Pietro Castellitto, e mo so’ cazzi vostri
Il ‘figlio di’ uccide (simbolicamente) il padre. E fa fuori tutti i cliché del ‘giovane volto italiano’, prendendosi i ruoli migliori (dal nuovo atteso Mainetti alla serie-biopic su Totti) e piazzandosi tra gli autori di domani. Con ‘I predatori’, l'esplosivo esordio alla regia di chi è arrivato per restare
Foto: Fabrizio Cestari. Grooming: Emanuela Di Giammarco
Quando parla cerca le parole giuste e ogni tanto si interrompe. Alcune frasi le ha già pronte, si sente, sono il piccolo scudo delle sue prime interviste. «Questa storia dei figli di… C’è un elenco di figli di che non hanno mai fatto niente anche se avrebbero voluto», dice, seduto al tavolo di un bar. Figlio di Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini, entrambi attori, registi, scrittori, Pietro Castellitto il cinema in un modo o nell’altro lo ha respirato in casa. A parte questo, «mio padre viene da una famiglia nobilmente popolare», si difende quasi, «e io ho frequentato scuole pubbliche e scuole private, ho fatto le elementari alla Leopardi come Nanni Moretti, ho avuto amici poveri e ricchi, di destra e di sinistra». Si è laureato in filosofia su Friedrich Nietzsche con una tesi sulla Genealogia della morale. A 29 anni vive solo nel vecchio appartamento di una nonna al quartiere Prati, ma non ha tagliato il cordone né i pranzi in famiglia, anzi.
Fa l’attore e così abbiamo imparato a conoscerlo, dalla faccia buffa e il profilo che pare disegnato. È stato un aspirante pornodivo nel dimenticato È nata una star? con Littizzetto e Papaleo, poi il “Secco” in una versione non troppo fortunata della Profezia dell’armadillo di Zerocalcare. Sta per saltare di nuovo all’attenzione di tutti con la partecipazione a Freaks Out, secondo attesissimo film di Gabriele Mainetti, e con l’impresa impossibile di essere Francesco Totti nella serie Sky diretta da Luca Ribuoli e attesa per l’anno prossimo, titolo Speravo de morì prima. «All’inizio ero sconcertato. Non riuscivo a capire come si potesse mettere in scena un mito vivente di quarant’anni che potenzialmente poteva farlo da solo, perché Totti mica è morto come Elvis Presley». Tifoso della Roma, frequentatore della curva, conoscitore esperto (così si direbbe) dei rituali tifosi, spiega che la difficoltà dell’impresa è raddoppiata dal fatto che «Totti è uno che se lo imiti gli manchi di rispetto». Ha incontrato Totti – a cui non assomiglia per niente, ma che importa – e lui gli ha dato il permesso di inventare parole laddove al carattere schivo del Capitano era bastato uno sguardo o un gesto. «Fondamentalmente è la tragedia intima di un uomo che deve smettere di fare quello per cui è nato, cioè giocare a pallone», aggiunge. E l’idea che la malinconia della Fine possa raccontare tutta una storia ci illumina all’improvviso. Non ha visto niente del suo lavoro, aggiunge con onestà, ma ha «sensazioni positive», come dicono a volte gli allenatori di calcio nelle interviste.
I predatori – l’esordio alla regia al cinema il 22 ottobre, già premio per la migliore sceneggiatura di Orizzonti a Venezia 77 – lo ha invece scritto cinque anni fa. Da solo, ci tiene a sottolinearlo: «Diciamo che non mi sono fatto compromettere. Siamo molto abituati a vedere film in cui il soggetto è scritto da quattro persone e la sceneggiatura da altre quattro, così è ovvio che la visione un po’ si disperde». La laurea gli è servita. Nella storia ritaglia per sé il ruolo di Federico, stralunato assistente di un professore universitario di filosofia (l’attore napoletano Nando Paone) che sta partendo coi suoi collaboratori per disseppellire il corpo di Nietzsche dalla tomba nel piccolo cimitero di Röcken e analizzare nei resti la presunta causa organica della pazzia del filosofo. Per quanto la vicenda si muova sui binari del quasi demenziale, il giorno che Federico (come Friedrich) viene fatto fuori dalla spedizione per motivi apparentemente banali, la sua rabbia si rivelerà addirittura esplosiva. «A 19 anni ho fatto veramente un viaggio sui luoghi nicciani», rivela. «Dopo dieci giorni di macchina vagando per la Germania, sono arrivato davanti alla tomba, la stessa dove abbiamo girato il finale del film. Non c’era nessuno e ho pensato: se avessi un piede di porco potrei tirare fuori la cassa e portarmela a Roma».
Si è già lamentata, la critica, del carattere episodico del film. Che cosa dovrebbe tenere assieme una perfida truffa ai danni di una signora anziana di Ostia e l’incidente sul set di un film italiano sul Risorgimento dove un attore finisce mezzo impiccato quando il trucco della forca non funziona? E perché un gruppo di neofascisti burinissimi, grassi grossi e con la camicia hawaiana, dovrebbe condividere lo schermo col primario di una clinica privata che si tromba la moglie del socio malato di un brutto male? Siamo a Roma, la forma carnevalesca della satira (da queste parti la praticavano già duemila anni or sono) aiuta. Persino la teoria dei tre mondi – di sopra, di mezzo, di sotto – e della loro permeabilità, scoperta più di recente, è forse inconsapevolmente parodiata. Ma l’impressione fin dalle prime inquadrature vuote – quadri fissi in un bucolico paesaggio del Nord Europa a scoprire una fragorosa Volkswagen rossa parcheggiata e il boom di un’esplosione in lontananza – è che I predatori miri a un bersaglio più profondo: raccontare un mondo paradossale dove i legami della realtà non sono tanto stabili come sembrano.
«Questo è un film dove il caso è centrale. I personaggi si incontrano per caso, però nel momento in cui questo accade il caso diventa destino, non poteva che andare in quel modo. La macchina da presa è il deus ex machina che porta il caso in una direzione precisa». Ci sono vezzi da cinema arty, da commedia iperintelligente. Alcune sequenze “staccano” al montaggio parecchi secondi dopo il necessario e la macchina continua a inquadrare il niente. Il perché bisogna cercarlo nella filosofia, prima ancora che nel cinema. «Non ho mai studiato cinema», racconta Pietro. «Una volta, a Londra, ho seguito una scuola per due mesi, ma ero andato lì solo per imparare l’inglese. Invece ho frequentato molti set da assistente, anche i set di mio padre. È un mestiere che impari così, facendo e sbagliando, non è come la scrittura che prima scrivi per i cavoli tuoi e poi fai il romanzo…».
C’è davvero un gusto entomologico nei Predatori, che porta a seguire singolarmente ognuno dei personaggi alle prese col proprio destino e con quello del suo gruppo familiare, i Pavone e i Vismara, Roma Nord vs Fuori Roma, ricchi e progressisti i primi vs poveracci e fascistoni gli altri – come da anni ci insegna qualsiasi editoriale di Merlo e/o Galli della Loggia –, diversamente (e orrendamente) vitali (italiani, si può dire?) gli uni e gli altri. Uniti da un’incidente che porta la vecchia mamma dei fascistoni nell’ospedale del primario Vismara e Federico nel retrobottega dell’armeria dei Vismara, alla ricerca del mezzo col quale placare la rabbia per essere stato estromesso dalla spedizione nicciana.
Entrambe le rappresentazioni si nutrono di stereotipi tutto sommato familiari, da commedia vanziniana ma riletta alla luce di Charlie Kaufman e anche dei Simpson, visti e rivisti su Netflix o chissà dove. Soprattutto I predatori è il film di uno capace di esplorare i lati più contemporanei della città, compresi gli angoli e le zone d’ombra. È il prodotto di uno sguardo fresco, generazionale: i fratelli D’Innocenzo, non a caso, sono cari amici. «Giro Roma da quando ero piccolo, a cominciare dai bar», dice Castellitto. «Ho avuto la passione degli alberghi, li conosco tutti a memoria». In che senso? «Mi accompagnava papà con una scusa, diceva: mio figlio sta facendo una ricerca per la scuola sugli alberghi più belli di Roma. E siccome lo riconoscevano, ci facevano fare il tour delle stanze. A Napoli, ai tempi della fiction su Padre Pio, ci davano proprio le chiavi».
Chi sono veramente I predatori? Scommetteremmo a occhio sui riccastri progressisti (poco radical e non troppo chic) Massimo Popolizio e Dario Cassini. Colpisce, nel film, la rappresentazione dei fascistoni popolari e periferici – Giorgio Montanini e Antonio Gherardi tra gli altri – e il loro stile alternativo, come una parodia di Casa Pound. Addirittura è perturbante ascoltare nel finale, e senza nemmeno l’ombra di virgolette, una canzone degli ZetaZeroAlfa di piglio indie-cantautorale. «I fascisti sono molto colorati in questa storia, portano le camicie a fiori e sono grassi», spiega Castellitto. «Non voglio dire che sono tutti così. Il fascismo qui è aposematismo (il corsivo è mio, lui pronuncia la parola con notevole nonchalance, nda), cioè quella caratteristica che hanno gli animali di avere la pelle colorata per dire agli altri che sono velenosi. Poi, nel corso della storia, perdono il veleno, però rimane questo pigmento acceso». Metafora ingegnosa e sofisticata. Pure scivolosa. Nelle interviste e nelle conferenze stampa attorno a Venezia, Castellitto ha parlato più volte di un film «non antifascista, certamente antiborghese».
«Un film antifascista avrebbe avuto senso farlo negli anni ’20. Però non me l’avrebbero fatto fare», spiega ancora, e si lancia in una battuta. «Oggi te lo fanno fare subito: il potere trova sempre armi molto raffinate per imporsi». I predatori è dedicato “a mio nonno”: Carlo Mazzantini è stato l’originale “ragazzo di Salò”, ex repubblichino, autore di libri di memorie. Continua Castellitto: «Il film ha lo spirito di uno che ha pregiudizi ideologici. Se uno mi sta simpatico mi sta simpatico, anche perché io stesso non è che sono etichettabile. Faccio i conti con la mia vita: dove ho sentito assenza di democrazia e libertà, dove mi mancava l’aria. Crescendo, ho sempre percepito che chi aveva veramente gli strumenti per indirizzare la cultura non stava di certo negli ambienti neofascisti».
Ci sarà da preoccuparsi? Speriamo di no. Come certi studenti di filosofia (tutti quelli bravi almeno) Pietro Castellitto ha passione per la dialettica, per l’ebbrezza e per l’ebbrezza della dialettica. In uno sketch al pub nei panni di Federico, camera fissa e boccali di birra veri, duella con un amico sposando l’argomento nicciano dei geni che fanno la storia, mentre l’amico parteggia per il ruolo determinante delle masse. «Io ci credo veramente, ma quello era uno scontro tra umori post birra», commenta. La scena colpisce soprattutto nell’appassionato finale per il bicchiere rotto probabilmente per caso, lasciato lì nel montaggio. Conclude: «Nietzsche è una specie di angelo custode del film. Io dico sempre che questo è un film corale, ma i personaggi non lo sanno».