Gli ultimi quindici anni discografici di Bruce Springsteen, con la sola eccezione di Western Stars, appaiono sempre più come un percorso di autoanalisi. Come se, consciamente o meno, il rocker avesse utilizzato il proprio pubblico a mo’ di psicoterapeuta cui aprire completamente se stesso, cui raccontare le proprie paure, le proprie insicurezze. A un certo punto deve aver pensato: se non sono pronti i miei fan ad accogliere la mia vulnerabilità, chi mai potrebbe esserlo? Eppure non tutti volevano sentirlo parlare di depressione, di alcolismo e di un disagio che, fino a un certo punto della sua carriera, sembrava appartenere più ai personaggi dei suoi racconti che a lui. O forse era lo stesso Springsteen a non essere di grado di farlo e, si sa, quello di spostare i propri fantasmi su altri obiettivi resta il sistema di difesa più semplice da utilizzare.
Tra tutti i sistemi di difesa, tuttavia, è anche il più fallibile. Quello che butti fuori dalla porta rientra dalla finestra. Ecco quindi che, dopo la sbornia seguita alla mitologica reunion della E Street Band del 1999, qualche fantasma ha cominciato a bussare alla porta di Springsteen. Guardando le cose a ritroso è ormai possibile scorgere i sentimenti di Bruce dietro a ogni suo vecchio album, ma farlo col senno di poi è fin troppo facile. La verità è che, fino a un certo punto, tutti noi pensavano a lui come a una sorta di Bob Dylan coi muscoli: cantore degli ultimi, ma inscalfibile psicofisicamente. E fino a quando l’età è stata dalla sua e gli amici di sempre erano ancora al suo fianco, forse anche lui ha finito per crederci ciecamente. Poi, piano piano, alcuni di quegli amici hanno iniziato a cadere e, insieme a loro, fatalmente anche la corazza del Boss. Già Magic aveva cominciato a far intravedere i primi vacillamenti esistenziali, ma solo con le morti di Danny Federici e Clarence Clemons al cantautore è mancato davvero il terreno sotto i piedi. Qualcosa che ha raggiunto l’apice con Wrecking Ball, album che conteneva gli ultimi assoli di sax di Clemons e che vedeva la presenza di alcuni membri della Band, ma che allo stesso tempo cercava di discostarsi quanto più possibile dal sound che l’aveva reso celebre.
Con quello stratagemma, Bruce ha provato a scappare nuovamente dai propri demoni, ma quella volta qualcosa ha cominciato a scricchiolare. Non a caso, in mezzo a una serie di tematiche fortemente politiche, per la prima volta Springsteen aveva parlato del male di vivere in un brano. Qualcosa di molto diverso dal sentimento espresso in I’m Goin’ Down, dove il protagonista sprofondava a causa di una delusione amorosa E l’aveva fatto in prima persona. Qualche anno prima, probabilmente This Depression sarebbe stata Bobby the Depressed o qualcosa del genere. Da lì in poi, nella maggior parte delle uscite (e dei tour) Springsteen ha cominciato a guardare al passato, proprio il processo che più si confà al percorso psicoanalitico. High Hopes era pieno di vecchi brani ripescati o registrati in nuove versioni, così come Chapter and Verse, vero e proprio compendio alla sua autobiografia, ripescava brani mai pubblicati e precedenti alla fama, e li mischiava a una manciata di hit. Stesso discorso per Springsteen on Broadway, spettacolo minimale e intenso capace di rileggere, non senza ironia, tutta la propria vita.
Visto in quest’ottica, Letter to You appare come il climax definitivo del suo lungo percorso introspettivo. O, se vogliamo, il momento in cui il terapeuta annuncia che, dopo tanto lavoro, il paziente è in grado di tornare a camminare con le proprie gambe. Letter to You è Springsteen che torna a fare Springsteen. Che scrive i brani in cinque giorni e chiama a sé l’E Street Band a registrarlo quasi completamente dal vivo. È Springsteen che non ha smesso di correre, ma ha smesso definitivamente di scappare e che non ha più paura di apparire per quello che è. Per questo, è l’album che suona più genuinamente springsteeniano da molto tempo a questa parte.
L’urgenza creativa con cui è nato lo pone inevitabilmente sul piano del presente, ma in Letter to You tutti i piani finiscono per mischiarsi. Senza pandemia, probabilmente Bruce avrebbe passato gli ultimi sei mesi in tour, quindi non è possibile slegare la sua uscita dal momento storico che stiamo vivendo. Allo stesso tempo, però, è lo stesso autore di Born to Run a confessare che la scintilla è scattata in qualche modo dalla visita all’ultimo membro della sua vecchia band in punto di morte. Dal rendersi nuovamente conto della caducità delle cose. Chi si aspettava la risposta di Springsteen alla situazione che ci troviamo a vivere da quasi un anno, rimarrà deluso. Se The Rising era un urlo di dolore e un invito alla rinascita post 11 settembre, Letter to You è tutt’altro. Pur essendo altrettanto empatico, di attualità parla solo fino a un certo punto.
Anche questa volta, i brani non sono tutti freschissimi. Segno che, se ai tempi di Tracks Bruce considerava il suo passato come qualcosa da confezionare in modo sistematico, sottolineandone in qualche modo la (presunta) non attualità, oggi ha capito che senza il suo passato non sarebbe l’uomo che è. In Letter to You, c’è uno Springsteen per ognuno di noi: quello che rimarca che il rock senza chitarre sarebbe un ossimoro, quello introspettivo e minimale, il cantore degli ultimi e quello politicamente impegnato. Un po’ Elvis, un po’ Dylan e un po’ Joe Strummer. Proprio quello che ci serviva in questo momento.