Datemi una D
Per i casting director, Emma Corrin è stata «un’illuminazione» e probabilmente «la migliore decisione mai presa». Già dall’entrée deliziosa (con vibe alla Romeo + Giulietta di Baz Luhrmann, ma più aristocratico), la sua Diana la scena se la prende tutta, lasciando Olivia Colman e compagnia regnante sullo sfondo, come d’altronde aveva fatto davvero Lady D. Corrin azzecca tutto della “principessa del popolo”: l’innocenza e la freschezza, che poi si trasformano piano piano (nemmeno troppo) in eleganza, ma anche fragilità e malinconia. Le espressioni sono azzeccatissime, persino come Emma inclina la testa è impressionante. E poi c’è una sequenza da antologia, in cui Diana pattina nei corridoi di Buckingham Palace ascoltando i Duran Duran. Perché probabilmente, come tutte le diciottenni dell’epoca, pure lei avrebbe voluto sposare Simon Le Bon, e invece le è toccato Carlo. Che peraltro non è mai stato così figo come nella serie, chapeau a Josh O’Connor. Emma Corrin è la (instant) star di questa stagione. Elizabeth Debicki, che la dovrà sostituire nella prossima, avrà vita durissima.
Sua Maestà la Scrittura
Se parliamo di serialità, gli inglesi lo fanno ancora meglio, sorry. La scrittura di Peter Morgan è stata dall’inizio uno dei segreti al servizio di The Crown: solidissima, raffinata, bilanciata, ma con un occhio all’elemento sorpresa. E sempre ossessionata dalla verosimiglianza. In questa stagione, poi, lo showrunner si misura con due gigantesche personalità femminili: Lady D. e Margaret Thatcher. Se della prima viene dato quasi per scontato l’impatto pubblico rivoluzionario e si esplora il privato decisamente meno felice (bulimia compresa), della seconda Morgan mostra le conseguenze delle sue politiche di ferro, ma descrive la leader conservatrice anche e soprattutto come donna e come madre, aiutato dalla performance di Gillian Anderson (che ci prova forse un po’ troppo “bagaglinescamente”). Elisabetta II si confronta di continuo con queste due nuove figure, e viene (giustamente) un pochino messa da parte. Anche se al centro di uno degli episodi migliori c’è sempre lei, che, messa in crisi come genitore proprio da un incontro con Margaret Thatcher e da un’affermazione del principe Filippo, organizza degli incontri privati con i quattro figli per capire quale sia il suo preferito (Andrea e Edoardo sono meravigliosamente insopportabili). Per essere didascalici – ma magistralmente – fino in fondo, nell’ottava puntata viene affidato un ruolo chiave proprio a uno scrittore, come a dire che è sulla scelta delle parole che si fonda la politica (e, detto di questi tempi di “ristori”, fa ancora più effetto). Lo scrittore in questione è il vero Michael Shea, “ufficio stampa” di Sua Maestà ma anche autore di thriller politici. Che, almeno a Palazzo, non farà un’ottima fine. Più pizzino su quanto sia importante la scrittura di così…
Il caro vecchio (filologico) décor
Quando Margaret Thatcher fa il suo (fallimentare) ingresso a Balmoral, noi ci entriamo con lei. Entriamo, cioè, nella residenza scozzese in cui i royal trascorrono la villeggiatura estiva, tra teste di cervo impagliate e cornamuse a cena. Il décor come The Crown nessuno mai. Ma non è un infiocchettamento fine a sé stesso, per quanto prezioso: è pura filologia. Già s’è scritto di tutto, sull’accuratezza con cui ogni dettaglio della serie finisce per essere più vero del vero. Ma in questa stagione costumisti e arredatori sembrano essersi superati, forse perché ci si avvicina di più alla contemporaneità (e dunque ai nostri ricordi). Il vestito blu elettrico di Lady Diana il giorno del fidanzamento ufficiale con Carlo è da feticisti: identico. Ma anche le mise della sua virata “glam”. Per non dire dell’abito di nozze, mostrato nelle foto diffuse da Netflix ma che sullo schermo resta quasi solo accennato, attraverso fugaci inquadrature sui particolari. Come a dire: noi l’abbiamo fatto uguale, ma non c’è bisogno che ve lo riprendiamo per intero. Sapete benissimo com’è, no?
Il montaggio che fa la differenza
La regia continua a essere uno dei punti forti di The Crown (e qui si fa ancora più coraggiosa, tra prospettive e piani strettissimi), ma in questa stagione a fare davvero la differenza è il montaggio. Pensate al climax nella sequenza dell’attentato in barca a Dickie Mountbatten (Charles Dance) reclamato dall’IRA, alternata – in un ritmo serratissimo – a sprazzi della royal family a caccia a Balmoral. Oppure alla puntata in cui un uomo, Michael Fagan, riesce a introdursi nella camera da letto della regina: i piani temporali si intrecciano e si sovrappongono in un piccolo capolavoro che più cinema non si può. Poi i bellissimi flashback, il racconto colorito dei primi momenti di Diana a Buckingham Palace. E quello staccare sempre giusto in tempo per suggerire, per accennare, perché tanto le immagini ufficiali le conosciamo, e allora basta un’inquadratura di sfuggita, per dire tutto.
Il senso della Storia (in un mondo che l’ha perso)
Voglio trovare un senso a questa Storia, anche se questa Storia un senso non ce l’ha. Anzi: adesso che non ce l’ha. La Storia con la maiuscola, che questo mondo “insta” sembra aver dimenticato. The Crown ricolloca i fatti, le persone e anche noi che guardiamo su una linea del tempo più ampia, che non si limita al fatto di giornata (magari da raccontare con una semplice infografica). Per seguire la serie non bisogna conoscere la Storia (anche se, in generale, male non farebbe): la serie la Storia te la racconta, facendoti capire che le cause e le conseguenze esistono. Bastino due episodi clamorosi: il settimo, dedicato alla principessa Margaret (Helena Bonham Carter), in cui si rievoca il ramo “matto” della famiglia della Regina Madre (Marion Bailey); e l’ottavo, che ripercorre la crisi tra monarchia e Governo al tempo dell’apartheid sudafricano. Nelson Mandela non è solo una foto da mettere su Instagram con una bella citazione sotto: se le cose che vediamo sono successe, c’è sempre un motivo. Una Storia.
Le autocitazioni
The Crown non è un “testo” chiuso in sé stesso. È una grande opera che Peter Morgan, showrunner e dunque principale sceneggiatore, ha inaugurato attraverso The Queen di Stephen Frears (2006), il film che ha dato l’Oscar a Helen Mirren ambientato subito dopo la morte di Lady D. Da lì è andato a ritroso, narrando la parabola della regina dall’investitura ai fatti che hanno preceduto la scomparsa della principessa del Galles (quelli che vedremo illustrati nelle stagioni 5 e 6 della serie). Ora che il tempo della narrazione si avvicina a quello di The Queen, le citazioni intertestuali si fanno inevitabilmente più strette; così come l’affresco della tradizione che deve cedere il passo al gossip. Ma The Crown è, appunto, un testo che non smette mai di dialogare con sé stesso, anche all’interno del suo corso seriale. E allora ecco spuntare, a sorpresa, una delle vette della stagione 4: il ritorno – attenzione: spoiler – della giovane regina Claire Foy, nella puntata (la 8) ambientata durante la crisi sudafricana. Un comeback commovente che – possiamo dirlo? – ci fa rimpiangere ancora una volta l’attrice delle prime due stagioni: è più Lilibet lei di Olivia Colman, senza se e senza ma. E che riconferma la stratificazione e la complessità di una delle produzioni seriali più ambiziose (e riuscite) degli ultimi anni.