Allarme rientrato – almeno parzialmente, dai – sulla quarta stagione di Rick and Morty: se la prima parte, uscita su Netflix lo scorso Natale, era poco più che una copia pigra e conservativa dei picchi del passato, questo secondo e ultimo blocco di cinque episodi, disponibile dal 24 luglio, dice che c’è ancora vita sul pianeta della serie firmata Adult Swim. Chiaro: i dubbi sulla riuscita complessiva dell’infornata e l’impressione che gli autori Justin Roiland e Dan Harmon, da sempre vulcanici e frenetici, si siano un po’ accomodati (calo d’ispirazione, chissà) restano; ma in questo lotto è evidente un ritorno agli standard classici, specie per quanto riguarda le meta-gag che tanti trip ci avevano regalato in passato. Però, prima di arrivarci, un passo indietro: questa delusione è un problema di aspettative?
Forse sì, perché dopo aver incarnato in prima persona – dietro solo al capofila BoJack Horseman – la rivoluzione delle serie animate per toni e profondità, l’hype era alle stelle, per quanto non fosse affatto facile bissare il successo, anche immaginifico, della terza stagione. Da una parte, le “avventure” (come piace definirle agli stessi protagonisti) di Rick e del nipote Morty hanno colto il momento, ci sono piaciute perché frullano i riferimenti benedetti dalla retromania – la fantascienza à la Star Wars, lo sci-fi, gli 80s di Ritorno al futuro di cui si pone come parodia – con l’universo Marvel, Futurama, Doctor Who, gli action-movie e una certa cultura nerd. Dall’altra, soprattutto, hanno sviluppato tutto ciò in trame schizofreniche, che divorano cliché per reinventarsi fra realtà parallele, cloni che mettono sempre in dubbio ciò che osserviamo e plot-twist demenziali che alimentano strutture narrative complesse e fluide, non necessariamente logiche, riuscendo a guardare sia al viaggio intergalattico di natura fantasy (e sfumatura splatter), sia alla dimensione domestica, con una famiglia – la loro – disfunzionale e grottesca. Il tutto con una morale cinica ed esistenzialista: fra infiniti mondi, siamo puntini nell’universo, ergo nulla ha senso. Inutile dimenarsi.
Ecco: se il piatto, ricco così com’è, fino alla scorsa annata era stato vincente con un susseguirsi di sorprese e trovate degli sceneggiatori via via spiazzanti, nel primo blocco della quarta stagione il secondo lato della serie – quello (diciamo) filosofico e satirico – è sparito, lasciandoci con poche idee davvero fresche e a nessun passaggio iconico (ok, forse The Old Man and the Seat, con la storia d’amore fra Rick e il proprio water; ma il confronto con un Pickle Rick o un divertissement a scatole cinesi come l’episodio dell’invasione dei parassiti non tiene). Tutte trame lineari, insomma, non acrobatiche come al solito, con colpi di scena limitati, gag prossime allo zero e un generale appiattimento verso un action-spaziale di sequenze appaganti e divertenti, certo, ma prive, per esempio, degli scazzi fra i genitori di Morty e Sandy – ovvero la madre-amazzone Beth (figlia di Rick) e il marito, remissivo fino al parossismo, Jerri.
Quindi, però, le nuove puntate. Che chiudono il cerchio e ci dicono che, almeno per certi versi, ci eravamo fasciati la testa troppo presto. Il salto di qualità avvenuto fra la prima e la seconda stagione non è replicabile anche per cause fisiologiche; non si innova e non si cresce, ma almeno si torna a sperimentare coi codici, a nuotare a largo dalla riva, riempiendo di nuove sfumature esistenziali il massacro interplanetario – rigorosamente senza buoni né cattivi – perpetrato dai due protagonisti (tre, in realtà, visto che c’è anche Sandy, che col suo cinismo disperato e tardo-adolescenziale è un personaggio prezioso, per fortuna recuperato dopo una prima parte assolutamente Rick-centrica).
Fra pianeti “sexy” per cuori solitari con divinità che trasudano una malinconia (à la Adventure time) da queste parti latitante da tempo (Childrick of Mort) e una vasca di acido che diventa espediente per ribaltare stereotipi generazionali sul cinema d’azione (The Vat of Acid Episode), recuperando tra l’altro una certa freschezza delle idee, adesso si guarda – oltre che al ritorno del black humor e del nonsense demenziale – al metalinguaggio. In Never Ricking Morty – decisamente l’episodio più interessante dei cinque – Rick e Morty restano, per esempio, intrappolati in un treno che rappresenta una sorta di “storia” e, per uscirne, devono muoversi per “blocchi narrativi”: una risposta a chi accusa la serie di schizofrenia strutturale, ma anche un modo per osare a livello di scrittura, distruggendo codici e pareti (la “quinta”, dicono loro).
Se da un lato, infatti, non ci sono mai state tante citazioni come ora, trasformando il tutto quasi in un tributo-appropriazione rigorosamente dada ai soliti riferimenti pop (Promortyus è praticamente Alien), è quando – a sorpresa – i protagonisti riflettono con lucidità disarmante e consapevolezza cinica sul proprio ruolo all’interno della sceneggiatura che questa seconda parte innesta il turbo, riscoprendosi quel prodotto con più chiavi di lettura che non assomiglia a niente che già c’è in giro, e che per questo ha rappresentato una rivoluzione nell’animazione dello scorso decennio. Il resto, poi, è puro contorno comunque ricchissimo: il ritorno dei cari vecchi ritmi sincopati e illogici in stile flusso di coscienza, la satira sociale (che sia sul femminismo o sui dei parassiti progressisti che rinnegano tradizioni millenarie), un finale – senza fare spoiler – che apre, forse, a nuove sfumature emotive nei personaggi.
Insomma, dopo una prima parte sterile, questa seconda infornata sembra aver percorso la strada della meta-serie prima solo accennata, riflettendo su sé stessa e il contesto senza perderne in brillantezza della sceneggiatura (sempre onnivora e famelica) e umorismo cinico e nonsense, oscurando il primo, pigro blocco di puntate uscito a dicembre. Ora: vorrei augurarmi che questa possa essere la chiave di volta per il futuro, ma la verità è che quando ci sono di mezzo Roiland e Harmon è impossibile anche solo fare previsioni, vista la natura volutamente contraddittoria e folle del loro progetto. Al netto anche di qualche passo falso, quindi, prendere o lasciare. E farsi, comunque, trasportare.