Ho visto il nulla totale: Dark Polo Gang, la serie | Rolling Stone Italia
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Ho visto il nulla totale: Dark Polo Gang, la serie

Se la serie Netflix doveva uscire dalla comfort zone non c’è riuscita: la gang dietro le quinte è la cosa più vicina al niente totale, alla depressione e al nichilismo che abbia mai visto

Ho visto il nulla totale: Dark Polo Gang, la serie

La Dark Polo Gang, foto press

Di solito ai vecchi non piace la musica dei giovani e viceversa, oppure (sempre i “vecchi”) tendono a dire che ai tempi loro le cose erano migliori e bla bla bla. Che noia. Fanno peggio solo quelli che per sembrare eternamente giovani, invecchiano ma amano tutto ciò che è contemporaneo: il nuovo singolo, la nuova tendenza. A oltranza. Quando mi rapporto con la Dark Polo Gang, mi succede un po’ la stessa cosa. Non so da che parte stare, se fare come quei rincitrulliti che li bocciano a priori o come quegli attempati quasi quarantenni che ti dicono “sono fighissimi”. 

Non parlerò della loro musica, anzi premetto: questo pezzo non c’entra niente con la loro musica. Qualcosa negli anni ho ascoltato, senza troppo entusiasmo (se non per un singolo da solista di Side Baby), ma la contestualizzo come un prodotto di questi tempi. Prima di parlare di Dark Polo Gang, la serie prodotta da Tim Vision nel 2018 e arrivata su Netflix (già tra i programmi più visti), voglio fare un discorso. Alla nascita del rock and roll erano tutti uguali a Elvis. Copiavano i suoi giri di accordi, la sua pettinatura, il suo ritmo. Poi lo hanno fatto con i Beatles e gli Stones e così via. È sempre stato così nella musica. Arriva un innovatore e scopre un filone d’oro, poi ci sono decine di cloni che lo lavorano, alcuni tirando fuori dei capolavori. La Dark Polo appartiene al filone della trap con tutte quelle tematiche di superomismo forzato, l’ostentazione dei soldi e dei gioielli, l’aggressività verbale. In Italia hanno fatto scuola da subito, ma sono anche loro un sottoprodotto clonato di qualcosa che già c’era. Fine.

Nella serie tv Netflix dedicata alla Gang si va oltre, si va in quel territorio che esula il singolo o il videoclip e si entra dentro la vita di questi giovani artisti. Tutto curioso di farmi un’idea su di loro ho iniziato a guardarla. Ho retto quaranta minuti poi ho spento, nel silenzio di un giorno d’agosto in campagna, lontano dal giudizio di tutti. Mi sono detto: “Oddio, che palle questa roba non ce la faccio!”. Nessuno toglie a questi ragazzi le loro capacità manageriali imprenditoriali, nessuno qui vuol dire che non si siano guadagnati l’enorme celebrità e le vagonate di soldi che hanno fatto (anzi), nessuno vuole puntare il dito. Il fatto è che a vederli in una serie tv ti appaiono per quello che forse sono veramente ed è disarmante. La Gang nel tempo libero è la roba più vicina al niente totale, alla depressione e al nichilismo che ho mai visto. Il vuoto pneumatico.

Lo sguardo sempre a mezz’asta dopo cento cannoni e le parlate strascicate come quelle dei tredicenni quando vogliono fare i ribelli, tolgono quel poco di aura da rockstar che gli avevo attribuito dopo anni di bombardamento dei media. Tutti hanno scritto e detto che erano strafighi, quindi senza preoccuparmene troppo c’avevo creduto. Invece sembrano mio cugino e i suoi amici delle medie quando giocano alla Playstation. I cinque (all’epoca delle riprese, prima delle dipartite erano ancora in cinque) si trascinano da un posto all’altro con il loro linguaggio settario e impastato. I vestiti, il cane di marca, i soldi (bling bling), i tatuaggi, lo slang (devastante il continuo uso di bitch
e troia, ma le femministe mute). Tutto li riduce malgrado loro a essere macchietta di se stessi. Questi ragazzi speranzosi idealisti sono talmente (e giustamente) impegnati a godersi la celebrità (l’epica triade: figa-soldi-adulazione) e la giovinezza, che paiono non rendersi conto della strada in cui si sono infilati.

Nella prima puntata una major li vuol produrre e lo farà tirandoli nel tritacarne del fenomeno del momento, da cui non tutti ne usciranno indenni. Questa musica è molto contemporanea, probabilmente tra cinque anni nessuno ne avrà più voglia e nel frattempo questi ragazzi o avranno diversificato i loro business (diventando produttori, investendo in immobili, creando un brand di abbigliamento, ecc) o potrebbero finire nella nube oscura del dimenticatoio e della povertà.

A volte è bene non conoscere il proprio mito, idealizzarlo, prendersi il prodotto che va nel videoclip e sul palco e la musica, associarlo a un’idea, renderlo eterno. Con le rockstar funziona così di solito. Nel caso della Gang, la docuserie forse è un passo falso. Tolto il pubblico di fedelissimi che comprerebbe anche dei dischi con i loro rumori fecali (googola la citazione, bitch), se questa produzione Netflix doveva uscire dalla comfort zone non c’è riuscita.