Dai tributi a John Lennon ci aspettavamo qualcosa in più | Rolling Stone Italia
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Dai tributi a John Lennon ci aspettavamo qualcosa in più


L’intensità di Patti Smith, il racconto commosso di Whoopi Goldberg, la non-apparizione di Peter Gabriel: ecco tutto quello che è successo ai due eventi in streaming per gli 80 anni del Beatle

Dai tributi a John Lennon ci aspettavamo qualcosa in più

Patti Smith durante il John Lennon Tribute Charity Concert

Ai tributi nei confronti di John Lennon, aihmé, siamo ormai abituati da troppo tempo. Dagli show ricchi di amici o discepoli, ai dischi di cover, alle inevitabili ripubblicazioni di catalogo, nel tempo abbiamo avuto modo di comprendere appieno il vuoto lasciato da una delle figure più influenti della cultura mondiale del ‘900, la cui onda lunga continua (consciamente o meno) a permeare il settore discografico tutto. Va da sé che, nella giornata in cui l’ex Beatle avrebbe compiuto ottant’anni, ci si aspettasse qualcosa di proporzionato all’importanza dell’evento. Cosa che, invece, è accaduta solo in parte. Due gli omaggi “ufficiali” a John, entrambi a scopo benefico, da una parte all’altra dell’oceano: “Dear John”, patrocinato dall’Hard Rock Café di Londra e il John Lennon Tribute Charity Concert, messo in piedi da Theatre Within, l’organizzazione no profit che, col patrocinio di Yoko Ono, si occupa dell’omaggio dal 1981.

Siamo tutti d’accordo sul fatto che ogni manifestazione d’amore nei confronti di un personaggio come Lennon e che, per di più, si pone l’obiettivo di raccogliere fondi da destinare in beneficienza, vada lodata a prescindere. Allo stesso tempo, però, la caratura degli artisti coinvolti non dovrebbe mai prescindere da quella di chi si omaggia. In questo senso, dubito che lo show londinese verrà ricordato per anni. Quelli di Hard Rock Café avevano puntato quasi tutto sulla presenza di Peter Gabriel, sicuri che il nome dell’autore di Biko avrebbe rappresentato al meglio entrambi gli scopi della manifestazione. A condurre la trasmissione e ad agire da backing band di molti dei musicisti coinvolti, i Blurred Vision, onesta ma semi sconosciuta band con all’attivo una manciata di canzoni nemmeno troppo recenti. Il risultato è stato a tratti sconcertante: artisti semi sconosciuti che presentavano brani di Lennon o dei Beatles dai loro salotti o accompagnati dal gruppo all’interno della sede londinese della catena, per un’ora di noi mortale. Una sensazione perenne di pesantezza, spezzata solo dall’ottima KT Tunstall e con la ciliegina finale della non apparizione di Peter Gabriel. Sì perché nessuno si era preso la briga di spiegare che l’ex Genesis sarebbe apparso solo nel video della nuova canzone dei Blurred Vision, con in mano un cartello con la scritta “Dreamer”. Certo, il brano (per altro bruttino) è dedicato a Lennon e, anche in questo caso, i soldi raccolti saranno destinati all’associazione War Child. Tuttavia, resta la sensazione di essere stati presi comunque un po’ in giro.

Di tutt’altra caratura, invece, lo show americano. Non tanto per i nomi coinvolti, che comunque comprendevano gente come Jackson Browne, interprete di una splendida versione di You’ve Got To Hide Your Love Away e Patti Smith, coinvolgente anche in fermo immagine, ma proprio per la sensazione generale di coinvolgimento e sincero amore nei confronti di Lennon. La scelta di inserire interventi di personaggi come Whoopi Goldberg, sinceramente commossa nel parlare dell’autore di Imagine, o di persone che con Lennon avevano lavorato, come il fotografo Bob Gruen e Jack Douglas, hanno poi ampliato lo spettro della serata. Resta l’amarezza di non aver visto coinvolti musicisti che con John avevano condiviso parte della sua carriera. Artisti che per altro avevano già partecipato in larga parte a eventi musicali in tempo di covid.

Potreste dire che sono un sognatore, ma sarebbe stato bello sentire una Whatever Gets You Through The Night fatta da Elton John o, magari, una Yer Blues interpretata dai Rolling Stones, ma tant’è. L’unica cosa certa, e che esula totalmente dal personaggio di John Lennon, è che credo sia inutile illudersi: i concerti dettati dall’emergenza pandemica mondiale, con la loro impostazione inevitabilmente sempre identica a se stessa e al di là dei nomi coinvolti, hanno definitivamente fallito. Soprattutto dopo aver riassaporato, anche solo per poco, cosa volesse dire tornare a vedere un evento dal vivo.

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