Uno degli sport nazionali di questo Paese, una cosa in cui noi italiani siamo bravissimi e facciamo a ogni pie’ sospinto, è piangerci addosso per il modo in cui siamo visti dall’estero. È un abitudine che forse abbiamo sempre avuto, questo senso di inferiorità interiorizzato, e che negli ultimi vent’anni ha toccato picchi con le pagine “Sono italiano ma Silvio Berlusconi non è il mio presidente” che andavano forte nei primi anni Duemila e il nostro arrossire ogni volta che qualche straniero pronunciava le parole “bunga bunga”.
Questo atteggiamento ci ha portati anche a essere ipersensibili nei confronti di tutto ciò che arriva dall’estero e che parla dell’Italia. Immagino che nelle redazioni dei siti anglofoni sia ben noto che basta scrivere un articolo in inglese sull’Italia per garantirsi un bel po’ di traffico facile e sicuro nel momento in cui quell’articolo comincerà a girare e venire commentato nell’internet italiano – ed è anche, speculo, uno dei motivi per cui i video sul cibo tipo Tasty vanno così forte, alimentate da un carburante composto dai commenti indignati dei nostri concittadini.
Così stanno le cose, per cui dal nostro punto di vista è uno shock vedere che oggi, almeno per una volta, il modo in cui si parla dell’Italia all’estero non è appiattito sui soliti stereotipi negativi né sugli elogi al cibo e ai paesaggi. Sì, per una volta si parla bene dell’Italia in quanto sistema Paese. Si parla bene del governo italiano, delle sue decisioni, del modo in cui gli italiani le hanno seguite. E soprattutto si parla di tutto questo nel contesto di un’emergenza globale come quella del coronavirus. Sconvolgente.
È quanto afferma il premio Nobel Paul Krugman in un editoriale sul New York Times in cui passa in rassegna la risposta dell’Italia al coronavirus e arriva a porsi una domanda che probabilmente né lui né qualsiasi altro americano avrebbe mai pensato di porsi un giorno: perché l’America di Trump non può essere un po’ più come l’Italia? Aggiungendo che in fatto di risposta al coronavirus l’Italia, “il malato d’Europa”, ha dato una lezione agli Stati Uniti – un Paese che se mai, collettivamente, ha il problema opposto rispetto a noi, ovvero un senso di superiorità assoluto e spesso immotivato.
“L’Italia è stata la prima nazione occidentale a subire un’ondata di infezioni. Gli ospedali erano al collasso, e come risultato il numero di morti almeno all’inizio è stato terribile. Eppure dopo qualche settimane i casi hanno raggiunto il picco e hanno cominciato a diminuire. E alla Casa Bianca i funzionari erano convinti che l’America avrebbe seguito la stessa traiettoria”, scrive Krugman. “Ma non è andata così. I casi negli Stati Uniti sono rimasti stabili per un paio di mesi, poi hanno cominciato a risalire velocemente. Il numero dei morti li ha seguiti. A questo punto possiamo soltanto guardare con desiderio al successo italiano nel contenere il coronavirus (…) ma com’è possibile che l’America sti facendo così peggio dell’Italia?”
Già, com’è possibile? Dopotutto, come va a elencare Krugman, il nostro Paese ha un sacco di problemi, a partire da una burocrazia inefficiente, un Pil in stagnazione da decenni, una popolazione sempre più anziana. Eppure, le misure del governo sono state efficaci, e la situazione si è stabilizzata per poi tornare lentamente alla normalità. Al di là del giudizio politico che noi italiani possiamo dare sul governo Conte e sul modo in cui è stata gestita l’emergenza, e al di là del fatto scontato che la percezione di un Paese all’interno e all’esterno è molto diversa, il fatto che un premio Nobel sulle pagine del più importante giornale americano ci elogi in questo modo dovrebbe farci capire che forse, se la smettiamo di vergognarci di noi stessi e piangerci addosso, anche noi siamo capaci di fare, ottenere risultati e far parlare bene di noi.