Mica sapevo che cosa aspettarmi due anni fa, quando sono andato a vedere Nick Mason rifare il repertorio dei primi Pink Floyd. Sono canzoni bizzarre, eccentriche, anche sgrammaticate, in molti casi legate all’estro fuori dagli schemi di Syd Barrett. Nel gruppo del batterista, chiamato Nick Mason’s Saucerful of Secrets, di follia ce n’era ben poca e di sentire una tribute band di lusso alle prese con versioni squadrate di canzoni sghembe non avevo voglia. Mi chiedevo: avrei visto una performance nostalgica e patetica? E poi, che cosa c’entrava il chitarrista degli Spandau Ballet con queste storie di viaggi interstellari?
È andata meglio del previsto. Con partner solidi e tanto mestiere, Mason è riuscito a strappare il repertorio dei primi album e singoli del gruppo al mito sproporzionato dei Pink Floyd, riportandolo in teatri e locali più piccoli, a volte gli stessi in cui s’esibiva la band all’epoca. È il caso della Roundhouse di Londra, la «risposta proletaria alla Royal Albert Hall» dove, si legge nella guida alla geografia dei Pink Floyd chiamata Floydspotting, gli inglesi si esibirono più volte fra il 1966 e il 1967 davanti a bella gente come Paul McCartney, Marianne Faithfull vestita da suora sexy e persino Monica Vitti – wish I were there, altro che wish you were here.
Proprio lì, nel maggio 2019, Mason ha voluto registrare il disco dal vivo (e DVD) del suo gruppo di rocker in età da pensione, un ventina di canzoni tratte per lo più da The Piper at the Gates of Dawn e A Saucerful of Secrets, spingendosi fino al 1972, il repertorio pre Dark Side of the Moon. Si sa come andò cinquanta e passa anni fa: partendo dalle strutture del blues, i Pink Floyd cominciarono ad espandere le parti strumentali. Mica per un sofisticato disegno artistico, ma per la necessità d’allungare i concerti. Lo fecero prima in modo approssimativo, procedendo per tentativi a volte maldestri, poi sviluppando un linguaggio tutto loro. L’ha detto Mason: «Non sapevamo che cosa stavamo facendo». Finirono per esplorare l’ignoto.
L’ignoto è diventato un classico, e poi revival. Accompagnato dai chitarristi Gary Kemp (quello degli Spandau) e Lee Harris, dal tastierista Dom Beken e dal bassista Guy Pratt, che ha suonato coi Pink Floyd e con Gilmour, Mason ha il merito di recuperare canzoni ignorate del tutto, o quasi, da Roger Waters e David Gilmour nei loro megashow e soprattutto d’interpretarle con semplicità e a volte con leggerezza. Lo fa senza alcuna ansia filologica: niente suoni vintage, nessuna ricerca spasmodica dell’effetto giusto. Funziona soprattutto nei pezzi in cui la band si lancia in lunghe parti strumentali in cui vengono fuori coesione, talento e mestiere. Lo so, le voci originali erano un’altra cosa. La vena classic rock che ogni tanto emerge normalizza la musica e in questa versione un po’ più “quadrata” si perdono le magnifiche eccentricità degli originali. E purtroppo dal disco dal vivo non emergono l’ironia e il divertimento con le quali Mason e i suoi interpretavano i pezzi.
Nonostante i limiti, Live at the Roundhouse rappresenta una piccola rivincita per Nick Mason, il musicista meno dotato e meno amato dei cinque Floyd. Ed è anche un modo per ricordarci che i sogni e gli incubi ad alta fedeltà che la band ha messo in musica a partire dal 1973 saranno fenomenali, che lo stile di David Gilmour sarà impeccabile, che le messinscene di Roger Waters saranno strabilianti, ma che i Pink Floyd sono stati anche questa cosa qui, una piccola band a cui tiravano le monetine quando eseguiva musiche bislacche e sballate. Che dietro al mito c’erano musicisti strambi e fallibili. Che ci si può anche divertire per una volta senza luci strabilianti, schermi ad alta definizione e maiali volanti.