Con Roma che riprende a desertificarsi, in uno dei giorni peggiori — finora — della seconda ondata di Covid, potrebbe sembrare fantasia, ma è realtà che nel primo pomeriggio di ieri un cantautore trap, alto come un cestista ma disinvolto come un fiumarolo navigato, ci stia accogliendo a bordo di un barcone attraccato all’altezza del Lungotevere in Augusta. Tra poco il natante muoverà con una trentina di fan verso Castel Sant’Angelo, mentre le casse suoneranno i 17 brani del secondo album di Carl Brave, intitolato Coraggio, in omaggio al vero cognome dell’artista e alla sua sopraggiunta maturità.
Ci troviamo giusto una ventina di metri al di sotto dell’Ara Pacis, dove Carl clacsona — “per educazione” — la sua dolceamara antagonista in Che poi (tra i singoli già usciti di Coraggio), probabilmente non solo perché stupito dal fortuito abbinamento del bianco dei pantaloni di lei con l’involucro esterno del museo delle Res Gestae.
Brave, dal canto suo, oggi indossa uno splendido esemplare delle camicie fantasia che — cucite da un sarto indiano che avrebbe uno stallo al mercato Esquilino — costituiscono il primo dei suoi trademark. Colpisce che non porti invece gli occhiali scuri e tondi, che sono il suo secondo tratto distintivo, e risponde così alla nostra intervista con occhi e animo liberi da qualsivoglia filtro fumé e vincolo alla terraferma.
Uno dei tuoi lati più affascinanti è che, attraverso gli album e il tempo, il pubblico di cui hai catturato l’attenzione sta crescendo insieme a te. È un po’ come la successione dei volumi della Rowling per un lettore della prima ora, coetaneo di Harry Potter. La tua prima fase è stata quella della musa fattanza: il vitalismo di Pellaria. La seconda quella del romanticismo alla Posso, dove chiedevi il permesso per le cose anche se non ce n’era bisogno. E la terza qual è? È quella che stai vivendo ora?
Assolutamente sì. La mia terza fase sono i 30 anni. Quello stacco non ancora nettissimo tra il famo caciara e il mettiamo la testa a posto e cerchiamoci un futuro, una strada. Il nuovo disco strizza l’occhio a tutto questo, è camaleontico. E lo è anche in ottica di sound: c’è la roba classica, come Parli parli, e c’è il technone, che rappresenta ancora la voglia di andare a ballare. Ma con molto più distacco rispetto al passato, perché anch’io sono cambiato. Prima, quando andavo a fare un concerto, non c’era volta che non mi facessi una boccia di vodka. Arrivavo a Pellaria che avevo finito questa boccia di Belvedere ed ero veramente pellaria a livelli allucinanti.
E adesso?
Adesso sono molto più lucido. Tre o quattro spritz e la vivo diversamente.
Questa tua capacità di accettare il cambiamento costituisce una grossa differenza tra te e tanti tuoi colleghi, di cui non faremo il nome, che continuano a ripetersi in quello che erano al momento del primo successo.
Quella è la cosa più semplice. Anche perché i primi fan, i più accaniti, spesso chiedono proprio quello. Non accettano facilmente il cambiamento. Forse è difficile accettarlo in sé stessi e, allo stesso modo, è difficile accettarlo in chi ascoltiamo.
Il passaggio da Bomba Dischi a Universal è stato significativo anche per questo?
A livello produttivo è rimasto tutto uguale. È fatto ancora tutto con la mia testa: resto il producer delle mie cose. Con Universal ho fatto uno step in più: pormi l’obiettivo di arrivare a un pubblico più vasto.
E più adulto?
Sì, e di questo non sono contento, di più.
Ci fa sorridere quando, piuttosto spesso nei pezzi di Coraggio, censuri le parolacce. Figura di m., non fa un ca. Perché questa scelta?
Mi dà molto fastidio quando si abusano le parolacce, sia nella musica che nel cinema, perché è un vincere facile. Il mortacci tua genera sempre una risata troppo semplice. Invece, censurandole in maniera carina, se ne capisce comunque il senso. Non è la bestemmia sul palco che cambia la sostanza. Nel rap spesso gli artisti lanciano dei porco d. e tutti a… (produce urla estasiate). Io ho sempre cercato di stare lontano da questo.
Anche in questo lavoro continui la tua linea di featuring profondi, che costituiscono dei duetti o dei terzetti, come nel caso di Spigoli coi fratelli Mattei, in cui le voci e le persone si fondono. Con Elodie in Parli parli c’è un uso condiviso di un romanaccio dolcissimo…
Solo Elodie avrebbe potuto far esplodere così quella roba. Ha un’eleganza e un carattere unico. Riesce a essere sia una voce classicona alla Mina che una personalità modernissima. E fa davvero la differenza.
Sei una delle poche voci pubbliche che riescano a riconciliarci con Roma. Hai trattato così bene questa città, nel tuo nuovo album, che proprio oggi che devi uscire in barcone ti ha ripagato con una giornata di sole notevolissima.
Ho avuto davvero una botta di fortuna. Ha piovuto ieri e dovrebbe piovere domani. Oggi invece a Roma è di nuovo estate.
Ci ha sollevato ascoltare questo album perché contiene un amore di fondo per Roma che opera una coraggioterapia su chi non riesce più ad amarla come un tempo. Questo album è anche uno stradario, una guida cantata alla tua città, tracciato da un autore equidistante e affascinato da tutti i quartieri come può esserlo solo uno di viale Marconi che abita a Trastevere.
Verissimo.
Non sei diplomatico o paraculo, sei sinceramente interessato alla bellezza dei quartieri popolari come alle idiosincrasie dei centri storici, perché le vivi sulla tua pelle. In una città che non sembra avere più veri ambasciatori, per mancanza di prove o, appunto, di coraggio, sei pronto a essere il cantore della Roma degli anni ’20?
(Ride) Non sarebbe una nomina cercata o voluta. Mi è venuto così. Io parlo di quello che vivo. Certo, alcune robe sono un po’ romanzate, perché sono successe a un amico oppure le ho solo viste. Ma di norma parlo del mio quotidiano. Non penso tanto alle tematiche, ma alla mia realtà. Che è un po’ un caos calmo, se vogliamo…
(Sulle scalette che scendono dal Lungotevere all’imbarcadero della Brave Boat coppie di giovanissimi congiunti amoreggiano tra le erbacce ormai fiorite e alte come bambini in età scolare e, in qualche caso, pure ripetenti. Fra una paccata e l’altra sembrano dirsi con lo sguardo: il cielo azzurro sopra di me, i rifiuti sotto di me, come se fosse tutto parte di una scenografia: pomiciate e monnezza, carezze e nutrie. Se ogni tanto litigassero a morte, per poi riparare tra i baci, avremmo pensato che lo staff dell’anteprima li avesse scritturati per un’operazione di guerrilla marketing. Sono perfettamente intonati con almeno due dei temi centrali della poetica braveiana: i rapporti sentimentali altalenanti e l’accettazione di Roma come capitale mondiale dell’accettazione).
In questo caos si sono però delineati e confermati anche da quest’album i tuoi motivi ricorrenti. Primo tra tutti l’amore tira e molla. O teoria e tecnica dell’ansia da social applicata alle relazioni (come perfettamente esemplificato nel featuring con Gué Pequeno, Fake Dm). O la parodia più affettuosa e sensata del tipo umano pariolino che si sia sentita da molti anni a questa parte. Anche se non lo diresti mai, guardandoti, quando ti metti all’opera sembri preciso come un pittore fiammingo, che dipinge decine di varianti della stessa veduta, scoprendo ogni volta qualcosa di nuovo.
In effetti ho un metodo preciso, che mi sono portato dietro dai tempi in cui giocavo a basket. È un allenamento continuo, un training costante.
E della tua squadra di musicisti sei il Michael Jordan, cioè il fuoriclasse che rompe molto le scatole?
No, zero. Sono lo Steve Nash. O, per i più vecchi, lo Stockton. Capito? Per me, nel mio mondo, tutti devono stare bene. Io pretendo, ma col sorriso, come un playmaker, appunto. E da una situazione del genere, così positiva, dove tutti sono felici, non può che uscire fuori roba positiva.
Qual è la storia del fanciullo che domina la copertina di questo album?
Innanzitutto lui è mio nonno. È una statua vera, che ho avuto in sala da pranzo per anni, di un nonno che non ho mai conosciuto, il padre di mio padre, che si chiamava come me. Era un generale della Marina. Presentare questo album in mezzo al Tevere spacca particolarmente, è un omaggio nell’omaggio. La copertina è “sporcata” da una roba fatta da un artista romano, Gabriele Silli. E infine Valerio Bulla, unendo tutto, ha creato la magia. Bulla fa copertine per un sacco di gente ed è anche un musicista. Ha un gruppo ironico che fa volare, che si chiama Le Mazze: ricantano le canzoni degli anni ’90 aggiungendo del loro, facendo morire dal ridere.
In questo come nell’altro album sembra esserci un filo conduttore fatto di diverse storie d’amore con diverse persone, tutte abbastanza bellicose, che potrebbero avere in comune l’essere simbolo della stessa cosa. In base a quello che immagini sia quel qualcosa, ascoltandolo, l’album cambia. Una volta sembra una sola donna sfaccettata in altre, un’altra volta la musica, un’altra la città di Roma. Potresti anche essere tu stesso.
Il fatto è che è un po’ anche la vita in generale. Un giorno ti va bene, un giorno stai “arrivato”. Io ero un giocatore di basket. Ero anche forte, essendo stato in Nazionale. Ho imparato come nella vita, in un secondo, si possa perdere tutto quello che hai. E riuscire a riprenderlo, però, in un’altra versione. In questo c’è il senso di quella roba, che dici, degli amori. L’imprevedibilità della vita.
Il mistero Marisol. Il tuo omaggio a Carlo Verdone dell’ultima traccia. La personificazione di tutto quello che non capiremo mai in un partner, o potenziale tale. Davanti al mistero Marisol anche i più sicuri di noi sono tutti a bocca aperta come Leo in Un sacco bello.
Credo di essere riuscito a convincere Verdone a fare il video di Che poi mandandogli un abbozzo proprio di Marisol. Sono un suo grandissimo fan. Siamo praticamente vicini di casa. È una dinamica forte quella di lui che non esce quasi mai, soprattutto adesso, io che invece sono sempre fuori. E magari, anche con i pezzi, gli racconto quello che succede.