Sto pensando di finirla qui, scritto e diretto da Charlie Kaufman e online su Netflix da venerdì, è almeno tre film in uno. È la storia di una coppia in crisi; è il delirio di onnipotenza di una personalità fallita, ossessionata dal teatro musicale e dalle pubblicità di gelati; è l’autocrocifissione e l’autoresurrezione in pubblico di Charlie Kaufman. È un lavoro certamente complesso, destinato a soglie dell’attenzione forti, almeno alla prima visione; ma che serba non poche ricompense e nuove scorrevolezze per chi, giunto al finale, dopo due ore abbondanti di tormenti e allucinazioni, finti film-nel-film attribuiti con vera perfidia a Robert Zemeckis e balletti diversamente catartici, riuscisse a fare l’esperienza del suo necessario sequel, che altro non è che una seconda visione a stretto giro con occhi e occhiaie nuovi.
I fatti all’inizio sembrano questi. Un giovane uomo e una giovane donna, che ricordano di stare insieme da sei settimane, viaggiano in auto verso la fattoria dell’Oklahoma in cui lui è cresciuto, e dove sostiene li attendano i suoi genitori. Fuori dai finestrini una bufera di neve. Dentro l’abitacolo una stazione radio che trasmette numeri di un vecchio musical. Lei pare già pentitissima, lui è ancora ottimista. Questo viaggio in macchina è presentato come la metaforizzazione dell’horror soft che è qualunque relazione sentimentale, per quanto ben assortita, quando non va da nessuna parte, anche se è apparentemente in movimento.
I due sono interpretati da Jesse Plemons (che qui recita anche la parte della reincarnazione millennial di Philip Seymour Hoffman) e Jessie Buckley (straordinaria in ciascuna delle dissociazioni della personalità che le sono affidate). Jake è un nerd da trivia night dall’insospettabile sensibilità culturale, che passa da Mussolini a Foster Wallace con la stessa facilità con cui aziona il cambio manuale, e che tende a correggere la sua ragazza anche mentre pensa. Sì, primo allarme cognitivo: alla ragazza (che inizialmente risponde al nome di Lucy, ma sarà ribattezzata tre volte: Lucia, Louise, Yvonne) è affidato uno straordinario spartito per voce fuori campo non solista, ma da subito sinistramente in armonia – si fa per dire – con le battutacce di lui, con le tirate pedanti che solo la scrittura sempre godibilissima di Kaufman riesce a rendere quasi la versione postmoderna dell’episodio di Furio in Bianco, rosso e Verdone. Non c’è bisogno di essere nerd kaufmaniani per capire che il loro dialogo è un flusso di coscienza dell’autore-regista. Ma c’è dell’altro.
A fare da intermezzo tra le scene con la coppia c’è un bidello anziano e derelitto (Guy Boyd) che, con passo incerto, ignorato e deriso dagli studenti, lava e asciuga i pavimenti di un grande plesso scolastico. A volte assiste a recite di musical spazzando la platea con mestizia; per poi figurarsi, una volta tornato nei corridoi vuoti e disumani, bis immaginari di danze in suo onore, che si interrompono quando le punte della ballerina sbattono su un armadietto con tonfi degni di uno scopettone. Quando finalmente Jake e Lucy giungono alla fattoria, la puzza di marcio diventa più insistente, e non solo perché li accolgono diversi agnelli morti congelati. I genitori di lui (gli immensi Toni Collette e David Thewlis), come il resto dell’abitazione, sono chiaramente fatti della stessa sostanza degli incubi.
Le incongruenze cominciano ad appassionarci tipo una sessione di Aguzzate la vista della Settimana enigmistica. Quando, poco prima, Lucy aveva provato a usare lo specchietto di cortesia dell’auto, le si era mostrato spezzato in più parti. Tra il salotto e la cucina i suoi vestiti cambiano colore e sembrano intonarsi allo stato d’animo giusto al momento giusto, come diverse punte inchiostrate di uno stesso matitone Carioca. Allo stesso modo i mobili, le fotografie alle pareti, le età dei genitori di Jake, tutto nella fattoria muta di scena in scena, nel corso del fidanzamento a casa più sottilmente e psicologicamente spaventoso della storia del cinema; di certo più di qualunque casa degli specchi, proprio perché lo straniamento è nascosto in dettagli che prima notano solo i nerd kaufmaniani e poi, a poco a poco, si fanno spazio anche nella considerazione dei più distratti.
Non appena Jake lo menziona, per giustificare i graffi sulla porta della cantina, appare il cane di casa, Jimmy. Più tardi sembrerà incantarsi per qualche secondo, mentre si scuote di dosso la neve. Anche quando il fluire dell’eloquio di Lucy si interrompe in un balbettio prolungato, il film sembra patire dei glitch, come un software fallato. La visita alla vecchia stanzetta di Jake è particolarmente rivelatrice. Una piccola libreria si dispiega in due inquadrature e, sfruttando il mezzo Netflix alla stregua di un videogioco punta e clicca, leggiamo i dorsi di libri e dvd (tutti citati esplicitamente da Jake o da Lucy, alcuni prima, altri dopo la scoperta). Negli scaffali ci sono anche un’urna con le ceneri del cane Jimmy, un numero di Penthouse, il libro di Eva H.D. (Rotten Perfect Mouth) che contiene i versi che Lucy, ancora in viaggio, aveva recitato a memoria sostenendo che fossero la sua ultima creazione di poetessa (Bone Dog). È come se qualcuno avesse dapprima scritto una sceneggiatura di Sto pensando di finirla qui, poi ne avesse per sbaglio cancellato il file e infine l’avesse riscritta a memoria, ma solo dopo aver sballato un paio di cicli circadiani e bevuto una bottiglia di grappa a stomaco vuoto. Lucy è quello che i genitori di Jake vogliono sia; anzi, è quello che lui pensa i genitori vorrebbero per lui: emancipata, dotta ma anche accomodante, una che sparecchia e sa spiegare l’estetica del paesaggismo romantico al volo, come una ricetta della torta al cioccolato. Una donna perfetta fatte di tante donne diverse, tutte di Jake. Un harem con un solo volto e diversissimi talenti.
Nel corso della cena Lucy dichiarerà a scaglioni di fare tutti i mestieri per cui Jake aveva mostrato qualche interesse nella sua biblioteca d’infanzia. È fisica, geriatra, pittrice. Menziona professioni come la mente di un bambino sciorina destini, pensando a quello che vorrebbe fare da grande, e spesso non farà. Nei gesti e nelle espressioni Lucy sembra essere sempre abbastanza annoiata da quello che Jake dice di sé o di lei da rendergli una vittoria quel sopportarlo affettuosamente; e sempre abbastanza interessata a quello che ha da dire sull’arte o la letteratura perché il ciclo possa ripetersi ad libitum. Una fotografia in salotto mostra un bambino che dovrebbe essere Jake, ma ricorda preoccupantemente Lucy. (Il fatto è che quando sei in una relazione come quella di Jake e Lucy non distingui l’io dal tu. L’unico modo in cui l’altro esiste per noi è quando ci proiettiamo in lui. L’altro è un ritratto che dipingerà quel pittore espressionista, instancabile e sempre ispirato, che sono le proiezioni della nostra mente sugli altri, a volte sottili come un pennello a punta fine, a volte splatter come un Pollock). Che cosa diamine stiamo guardando? Che cosa dovremmo vedere? Forse questa coppia non è in crisi come una qualunque altra coppia. Non è formata da un uomo pedante e da una donna fin troppo paziente, ma da un uomo soggetto di un processo creativo e dai suoi limiti, i confini della sua creatività, sempre frustrati dalla realtà, personificati in maniera dichiaratamente filopatriarcale da una donna.
Di chi sia la regia un po’ deviata che dirige tutto quello che accade sulla scena non diremo, per non sciupare oltre (la storia è ancora piuttosto lunga). Ma basti pensare che, chiunque sia, la sua mela non cadrebbe comunque molto lontano dall’albero che Kaufman sta scuotendo come un forsennato fin dalle immagini dei titoli di testa, in cui presentava i luoghi del misfatto creativo (soffermandosi sulla macchina per cucire di casa, ovvero la macchina per scrivere dietro l’ordito di tutte quelle tende, di tutti quei copricuscini). Charlie Kaufman ha ideato questo film, trasfigurando il libro omonimo di Iain Reid, per venire incontro alle sue stesse facoltà mentali. Qui non vuole solo rappresentare la storia di un uomo debole e frustrato dall’eccesso di cultura e di ambizione, rispetto alle dimensioni del suo destino; ma porla come reductio ad absurdum della frustrazione di qualunque scrittore di storie. È un calcio sugli stinchi ai processi creativi e, in particolare, a quei processi creativi che chiamiamo memoria, che somigliano tanto ai film per come sono scritti e per come sono girati dalla nostra mente, se non fosse che spesso sono scritti da cani e montati ancora peggio.
Questo film è un lungo autoritratto del Kaufman narratore per immagini in cui, una volta di più, l’autore mette a nudo il meccanismo fondamentale dell’ispirazione artistica, nonché il suo peccato originale; il suo più grande fascino e il suo più grande limite: pretendere che il mondo possa essere fatto a tua immagine e somiglianza anche se sei lungi dall’essere perfetto, figuriamoci divino. La realtà, per Charlie, è sempre una tempesta di neve fuori dal salotto di casa sua. È questa la vera magia della creazione sulla terra e nelle teste, l’unica di cui conosciamo i segreti, anche col favore di questo ennesimo ma sempre appassionante Vangelo secondo Charlie, ovviamente apocrifo, sebbene ci sia solo un evangelista. In cui non è Dio che si umanizza per salvare l’uomo, ma l’uomo che gioca a santificarsi per mostrare la grandezza della sua piccolezza.
Se dobbiamo dirla tutta, una cosa che forse non perdoniamo a Kaufman è non aver incluso una piccola dose di quella sexual tension che lega, fin dalle prime pagine del libro di Reid, Lucy a Jake. Questo è l’elemento in fondo più desiderabile da parte di Jake: che lei lo desiderasse anche fisicamente, nonostante le sue bavette (nel film ve n’è una rappresentazione iperrealistica, che è un po’ monca senza il contraltare del desiderio descritto così bene nel libro, comunque irrefrenabile); nonostante la sua saccenza che vira così presto a una vera e propria onniscienza narratologica. Quell’attrazione è qui data per scontata ed è un peccato, perché sarebbe potuta essere una linea tragicomica interessante, anche considerata la fisicità di (quello che fa) Jake.
Ma il fascino di questo film è in tanti dettagli squisiti. Come la visita a Tulsey Town, la filiale della catena di gelatai fittizia (di cui Kaufman immagina anche lo spot d’epoca, con tanto di jingle che Jake canta alla James Corden in Carpool Karaoke), che è un Edward Hopper in una palla di neve. Nel mezzo della bufera, un’isola apparentemente felice aperta a notte fonda, pronta a servirti un gelato ancora più freddo della neve. E come, soprattutto, il finale e il sottofinale musicali: lo sfogo per tutto il donchisciottismo latente — con Broadway al posto del poema epico cavalleresco — che anima intimamente Sto pensando di finirla qui. Quella danza macabra delle aspirazioni e della realtà è la migliore aggiunta del film al libro. Il mondo di Charlie Kaufman sarà anche un cruciverba senza schema e senza definizioni, la sua immaginazione sarà anche una forma di realtà virtuale piena di bug, ma è grazie a geni come lui che possiamo affermare che la mente umana è bella, ma non ci vivremmo.