Dev’essere bizzarro pubblicare un disco intitolato Riot in una settimana come questa. O, in generale, in un anno come il 2020. Lo sa bene Izi, che il 30 ottobre farà uscire un album con quel titolo, a un anno e mezzo di distanza da Aletheia. «Avevo un po’ di nomi papabili, ho scelto di intitolarlo così due mesi fa», spiega. «Quella che racconto è la mia verità, non la verità assoluta». Diego Germini (questo il suo nome all’anagrafe) è ben consapevole della possibilità che i suoi versi vengano strumentalizzati, interpretati male, travisati. «Riot non vuole incitare alla violenza, anzi. È un invito a usare il cervello, un invito a pretendere i diritti che abbiamo in quanto esseri umanisenza ricorrere alla violenza. Come diceva Martin Luther King, la rivolta è il linguaggio di chi non viene ascoltato».
C’è tanto del momento storico che stiamo vivendo, le tragedie degli ultimi mesi riverberano nei suoi testi, ma tutto nasce molto prima, da un tormento interiore. «Ho riflettuto tanto sulle mie esperienze passate con l’abuso di potere, la violenza e l’ingiustizia, e dopo avvenimenti come l’omicidio di George Floyd non potevo più trattenere il bisogno di sfogarmi. Quando qualcuno soffre, soffro anch’io. In questo momento non si può pensare solo ai propri interessi, bisogna pensare a quelli della collettività».
Izi ha dovuto fare i conti con le immagini delle manifestazioni degli ultimi giorni, con il filo rosso che sembrerebbe unire il suo disco e quello che sta succedendo. Pensa che non sia tutto bianco o nero, che ci siano molte aree grigie. «Non si deve generalizzare e dire che chiunque scenda in piazza lo faccia con intenzioni distruttive», spiega e aggiunge immediatamente che «la violenza, lo sciacallaggio, il vandalismo becero non hanno senso. La violenza non risolve niente». E se la sua musica finisse per essere la colonna sonora delle manifestazioni dei prossimi giorni? «Mi verrebbe da piangere subito», risponde. «Non lo dico con patriottismo malsano, ma voglio davvero bene all’Italia, alla storia di questo Paese. Vorrei che la mia musica aiutasse a promuovere valori sani. Vorrei essere la voce di chi non si sente di poter parlare, la voce di chi non ha voce. O continuiamo a scappare, a nasconderci dietro uno schermo a farci storie Instagram becere e superficiali, oppure possiamo unirci e cercare di fare qualcosa. Se fossimo uniti sarebbe tutto diverso».
«Non modifico mai i miei testi, scrivo di getto, non riesco mai a riadattarli. Piuttosto li cestino», spiega Izi. «Un’eccezione è stata l’intro: stavo scrivendo la canzone quando c’è stato l’omicidio di George Floyd, e ho voluto rendergli omaggio inserendo l’espressione “Can’t breathe” nel titolo». Il disco si apre così, con uno sfogo intenso in cui si avvale della collaborazione di Dax, rapper canadese di origini algerine, anche lui socialmente molto impegnato. Oltre a Dax e Sav12, c’è un terzo featuring internazionale, IDK, rapper americano tra i più apprezzati della nuova generazione, presente in Al Pacino. «Mentirei, se ti dicessi che è stato facile allineare tutte le collaborazioni presenti nel disco, sulla stessa prospettiva. Ma questo perché in generale è difficile gestire tutti questi professionisti diversi». E se, all’annuncio della tracklist, molti hanno storto il naso alla presenza di così tante collaborazioni (sono 18: oltre ai già citati Dax, Sav12 e IDK, Nayt, Piccolo G, Federica Abbate, Guè Pequeno, Elettra Lamborghini, Leon Faun, Fabri Fibra, Gemitaiz & Madman, Benny Benassi, Dargen D’Amico, Vaz Tè, Guesan, Maestro, Disme), Izi invece non se n’è preoccupato, anzi. «Queste collaborazioni ci sono perché ho voluto creare cose strane, come uno chef che sperimenta con ingredienti all’apparenza inconciliabili. Ho lavorato da direttore artistico».
L’album spazia fra sound e atmosfere, da episodi più duri e aggressivi (Al Pacino, Pusher) ad altri più conscious e riflessivi (l’intro, Matrix), passando per momenti più leggeri (Miami Ladies, Flop, S8 K4SS4). «Dove non affronto la tematica della rivolta, ho sperimentato senza paletti, mi sono sentito come Marinetti con il futurismo, come i dadaisti. È un album a tutti gli effetti, ma l’ho lavorato come se fosse un mixtape».