La fine dei Beatles
Cronaca dello scioglimento più drammatico della storia del rock, avvenuto 50 anni fa. Un nuovo film di Peter Jackson ripercorre la vicenda: è un viaggio nel dolore, nell’amicizia, in musiche ancora fondamentali. «I Beatles continuavano a guardare avanti, ma non avevano più traguardi da tagliare»
Ethan A. Russell/© Apple Corps Ltd.
È un deprimente lunedì mattina del gennaio del 1969 e i Beatles stanno cercando di recuperare il tempo perduto. Il progetto Get Back sembra un’idea perfetta: solo i quattro con i loro strumenti, pronti a entrare in studio, tornare alle proprie radici e tirare fuori dal cilindro qualche bel pezzo. Proprio come facevano un tempo. Per il 18 gennaio John, Paul, George e Ringo hanno in programma uno special: un concerto televisivo, il loro primo spettacolo dal vivo dopo anni. Avranno un paio di settimane di prove faccia a faccia per creare su due piedi qualcosa di geniale. L’hanno fatto molte altre volte. Non c’è stata volta che non ci siano riusciti.
C’è una buona notizia: Paul è arrivato, e anche Ringo. E come loro anche la troupe – queste session sono infatti filmate – così che i Beatles possano mandare in onda mezz’ora di riprese delle prove prima della performance televisiva. E quindi eccoli lì di lunedì mattina, pronti a stupire il mondo con un po’ della loro peculiare genialità. O almeno Paul e Ringo sono pronti. Ehi, qualcuno ha notizie di John e Yoko? E di George?
Con lui la faccenda è più complicata: ha lasciato la band. Venerdì, davanti alle telecamere, stava cercando di insegnare agli altri tre una nuova canzone, All Things Must Pass. John, visibilmente provato dalla sua nuova passione, l’eroina, lo aveva schernito con evidente disprezzo e lui spazientito se n’era andato dicendo: «Ci vediamo in giro». John non l’aveva preso sul serio. «Se George non torna lunedì o martedì, chiederemo a Eric Clapton di suonare con noi», aveva detto. «Il punto è: se George se ne va, vogliamo davvero continuare con i Beatles? Io sì. Dovremo solo trovare altri membri per andare avanti».
Ma siamo a lunedì, e di George nemmeno l’ombra. Mancano all’appello anche John e Yoko (e non c’è nemmeno Clapton, se è per quello). Paul e Ringo passano il tempo improvvisando su un successo radiofonico del momento, Build Me Up Buttercup. Si riuniscono tutti insieme per discutere della crisi e lamentarsi con rabbia della presenza costante di Yoko. Contro ogni aspettativa, è Paul a difenderla. Non sa resistere alle storie d’amore, dopotutto è pur sempre Paul McCartney. Ma sa anche quanto quella storia d’amore sia importante per il suo compagno di vecchia data, l’amico più inquieto, crudele e impossibile che abbia mai avuto. «Non esageriamo», insiste. «I ragazzi non vogliono separarsi, e che male c’è? Lasciamo che i giovani innamorati stiano insieme».
Pensando a cosa potrebbero dire al riguardo le generazioni future, Paul non riesce a trattenere una risatina: i Beatles, la più grande band rock’n’roll, il più leggendario e creativo gruppo al mondo andato a rotoli per un battibecco banale. Anche in una mattina d’inverno cupa come quella, Paul scoppia in una risata. «Sarebbero le comiche se tra cinquant’anni si dicesse: si sono sciolti perché Yoko stava seduta su un amplificatore!».
Paul non si sbagliava di molto. Proprio cinquant’anni dopo, la fine dei Beatles è ancora argomento di discussione. È l’esempio di finale infelice più discusso al mondo. Un po’ come Fleetwood Mac con Rumours, Let It Be è diventato il simbolo del concetto di rottura. I Beatles sono diventati l’archetipo di una squadra di amici che lavora insieme, pianifica insieme, crea musica insieme e inevitabilmente si separa.
Sappiamo tutti come finirà la storia: lo speciale televisivo non andrà mai in onda, ma i Beatles suoneranno il famoso concerto di addio sul tetto della sede della Apple a Londra fino a che non verranno interrotti dall’arrivo della polizia. Nello stesso anno realizzeranno un altro capolavoro, Abbey Road, mentre i nastri di Get Back rimangono a prendere polvere. Il nuovo manager Allen Klein pubblicherà Get Back come lungometraggio, ribattezzato Let It Be, insieme a un album con lo stesso titolo. Il film verrà presentato per la prima volta nel maggio 1970, poche settimane dopo l’annuncio della separazione dei Beatles da parte di Paul. I Favolosi Quattro non si presenteranno alla première. Phil Spector maneggerà i nastri e ne tirerà fuori un album raffazzonato. Poco dopo, Lennon scriverà una canzone intitolata God in cui afferma: “Non credo nei Beatles”. I quattro non metteranno mai più piede nella stessa stanza.
Per cinquant’anni il mondo ha cercato di darsi una spiegazione usando luoghi comuni: John e Paul stavano litigando, Paul e Yoko stavano litigando, John e Yoko hanno iniziato a drogarsi, è stata questione di soldi, si sono messe di mezzo le droghe, si sono messe di mezzo le mogli; o per dirla con parole loro, “all things must pass, the dream is over”.
Ma come spesso accade quando si parla dei Beatles, a guardar bene la verità è molto più complicata di quanto appaia. Alla fine, si tratta davvero della storia di quattro amici che in un momento buio e confuso cercano di rimanere uniti e andare avanti. Proprio come il resto del mondo, John, Paul, George e Ringo hanno assistito alla fine dei Beatles con stupore e incredulità, senza avere idea di come tirare il freno. Nessuno di loro immaginava che quella fosse davvero la fine.
Ma come hanno fatto a riversare nei loro pezzi emozioni così grezze, quando in realtà non avevano altro modo di comunicare? Questo è sempre stato il vero mistero alla base dello scioglimento dei Beatles. Come è stato possibile che anche nella loro ora più buia siano riusciti a creare assieme quella musica che ancora oggi regala speranza a chi l’ascolta? Nel 2020 questa domanda torna a essere rilevante.
I Beatles provarono sollievo alla fine del loro concerto sul tetto. Lo si percepisce nella voce di Paul quando dice: «Grazie, Mo» rivolto a Maureen, la moglie di Ringo, che da sempre aveva creduto in loro. E l’energia di quella fan in quel momento era più necessaria che mai. Avevano a disposizione 56 ore di riprese, 200 ore di registrazioni audio, per un totale di 21 giorni di caos. Ma l’idea dover passare in rassegna tutto quel materiale era insopportabile. Come ammise John: «Non mi andava proprio, era stato un periodo davvero difficile. Eravamo molto tristi in quel momento».
Il film Let it Be è diventato una rarità, disponibile in video solo per poco tempo. Io l’ho visto negli anni ’80 a Boston, alla proiezione notturna di un cinema pieno di gente fumata che gridava buuuu ogni volta che Yoko appariva sullo schermo. Le immagini erano sgranate e il film aveva tutta l’aria di esser costato poco. L’umore era nero, sia sullo schermo che nella platea. Il mix di Spector sembrava un goffo finale della leggendaria corsa dei Beatles. Anche se era stato registrato più di un anno prima della rottura – con in mezzo il trionfo di Abbey Road – Let It Be sembra documentare la loro caduta, come uno Zapruder che registra accidentalmente la morte di un pezzo di rock’n’roll. Divenne così, senza volerlo, la lapide dei Beatles. Let It Be sparì presto dalle sale cinematografiche e dopo il 1970 è stato proiettato solo in poche occasioni. La maggior parte dei fan conosce solo l’estratto di Anthology dove George e Paul discutono su una parte di chitarra. Pochi film sono stati oggetto di così tante analisi e interpretazioni da parte di persone che nemmeno si sono degnate di guardarlo.
John e Yoko lo videro in un cinema di San Francisco nel giugno del 1970, insieme al fondatore di Rolling Stone Jann S. Wenner e a sua moglie Jane. I quattro avevano comprato i biglietti all’entrata e si erano seduti senza dare nell’occhio assistendo allo spettacolo diurno. «Comprammo i biglietti ed entrammo subito», ricorderà anni dopo Wenner. «Credo che nessuno sapesse che eravamo lì. Il cinema era vuoto. Era lo spettacolo pomeridiano di un giorno infrasettimanale. Quindi noi quattro ci siamo seduti lì in platea a guardare un film sullo scioglimento dei Beatles». John non riuscì a trattenere le lacrime. «Uscimmo dalla sala, tutti e quattro stretti l’uno all’altro in un abbraccio, e la sensazione di tristezza che provammo è ancora impressa nella mia mente».
Peter Jackson, il regista della trilogia Il signore degli anelli e del documentario sulla Prima guerra mondiale They Shall Not Grow Old – Per sempre giovani ha avuto il coraggio di andare a ripescare Get Back dagli archivi per ricostruire tutta la storia e farne un documentario per Disney, la cui uscita è prevista per il prossimo anno. Per dirla con parole sue: «Tutto quello che pensavo di sapere è stato smentito». Quello di Jackson non sarà un remake di Let It Be. Get Back: The Beatles sarà un film completamente nuovo che dimostrerà che Paul e Ringo non stavano scherzando quando dissero che quel film mostrava solo il lato negativo dei fatti.
Il film di Jackson promette di essere pervaso di calore e spirito di squadra: come quando John e Paul suonano per strada una versione acustica di Two of Us e John se ne esce con Ob-La-Di, Ob-La-Da facendo piegare in due dalle risate il suo amico, o Paul che giocherella su She Came in Through the Bathroom Window con John che gli urla dietro: “Get a job, gob” a ogni verso. E poi ancora la band che prova a trattare in modo scherzoso il successo del 1965 Help!, per poi tornare al significato originale del testo, che è un disperato grido di aiuto. Si vedono i quattro scrivere pezzi che finiranno in Abbey Road o in album solisti. Ad esempio, si vedono John e Paul in azione su Gimme Some Truth, il classico dell’album Imagine. Le loro facce furbe, il contatto visivo, l’elettricità collettiva quando suonano insieme: tutto questo dimostra che erano ancora più affiatati di quanto si possa immaginare.
Quando i Beatles superstiti hanno chiamato in causa Jackson, lui non era sicuro di essere all’altezza. «Pur essendo da sempre un loro fan, non ero troppo entusiasta», dice. «Poi mi sono chiesto: se quel che abbiamo visto è la parte che loro hanno deciso di mostrare al pubblico, cosa ci sarà nelle altre 55 ore? Quando sono arrivato alla Apple sentivo le gambe pesanti. Mi dicevo: dovresti essere al settimo cielo, e invece hai paura di cosa stai per vedere».
Come molti fan, anche Jackson associa Let It Be a momenti tristi. «Anche se Let It Be non fu filmato pensando alla rottura della band, le riprese furono fatte nei 14 mesi precedenti. In effetti, mettendomi nei panni di chi ha visto il film al cinema nel maggio del 1970, quando la notizia della fine dei Beatles era fresca fresca, anch’io avrei lo avrei guardato in un certo modo. Credo sia questo il motivo per cui il film è conosciuto come una cronaca visiva della rottura. Ma in realtà, l’argomento è completamente diverso». Chiaramente, Paul e Ringo hanno affermato di essersi fatti un sacco di risate durante le session di Get Back e che nel film appaiono solo i litigi. E se avessero ragione loro? Come dicono sempre i protagonisti dei reality show, dipende tutto dal montaggio.
Giles Martin, che di recente ha prodotto magistrali edizioni per l’anniversario di Sgt. Pepper, di Abbey Road e del White Album, ha coniato l’espressione “brigata dei sandali con i calzini” per descrivere i beatlesiani più nerd e fissati. Jackson ha ammesso con orgoglio di far parte di quella tribù. «Ho iniziato a comprare copie pirata alla fine degli anni ’70. Ho sei copie illegali delle session di Get Back su vinile, qualcosa come nove LP, in qualche scatolone. E li conservo ancora». Ma non sono bastati a prepararlo alla storia che avrebbe trovato negli archivi. «Guardando le 56 ore di filmato con gli occhi di un fan, ho avuto l’impressione che il gruppo volesse fare qualcosa di diverso, ma che avesse esaurito gli spazi in cui muoversi», racconta Jackson. «Ripetersi non era da loro, non volevano fare un Sgt. Pepper 2. Nelle riprese c’è addirittura una conversazione in cui dicono: “Magari potremmo tornare a essere la band del Cavern”, intrattenitori degli ubriaconi di mezzogiorno. E dicono così perché sanno che ormai non possono suonare in uno stadio più grande dello Shea. Hanno già creato album complessi e album semplici. Si percepisce chiaramente che non avevano l’intenzione di separarsi. O almeno, quella è l’impressione generale che ho avuto io. Sono una band che guarda avanti, ma che ha esaurito i luoghi da esplorare».
C’è una scena molto divertente in cui il regista Michael Lindsay-Hogg butta là l’idea di trasformare le riprese delle prove in un film. Ha così inizio (ovviamente) una discussione dove tutti si chiedono se da un punto di vista tecnico la cosa possa funzionare. Le riprese furono pensate per la TV degli anni ’60, la pellicola 16mm è stata poi ingrandita a 35mm per il grande schermo, ed è per questo che la qualità di Let It Be è così scarsa (ma dopo il restauro della pellicola finalmente Get Back rende giustizia ai Beatles). Paul fa notare che il risultato sarebbe un’immagine troppo sgranata per il grande schermo. George scuote la testa e gli risponde: «Se non lo vogliono sono proprio scemi!», con quella magnifica superbia che accomunava i quattro Beatles. In un certo senso, è stato proprio quello a tenerli uniti anche attraverso i loro alti e bassi. Senza quel livello di superbia, nessuno si sarebbe imbarcato in un’avventura così meravigliosamente folle come Get Back.
Quando i Beatles stupirono il mondo con Rubber Soul, Revolver, e Sgt. Pepper la loro energia collaborativa era alle stelle. Sgt. Pepper è stato il loro ultimo atto di resistenza contro il mondo, pubblicato poco prima della morte del loro manager storico, Brian Epstein. Fino a quel momento, i ragazzi erano quattro anime gemelle che desideravano passare il loro tempo libero insieme, anche quando non lavoravano. «La maggior parte della gente non ci capisce», dichiarò John Lennon nel 1967 nella biografia di Hunter Davis. «Non abbiamo mai comunicato davvero con le altre persone. E ora che praticamente non incontriamo mai gente nuova, non abbiamo bisogno di comunicare. Tra di noi ci capiamo al volo. Il resto non conta». Dopo l’uscita di Revolver decisero di non fare più tournée e prendersi una pausa di tre mesi, ma sentivano troppo la mancanza l’uno dell’altro. Lennon dirà infatti: «Non ho mai incontrato altre persone che mi piacciono così tanto».
Epstein era stato il loro fan numero uno, il loro primo sostenitore. Per i Beatles niente fu come prima. «La morte di Epstein è stato un duro colpo», spiegò Paul durante le session di Get Back. «Ecco perché tutti noi, uno alla volta, ci siamo stufati del gruppo».
L’esperimento Get Back – la folle idea di fare uno spettacolo dal vivo che erano troppo arrugginiti per affrontare, la certezza di poter creare da zero grandi pezzi sull’onda delle emozioni – nasceva proprio dall’amore che provavano nell’essere i Beatles. Ci misero cinque tormentati mesi a realizzare il White Album, ma come ha dimostrato la grande edizione del 50° anniversario, tutte quelle nottate di follia e caos hanno prodotto la loro musica più sbalorditiva, molto più di quanto un doppio album possa contenere.
Nel marzo 1969 tutti e quattro erano già sposati; tre di loro erano papà. Stavano provando a costruirsi una vita adulta e a farla convivere con la band, ma non avevano modelli da seguire. George frequentava Bob Dylan ed Eric Clapton, rock star che lo trattavano con il rispetto che avrebbe desiderato dai suoi compagni.
Nella primavera del 1968 John e Paul avevano fatto una breve visita a New York per annunciare la loro nuova avventura, la nascita della Apple Corps. Furono invitati al Tonight Show per un’imbarazzante chiacchierata con il presentatore e giornalista sportivo Joe Garagiola e la diva di Hollywood Tallulah Bankhead, entrambi assolutamente ignari di chi avessero davanti (Garagiola provò addirittura a parlare con loro di cricket). Il momento rivelatore è quando Garagiola chiede: «Quindi voi quattro siete amici molto stretti?». John e Paul lo guardarono come fosse un marziano. John sbuffando rispose: «Be’, siamo amici intimi, sì».
Da lì a qualche settimana, John rivoluzionerà la sua vita. Passerà una hard day’s night con Yoko Ono a registrare il loro collage di rumori d’ambiente Two Virgins, e una volta finito faranno l’amore all’alba. Quando i Beatles si riuniscono per la prima sessione di registrazione del White Album, rimangono molto sorpresi di vedere Yoko al fianco di John in studio. Da quel momento, non sarebbe stato possibile interagire con John senza passare attraverso lei. Quel primo giorno di registrazioni, Lennon raggiunse la band per una jam su Revolution 1. Anche se Yoko era definita artista visiva, era in primo luogo musicista, una compositrice con una formazione classica che prima dell’incontro con John aveva collaborato con leggende del calibro di John Cage, La Monte Young e Ornette Coleman. Yoko non era il tipo di persona che aspetta il proprio turno per parlare e non aveva alcun interesse a rispettare gli spazi dei Beatles. «Yoko era ingenua», raccontò Lennon a Rolling Stone. «Quando arrivò si aspettava di esibirsi con noi come fossimo qualsiasi altro gruppo».
Two Virgins uscì nel novembre del 1968 ed è ancora oggi l’album più oltraggioso della storia, non tanto per le canzoni (non ne conteneva nessuna) ma per la copertina che ritraeva John e Yoko completamente nudi. «Avendo fatto un album insieme, ci sembrava naturale essere nudi», raccontò John a Rolling Stone. «Chiaramente era la prima volta che vedevo il mio pisello in foto o sulla cover di un album». Paul scrisse nelle note di copertina: «Quando due grandi Santi si incontrano, è un’esperienza che ti fa sentire piccolo».
Il 18 ottobre dello stesso anno, John e Yoko furono fermati dalla squadra narcotici di Scotland Yard. Poco dopo l’arresto, Yoko ebbe un aborto spontaneo. Il White Album venne pubblicato e acclamato da tutto il mondo, ma la coppia, devastata dalla perdita del bambino, cercò rifugio nell’eroina.
Nel corso del tumultuoso 1968 ci fu uno spiraglio di luce: Hey Jude, una canzone scritta da Paul durante una visita all’ex moglie di John e ai figli. Voleva sapere come stavano dopo la separazione. Paul portò a Cynthia delle rose rosse, un gesto gentile che lei avrebbe ricordato per tutta la vita. E al piccolo Julian (che aveva 5 anni) portò una canzone. Hey Jude divenne la hit più famosa dei Beatles. La suonarono in onda sulla BBC e la canzone raggiunse il suo apice in un incontro a tu per tu con il pubblico che non avveniva da anni, quando su “better better better” i fan iniziarono ad accalcarsi intorno al pianoforte. Get Back era un tentativo consapevole di ricreare il calore di quel momento nello stesso studio televisivo e con lo stesso regista, Michael Lindsay-Hogg.
Le session, però, furono difficili sin dall’inizio. Per prima cosa, gli autisti andavano a prenderli all’alba e nessuno di loro era mattiniero. Più tardi George dirà, arrabbiato: «Devo alzarmi alle 8 e imbracciare subito la chitarra». John e Yoko erano cotti dagli oppiacei. Invece che a Abbey Road, sede storica della loro incessante creatività, si trovavano bloccati al Twickenham Film Studio, circondati da sconosciuti con telecamere. Ci furono molte risate, ma anche brutte discussioni. Paul disse rabbrividendo: «Ogni mattina, quando verso le 9 prendo il mio tè con il pane tostato, mi assale il terrore».
I pezzi erano bellissimi. Il primo giorno, John portò Don’t Let Me Down e Dig a Pony, e George All Things Must Pass. Paul elaborò il pezzo di John Everybody Had a Hard Year trasformandolo nella sua I’ve Got a Feeling. Get Back era iniziato come dichiarazione politica, chiamata Commonwealth Song in difesa degli immigrati pakistani, tema caldo nel Regno Unito dopo la crociata contro l’immigrazione del politico razzista xenofobo Enoch Powell (Paul aveva già affrontato l’argomento con Ob-La-Di, Ob-La-Da, un’ode alla vita familiare degli immigrati provenienti dall’India occidentale, la canzone più esplicitamente politica del White Album). Successivamente provarono canzoni come Something, Her Majesty e Oh! Darling che sarebbero entrate a far parte del loro album successivo, Abbey Road.
Dopo pochi giorni Paul e George iniziarono a tirarsi frecciatine su una parte di chitarra. Paul disse: «Mi sembra sempre di disturbarti» a cui George rispose con scherno: «Suonerò quello che vuoi, o non suonerò affatto se non vuoi che suoni. Dimmi cosa vuoi che faccia e lo farò». Per essere un litigio tra rockstar, fu anche troppo mite. Ma le telecamere peggiorarono le cose. Il giorno dopo, George disse: «Non voglio suonare nessuno dei miei pezzi in questo show. Verrebbero uno schifo, sarebbero solo un compromesso». E aggiunse: «Forse dovremmo divorziare». Paul mormorò: «Be’, io l’ho già detto nella riunione scorsa. Ormai siamo agli sgoccioli».
L’umore si rialzò non appena le prove si spostarono alla Apple. I ragazzi coinvolsero il tastierista Billy Preston, che era una presenza calmante (come già avevano capito quando Eric Clapton prese parte al White Album, era più facile per loro moderare i toni di fronte a un ospite). La prima volta che Preston prese parte alle prove, improvvisarono su Don’t Let Me Down; John urlava imitando la voce di un predicatore: “I had a dream this afternoon!”. Dopo l’assolo di Preston, John rimase a bocca aperta. «Gli dico “Vai tu” e lui va. Grazie Bill, ci stai tirando su il morale!». George aggiunse «Sono giorni, settimane che proviamo… stavamo soffocando». John e George insistettero per far entrare Bill nella band, ma Paul si oppose: «È già abbastanza difficile in quattro».
I Beatles discussero all’infinito su come far andare in porto il progetto. Sapevano che non sarebbero stati pronti per l’esibizione che avevano pianificato per il 18 gennaio. Dove avrebbero potuto esibirsi con le nuove canzoni? In una cattedrale? Un ospedale? Su un transatlantico? John se ne uscì con un: «Mi sto abituando all’idea di suonare in un manicomio». Poi si resero conto che la risposta stava proprio sopra le loro teste. Il tetto. Il concerto sul tetto terrazzato fu la loro prima performance dal vivo dopo più di due anni, e anche l’ultima. Nessuno si immaginava che avrebbe fatto così freddo lassù, ed è per questo che vediamo John e Ringo con indosso le giacche invernali delle rispettive signore. Al minuto finale di I’ve Got a Feeling i Beatles sembrano quasi stupirsi della loro bravura. John non riesce a trattenere uno spontaneo: «Cazzo, sì!».
Come sempre, volevano qualcosa di più. Nella vita di John era entrata una nuova figura di cui lui era entusiasta. Lennon aveva infatti ceduto, impulsivamente e per iscritto, il controllo completo dei suoi affari a uno sconosciuto americano poche ore dopo averlo incontrato per la prima volta. John non vedeva l’ora di presentare agli altri il suo nuovo manager, Allen Klein.
All’indomani della morte di Brian Epstein, nella cerchia ristretta dei Beatles erano entrati quattro impertinenti newyorkesi: un’artista d’avanguardia nata a Tokyo di nome Yoko Ono, una fotografa di nome Linda Eastman, un affarista del music-biz di nome Allen Klein e un eccentrico produttore, Phil Spector. Per quanto diversi, erano tutti e quattro molto sicuri di sé. Nessuno di loro si fece intimidire dalla band. Non erano frenati dalle buone maniere britanniche. Erano grezzi e questo ai ragazzi ispirava fiducia. Tutti e quattro hanno avuto un impatto enorme sulla chimica dei Beatles. Klein è di sicuro il meno famoso dei quattro nuovi arrivati, ma è probabilmente quello che influito di più sulla loro fine.
Klein era nel business da tempo. Aveva lavorato con artisti come Sam Cooke, ma si era fatto una pessima reputazione. Aveva tenuto in pugno i Rolling Stones e poi li aveva mollati portandosi via i diritti sulle loro canzoni. Ma Mick Jagger, che forse non aveva troppo a cuore il futuro dei suoi rivali, non si curò di avvertirli. Stando a quanto disse Paul, Jagger se ne lavò le mani e si limitò a dire: «Se vi piace come lavora, lui è perfetto», lasciando che il loro destino venisse segnato. «A dire il vero, fu Mick a farci incontrare», disse John a Wenner nel 1970. «Avevo sentito voci terribili sul suo conto, ma mi sembravano contraddire il fatto che gli Stones avevano continuato a lavorare con lui senza mai ribellarsi. Mick non è certo un tipo che te le manda a dire, così ho iniziato a pensare che non fosse vero».
L’incontro tra Klein, Yoko e John avvenne al Dorchester Hotel e Lennon, che era sempre in cerca di una nuova figura paterna, se ne innamorò. Lui stesso dirà: «Se una persona mi conosce così bene senza avermi incontrato prima, significa che posso dargli completa fiducia». Persino Klein deve essere rimasto sorpreso di quanto sia stato facile adulare John e convincerlo a cedergli la proprietà del suo lavoro di una vita. Quello di Lennon è stato il minor sforzo di negoziazione da parte di un britannico dai tempi di Neville Chamberlain. Quella firma finì per segnare la sorte della band. Ma Paul fu diffidente nei confronti di Klein fin dall’inizio. «Non ho firmato con Allen Klein perché non penso che sia l’uomo per me, anche se agli altri tre piace», dichiarò a Rolling Stone. Paul voleva assumere suo suocero, Lee Eastman, cosa inaccettabile per il resto della band, che decise infatti di firmare con Klein. John si arrabbiò della sua riluttanza. «Se la tirava tantissimo», disse. Ma all’inizio degli anni ’70 i sospetti di Paul si rivelarono fondati: gli altri tre andarono in causa con Klein, che finì pure in prigione per evasione fiscale. «Alla fine, siamo riusciti a sbarazzarci di lui», dice Ringo nell’Anthology. «Ma ci è costato un occhio della testa».
Klein riuscì purtroppo a seminare zizzania tra i Beatles. Nell’estate del 1967, i quattro se ne stavano in compagnia di Maharishi, e due anni dopo si dividevano tra avvocati e commercialisti. Come ha raccontato Lennon a Rolling Stone nel 1970, «a un certo punto Paul disse: “Parla col mio avvocato, non ho più voglia di discutere di affari”, che significava più o meno: “Sto prendendo tempo e proverò a fregarti”».
Paul e Linda si sposarono nel marzo del 1969. Harrison e Pattie Boyd arrivarono al ricevimento direttamente dalla stazione di polizia, dove erano stati portati dagli stessi poliziotti che avevano arrestato John e Yoko. Come Lennon, George sostenne che erano stati gli sbirri a nascondere la droga. Rimase offeso quando li sentì insinuare di aver trovato dell’erba nel suo armadio nascosta in un calzino. «Io sono un ragazzo ordinato. Non mi piace il caos. I dischi li metto nel portadischi, le bustine di tè nel scatola del tè e l’erba nel suo contenitore».
Quando John e Yoko si sposarono, lui decise di prenderne il cognome diventando John Ono Lennon, una scelta piuttosto radicale per il 1969. Ma anche se si erano sposati, John e Paul non erano rockstar ordinarie: le loro nuove mogli erano donne adulte e indipendenti, artiste con le loro carriere, donne con matrimoni alle spalle e figli. Non erano molte le rockstar di quella generazione ad avere un’idea così profetica del rapporto uomo-donna. Stavano cercando di esplorare nuovi modelli di monogamia fuori dagli schemi patriarcali nouveau-hippie. Mick Jagger disse di Yoko e Linda: «Non vorrei avere una mia ex nella band». Quella era esattamente la mentalità che Lennon e McCartney stavano cercando di rifuggire.
Paul e John fecero insieme un singolo, The Ballad of John and Yoko, uno dei tanti momenti in cui Lennon, in preda a un delirio di onnipotenza, si paragona a Gesù. Lo registrarono come un duo, Lennon alla chitarra e Paul alla batteria, mentre George e Ringo erano fuori città. Nelle outtake pubblicate nel box di Abbey Road del 2019 si sente una loro battuta sagace. John dice: «Un po’ più veloce, Ringo». E Paul risponde: «Ok, George!». L’outro viene da The Honeymoon Song, uno sdolcinato classico che i Beatles erano soliti suonare negli anni del Cavern. È uno scherzo tra John e Paul che i due sapevano sarebbe rimasto un segreto per i loro milioni di ascoltatori, Yoko e Linda incluse. È un segno toccante di quanto fossero ancora uniti alla band e tra di loro.
Ma mentre John e Yoko erano impegnati nelle loro settimane di Bed-In for Peace durante la luna di miele ad Amsterdam, il publisher Dick James approfittò della loro assenza per colpirli alle spalle e iniziò a vendere i diritti delle loro canzoni a Sir Lew Grade senza dar loro la possibilità di fare un’offerta. Quel brutto fatto fu per loro un avvertimento: per quanto credessero fermamente negli ideali hippie, nemmeno loro erano immuni dai più avidi squali del music business.
I Beatles si ripresero da Get Back grazie a Abbey Road, il loro album più famoso, soprattutto perché è il più intimo. John e George scrissero canzoni assolutamente stile Beatles, come se sapessero che non avrebbero avuto altre occasioni di scriverne. George sapeva che, come sempre, gli sarebbero spettate solo due canzoni, ma ebbe la sua vendetta. I suoi pezzi (Here Comes the Sun e Something) furono successi pop talmente grandi che John e Paul dovettero mettersi d’impegno per migliorarsi.
Yoko si stava riprendendo da un incidente stradale, così John decise di portare un lettino d’ospedale nello studio affinché la moglie potesse essere presente per commentare e criticare, una situazione senza dubbio piuttosto insolita. Ma perché opporsi? Tutti e quattro i Beatles stavano lavorando sodo per andare d’accordo. «Senza troppo affanno», come dirà in seguito Paul. Stavano già sognando le loro carriere soliste. Give Peace a Chance, l’inno pacifista di John e Yoko registrato in una stanza d’hotel a Montreal, arrivò al secondo posto della classifica britannica. Ringo si stava tirando a lucido per la sua carriera cinematografica. Avevano capito che l’essere i Beatles non era più il loro unico modo per esprimersi artisticamente. E quindi si sentirono abbastanza tranquilli quando decisero di affrontare un’altra estate come band. La loro jam session di I Want You (She’s So Heavy) fu l’ultima volta che suonarono tutti insieme.
George creò cose bellissime con i membri del Radha Krishna Temple e produsse il loro singolo Hare Krishna Mantra. Quando gli chiesero se avrebbe raggiunto il primo posto, rispose: «Ancora più su» (il pezzo finirà al 12esimo posto nelle classifiche britanniche). John e Yoko fecero una proiezione dei loro film d’avanguardia, incluso Self-Portrait, un lunghissimo primo piano del pene di John Lennon su cui Yoko dichiarò: «La critica se ne terrà lontana».
Quando John disse agli altri «Voglio il divorzio», nessuno lo prese troppo sul serio. Non era stato il primo a usare quella parola; anche George e Paul avevano parlato di divorzio durante le riprese di Get Back. Lo implorarono di non fare dichiarazioni pubbliche al riguardo, pensando che fosse un altro dei suoi tanti capricci, come la riunione alla Apple dove si presentò strafatto e annunciò: «Sono Gesù Cristo e sono tornato». Quella volta Ringo gli rispose: «Benissimo. Riunione rinviata, andiamo a mangiarci un boccone». I Beatles tennero un’altra conferenza, registrata per i posteri, dove discutevano di come dividersi le canzoni per gli album futuri. George disse: «Forse abbiamo trovato una soluzione, ma ancora niente di serio: tre canzoni per me, tre per Paul, tre per John e due per Ringo».
Paul si ritirò nella sua tenuta in Scozia per prendersi cura della figlia appena nata e ritrovare un po’ di pace e tranquillità. Ma non ci riuscì. L’autunno del 1969 aveva in serbo un altro brutto tiro: la voce “Paul è morto”. Dopo che una radio di Detroit aveva mandato in onda il White Album al contrario, i fan di tutto il mondo iniziarono ad analizzare i loro album in cerca di indizi che Paul fosse morto segretamente nel 1966. John chiamò la stazione radiofonica di Detroit per fare una lamentela in diretta. «È la diceria più stupida che abbia mai sentito. Sembra quasi creata dallo stesso tizio che ha ingigantito il mio commento su Gesù». John stava cercando di promuovere il singolo Cold Turkey e il suo Wedding Album con Yoko, e non aveva affatto voglia di parlare di Paul. Il caro defunto la prese a ridere e disse a quelli della Apple: «Questa cosa è probabilmente la migliore pubblicità che abbiamo mai avuto, e tutto quello che devo fare è rimanere vivo». Ma in un articolo apparso su Life riguardo quelle voci, Paul dirà: «I Beatles sono giunti al capolinea». Quella frase andò in stampa, ma nessuno se ne accorse.
Se i Beatles si fossero presi una pausa, come avevano fatto dopo Revolver, forse le cose sarebbero andate diversamente. Il loro nuovo album era straordinario, le vendite di Abbey Road erano andate alla grande e avevano molti progetti da solisti. Avevano mogli e figli. Potevano tranquillamente permettersi di staccare la spina e sparire per un po’. Ma avevano anche un nuovo manager e lui voleva un nuovo album. E quindi Get Back diventò Let It Be e i Beatles non riuscirono mai più a riprendersi.
Se dovessi scegliere una persona a cui affidare una situazione esplosiva, penserei a qualcuno come Billy Preston, o al produttore George Martin, o addirittura a Ringo Starr. Insomma, uno che sappia tenere alto il morale e mantenere la calma, uno che sa cos’è il lavoro di squadra e che sa tenere a bada il proprio ego per non aggravare una situazione già precaria. Un adulto. Un professionista. Una persona diplomatica e paziente, empatica, con tatto. I Beatles scelsero Phil Spector.
Non sparò colpi di pistola in studio, né prese a pugni qualcuno. Quindi per esser Phil Spector si stava comportando fin troppo bene. Ma invitarlo a occuparsi delle registrazioni di Get Back rasenta il sabotaggio. All’inizio del 1970, l’ultima di cosa di cui i Beatles avevano bisogno era riaprire le ferite dell’inverno precedente. E l’ultima persona di cui avevano bisogno era Spector, che aveva prodotto grandi album negli anni ’60 col pugno di ferro di un dittatore. Chiamare Spector equivaleva a invitare Napoleone a invadere la tua città, a patto che se ne andasse lasciando tutto pulito.
Spector era un amico di Klein, ma anche John aveva totale fiducia in lui. Nel gennaio del 1970 avevano lavorato insieme al suo singolo Instant Karma e a John era piaciuto come Phil aveva gestito la cosa. L’aveva prodotta in un giorno solo. John se ne vantò dicendo: «L’ho scritta a colazione, registrata a pranzo e per l’ora di cena l’abbiamo pubblicata». Instant Karma portò John a Top of the Pops e fu il primo singolo di un Beatle solista a tagliare quel traguardo. Yoko appare come parte della band, seduta su uno sgabello, non a suonare o cantare, ma a fare la maglia.
George Martin e il fonico Glyn Johns avevano passato tutto il 1969 ad armeggiare con i nastri di Get Back, trasformando il materiale in vari album che la band classificò come non pubblicabili. Ma Klein aveva un estremo bisogno di lanciare qualcosa di nuovo sul mercato. Li aveva appena fatti firmare un nuovo accordo, assicurandosi di avere la propria parte di profitto. Come spiega Peter Jackson: «Klein aveva bisogno di lanciare un nuovo album dei Beatles, anche se la band si era separata. E le registrazioni di Get Back erano l’unico materiale che poteva pubblicare».
Nel marzo di quell’anno, il produttore americano arrivò ad Abbey Road e, usando sovraincisioni a bizzeffe, iniziò a trasformare i nastri di Get Back in quello che sarebbe diventato Let It Be. Quando si trovò tra le mani The Long and Winding Road, era solo una demo di Paul al piano accompagnato da John che giocherellava al basso. Spector decise di riempirla con una smielata e dozzinale parte d’orchestra, ma mantenne il basso maldestro di Lennon. È ancora lì, inciso sull’album finale. Al minuto due, nel mezzo della frase “You left me standing here” si sente McCartney che cerca (senza riuscirci) di non ridere della goffa esibizione dell’amico. Paul non fu informato di cosa Spector stesse combinando con la sua canzone. Si trovava a qualche isolato di distanza, nella sua casa di Cavendish Avenue a trafficare con il suo nuovo studio di registrazione casalingo e registrare quattro canzoncine insieme a Linda. I pezzi erano perlopiù acustici e abbozzati, con una ballata classica registrata ad Abbey Road, Maybe I’m Amazed. Paul decise di farli uscire subito in un album da solista, a dimostrazione del fatto che non gli interessava quanto tempo avrebbe tardato l’uscita di Get Back.
Paul era molto soddisfatto dell’energia fresca e spontanea delle sue registrazioni da solista, dello spirito disinvolto di Every Night, Junk e That Would Be Something (nel settembre 2020 McCartney pubblicherà un’edizione per il 50esimo anniversario, rimasterizzata in versione half speed). Cercò di accelerare i tempi in modo che McCartney uscisse nella stessa settimana di Let It Be. Il conflitto era palese, soprattutto visto che anche Ringo stava per lanciare il suo album Sentimental Journey, dove canticchiava classici del passato con cui era cresciuto, come Stardust. «L’ho fatto per mia mamma», spiegherà in seguito.
La situazione richiedeva una delicata trattativa. Inutile dire che le cose andarono diversamente. Il 31 marzo, John e George spedirono Ringo a casa di Paul con una lettera piuttosto indignata indirizzata “Da noi per te”, nella quale pretendevano che ritirasse il suo album. La lettera si chiudeva così: “Ci dispiace che sia andata così, non è niente di personale”. Alla fine, George aggiunse “Hare Krishna”. Paul era furioso, e Ringo (che è sempre stato il paciere) tornò dagli altri e cercò di convincerli a lasciar perdere.
Il giorno dopo, Ringo era ad Abbey Road a sovraincidere le parti di batteria su Across the Universe, I Me Mine e The Long and Winding Road. Gli scatti d’ira di Spector erano arrivati a un punto tale che persino Ringo capì che non poteva andare avanti così e gli disse che doveva calmarsi. Ma quello era niente in confronto alla rabbia di Paul quando ascoltò l’album. George Martin disse: «Io ero furioso, ma Paul era proprio fuori di sé. Né io. né lui sapevamo cosa stava combinando fino a che non finì. Fu un colpo alle spalle vero e proprio perché avvenne quando John era sotto Allen Klein».
Klein e la Apple pubblicizzarono Let It Be definendolo “un album che segna una nuova fase dei Beatles”. Man mano che la data di lancio di McCartney si avvicinava, Paul preparò un comunicato stampa con domande e risposte dove annunciava una “pausa con i Beatles”. Perché? “Divergenze personali, economiche, musicali, ma soprattutto perché sto meglio con la mia famiglia. Temporanea o definitiva? Non lo so”. Aveva in progetto di fare altra musica con i Beatles? “No”, fu la risposta.
Prima dell’uscita, programmata per aprile, Paul parlò in anteprima a Rolling Stone di quel comunicato stampa. «Insieme all’album uscirà un comunicato stampa informativo», disse a Jann Wenner. «Ma di questo non ti dirò niente finché non è pronto perché non sarei in grado di spiegartelo. È molto meglio che rimanga una sorpresa».
Agli altri Beatles quella sorpresa non sembrò affatto carina. Non piacque a nessuno. Paul dichiarò di essere scioccato quando vide che l’intervista si trovava in prima pagina sui giornali di tutto il mondo. Prima di allora aveva già fatto dichiarazioni del genere, tutti e quattro le avevano fatte, ma stavolta nessuno fece niente per smentirle. Lennon disse ai giornalisti: «Sono contento che sia stato Paul a dirlo. È stato bello sapere che non era morto. Comunque, potete scrivere che scherzando ho detto così: “Non è stato lui a lasciare, l’ho licenziato io”». George dette la risposta più arguta: «Pare che ci serva un nuovo bassista».
Ma quello non era ancora l’epilogo. Nessuno di loro riusciva a immaginare una vita senza Beatles, né pensava che le scappatelle soliste fossero qualcosa di diverso da una provocazione nei confronti della band. Non riuscivano ad accettare che quella fosse la fine. «Non ho idea se i Beatles lavoreranno di nuovo insieme», disse John. «Potrebbe trattarsi di una morte come di una rinascita. Il tempo ci darà una risposta. Probabilmente sarà una rinascita».
Da lì in poi, la comunicazione tra i quattro avvenne principalmente tramite la stampa. Ma anche se si attaccavano a vicenda in pubblico, non parlavano della band al passato. Qualche giorno dopo l’annuncio di Paul, John disse a Wenner: «I Beatles non avevano un futuro già da due anni almeno, secondo me». Ma d’altra parte continuava a parlare dei Beatles come di una realtà ancora esistente. «Visto che non può fare tutte le cose a modo suo, sta cercando di creare il caos», disse ancora John. Dal suo punto di vista, Paul non aveva il permesso di abbandonare: dopo tutto era la sua band. «Ha sempre fatto così, tiene il broncio, non si presenta agli appuntamenti o agli eventi. È sempre stato così. Adesso la cosa sembra più grande perché anche noi siamo più grandi. Ma è la solita vecchia storia».
Anche George, molto spesso il membro più insoddisfatto del gruppo, continuava a parlare del loro futuro. All’inizio di maggio rilasciò un’intervista per una radio di New York. Quando gli chiesero delle tensioni tra John e Paul, rispose mantenendo la calma. «Diciamo che ci sono stati degli screzi e quella che si potrebbe chiamare un po’ di cattiveria», disse. «Stanno battibeccando, capisci? Come fanno i bambini». Ma quando iniziarono a parlare di affari, George iniziò a difendere il gruppo dicendo che la resistenza di Paul a Klein era «un problema personale che dovrà superare». Perché? «La verità è che è in minoranza, e noi siamo un collettivo», spiegò George. «Eravamo tre contro uno, e se non gli va bene è davvero un peccato, perché stiamo cercando di fare ciò che è meglio per i Beatles come gruppo, o per la Apple come azienda. Non stiamo cercando di fare gli interessi di Paul e dei suoi parenti». Parlando da uomo d’affari, George vedeva un futuro roseo. «Non è mai andata meglio, dal mio punto di vista», aggiunse, senza troppa convinzione. «La Apple Records e la Apple Films stanno andando alla grande».
George insistette sul fatto che i Beatles fossero ancora un gruppo e che avevano solo bisogno di fare qualche lavoro da solisti. «Ci farà solo del bene lavorare ognuno ai propri album. Così non dobbiamo scendere a compromessi. Paul vuole fare le sue canzoni a modo suo. Non vuole farle a modo mio. E io non voglio fare le mie canzoni a modo loro. Sono sicuro che una volta pubblicati uno o anche due album solisti a testa, questa sete di novità si sarà esaurita».
Con quelle parole, tracciò quello che a grandi linee, ma anche realisticamente, poteva essere il futuro dei Beatles. Per lui si trattava dell’ennesima discussione che era possibile risolvere, niente di nuovo rispetto ai dieci anni precedenti. «Dobbiamo tutti sacrificare qualcosa per poter ottenere una vittoria più grande. E quando lavoriamo insieme, da un punto di vista musicale, economico e anche spirituale, la vittoria è davvero enorme. I Beatles ormai hanno creato una scena musicale. Sacrificare tre mesi di questo anno e fare almeno uno o due album è il minimo che possiamo fare. Se i Beatles non registrassero più insieme sarebbe una cosa davvero egoista».
Il film Let It Be fu proiettato per prima volta a Londra il 20 maggio 1970. Nessuno dei Beatles andò a vederlo, né avvertì per dire che non si sarebbe presentato alla prima. Una folla enorme si accalcò a Piccadilly Circus per vederli, ma invece dei Favolosi Quattro si trovarono di fronte uno strano mix di divi da red carpet: Cynthia Lennon e Jane Asher, il regista di A Hard Day’s Night Richard Lester, qualche Hare Krishna e qualche membro dei Rolling Stones. Lo staff della Apple si presentò per dovere, ma non aveva la minima idea di dove fossero i loro capi. Si guardavano intorno, cercando invano con lo sguardo la band e sentendosi in colpa per essere lì. «Fu davvero triste, orribile», scrisse in seguito l’addetto stampa Derek Taylor. «Nei giorni dopo la prima, temevo che uno di loro mi venisse a chiedere se c’ero andato».
Nessuno gli fece quella domanda. I quattro Beatles non si incontrarono mai per guardare il film o ascoltare l’album. I quattro Beatles non si incontrarono mai più faccia a faccia.
Get Back uscirà nelle sale nell’estate del 2021, ma anche stavolta non ci sarà un lieto fine. Non sapremo mai se la frattura poteva essere ricomposta o se fosse inevitabile. «Let It Be non è che un’istantanea di quel periodo», dice Jackson. «Le riprese per il film e le registrazioni dell’album furono presentate al pubblico nel maggio 1970. Phil Spector ci aveva messo le mani, nel frattempo era arrivato Allen Klein e i Beatles si erano sciolti. È ancora la musica del gennaio 1969, ma vista con un filtro diverso».
Il nuovo film Get Back offrirà una prospettiva differente della stessa esperienza. «Quei ragazzi, quando sono insieme, non sono i Beatles», racconta Jackson. «Non sono gli idoli che conosciamo. Quando sono insieme, sono quattro ragazzi che si conoscono da quando avevano 14 o 15 anni. Parlano di Amburgo, del Cavern. Dell’effetto eco che avevano al Top Ten Club. Non parlano come se fossero intervistati, sono solo quattro ragazzi che hanno condiviso quelle esperienze».
A proposito del momento in cui Paul dichiara che sarebbe stata una follia far sciogliere il gruppo perché Yoko se ne sta seduta su un amplificatore, quando cito quella frase Jackson sa esattamente a cosa mi riferisco. A quanto pare, quella conversazione – il cui audio circola illegalmente da molto tempo – fu ripresa dalle telecamere. «È tutto registrato», risponde Jackson. «E ti dirò di più, quel video è potente. L’audio della conversazione lo conoscevo già. Ma una cosa è ascoltare il dialogo, e un’altra è vedere l’emozione impressa sui loro visi mentre parlano. È davvero molto forte».
In definitiva, il più grande mistero dei Beatles, che né Get Back né qualsiasi altro film potrà risolvere, è questo: a cinquant’anni dalla fine, cos’è che fa immedesimare gente di tutto il mondo, proveniente da culture diverse e appartenenti a differenti generazioni, in questa storia? Nemmeno Jackson, che ha dedicato tutta la carriera a miti culturali di risonanza gigantesca, sa darsi una risposta. «Sono le icone che conosciamo perché la loro musica era straordinariamente bella. Io non sono un esperto, non sono uno del campo. Ma mi viene da dire che le loro canzoni trasudano una gioia che non verrà smorzata dal tempo. Non potrà mai essere soffocata, nemmeno fra qualche decennio. È una gioia talmente contagiosa che è ormai entrata a far parte della psiche umana».