soprannominato Scoiattolo, di fuggire nella foresta e nascondersi in un posto a loro noto. “Verrò a prenderti, te lo prometto”. Sì, peccato che prima di farlo Nimue senta l’irrefrenabile impulso di vagare pensierosa per il bosco, e di andare poi a lavarsi nel laghetto: non sia mai che lo scricciolo la veda spettinata e sporca. Così facendo, però, viene battuta sul tempo dai nemici e, quando arriva, di Scoiattolo non c’è più traccia. Ma non temete: gli sceneggiatori non contemplano sensi di colpa per lei. Già all’inquadratura seguente, non pensa più all’amichetto.
Non è molto epico, ne converrete. Ma in fondo gran parte dei personaggi di Cursed non lo sono. Merlino, per esempio, è ridotto a un mago ubriacone, che gira per il castello con un mantello troppo simile a un accappatoio. A sua volta Re Artù è un giovinetto sbarbatello, che sforna bugie, si accompagna a mercenari e non sa dove sta di casa (anche letteralmente). Nemmeno nella serie Merlin avevano osato tanto… L’impressione è che tutti i personaggi siano un po’ bistrattati, per non dire banalizzati, alla mercé di una trama inutilmente aggrovigliata e strabordante di politicamente corretto. In nome della diversity, per esempio, Artù è un ragazzo di colore e pazienza se è contro ogni logica storica; Nimue è una paladina del girl power; un personaggio non-diciamo-chi (niente spoiler!) tiene alto l’orgoglio arcobaleno; la difesa dell’ambiente è uno dei temi portanti, così come la denuncia delle lotte razziste. Il risultato è una storia troppo perbenista dove non si respira l’epopea del mito e, men che meno, quella trasgressività tipica delle leggende dove tutti facevano e dicevano cose ardite per l’epoca (dagli incesti in poi). Cursed finisce per essere una serie innocua dove nessuno spicca. A cominciare, appunto, dalla stessa protagonista…