Patti in Florence è un film sugli incontri. La scintilla che diede vita al leggendario concerto fiorentino di Patti Smith nel 1979, vero e proprio motore di tutta la storia, è l’incontro fra due prospettive temporali profondamente diverse ed opposte: da una parte c’è il Patti Smith Group, che da lì a poco sarebbe evaporato, sublimando poi in mille direzioni artistiche differenti, dall’altra l’inizio di una grande stagione di concerti rock in Italia, che dopo le due date della poetessa americana (Bologna prima, Firenze poi) avrebbe calato assi come Lou Reed e Clash.
Non esattamente una cosa da poco in anni di forte antagonismo politico: per informazioni basta chiedere a Carlos Santana, che solo due anni prima, era il 1977, al suo quarto pezzo si ritrovò con gli strumenti incendiati da una molotov al Velodromo Vigorelli di Milano. Fine del concerto e Italia esclusa dalle tappe dei tour internazionali dei giganti musicali del momento.
E poi ci sono i tanti incontri fra lei, la poetessa del rock, e i suoi fan a Firenze, così ben testimoniati nel docufilm Patti in Florence del regista Edoardo Zucchetti che oggi verrà presentato in anteprima assoluta per aprire la 61esima edizione del Festival dei Popoli.
Il film si sviluppa fondamentalmente lungo tre linee temporali: lo storico concerto del 1979, organizzato dall’emittente radiofonica fiorentina Radio Centofiori in collaborazione con l’allora Partito Comunista, raccontato attraverso materiale d’archivio e le testimonianze di chi c’era; il concerto “I Was In Florence” del 2009 realizzato per celebrare il trentennale dell’evento precedente e infine il 2015, anno in cui Patti Smith torna nuovamente nel capoluogo toscano e momento scelto dal regista per registrare le interviste coi membri della band, Lenny Kaye (chitarra) e Jay Dee Daugherty (batteria).
«Il documentario ha avuto una gestazione molto lunga e avrà un’uscita molto lunga al cinema per questioni di Covid – spiega Zucchetti – oggi siamo a Firenze, poi sarà presentato a Milano in più eventi e poi, forse, New York. Nell’estate del 2009 mi ero appena laureato, e in spiaggia lessi sul giornale che Patti Smith sarebbe venuta a Firenze per celebrare i 30 anni di quello storico concerto del 1979. Scrissi agli organizzatori per sapere se potessi seguirla con la mia macchina da presa. Rimasi con Patti per tutti i 10 giorni che trascorse a Firenze: io allora non parlavo inglese, mi limitavo a filmarla, lei rispondeva immortalandomi con la sua Polaroid. Ci intendevamo così. Le immagini però non piacquero ai promoter dell’evento e dato che i social non erano ancora del tutto esplosi, rimasero per anni in un cassetto. Anni in cui mi sono trasferito a Londra per migliorare la mia arte, arrivando anche a collaborare con Terry Gilliam. Sono tornato a Firenze nel 2015, e curiosamente ci tornò anche Patti, ancora col tour di Horses, lo stesso del 2009 e del 1979: sapevo di dover fare qualcosa, era la chiusura del cerchio».
«I was in Florence!» è quello che Patti Smith si sente dire più spesso dai fan italiani quando la fermano. Proprio per questo motivo si è scelto di battezzare così l’evento del 2009, entrando in risonanza con l’epocale concerto fiorentino che vide il Patti Smith Group suonare di fronte ad 80mila persone (70mila la sera prima a Bologna) con quello che era l’impianto della PFM, pensato però per sole 45mila. Pochi hanno visto, qualcuno ha sentito, alimentando ulteriormente l’alone leggendario legato a quel momento. La sicurezza dell’evento era mutuata dall’esperienza maturata alla Festa de l’Unità: c’era una grande voglia di stare assieme unita ad un italico senso dell’improvvisazione. Se da una parte si trattava di una prima volta per l’Italia, lo stesso valeva anche per Smith e compagni che non avevano mai suonato di fronte ad un pubblico così ampio. Non tutto filò liscio: quando la band attacca Star Spangled Banner, innalzando la bandiera americana (un omaggio a Jimi Hendrix), qualcuno non la prese bene e tentò di arrampicarsi sul palco per rimuovere il vessillo a stelle strisce. Erano altri tempi e l’odore della pelle bruciata dal napalm americano, per molti, era ancora nell’aria. Il concerto si chiuse invece con My Generation e il pubblico che, in materia determinata ma pacifica, si impossessò della scena: se non è la romantica rappresentazione di People Have the Power poco ci manca.
Nel 2009 le cose sono molto diverse. Patti torna da vincitrice in una città che la ama: del resto, la Smith è talmente lontana dai limiti e dai cliché della rockstar dall’ego in decomposizione che non si può non amarla. Armata solo della sua chitarra e del suo contagioso sorriso, si aggira per Firenze come una sorta di scheggia impazzita pronta ad accendersi da un momento all’altro per illuminare tutto quello che le si trova attorno. Una sorta di messia low profile: lei cammina per strada e la gente semplicemente comincia a seguirla, vedere per credere. Patti ama Firenze ed i fiorentini amano lei, dando vita ad una gigantesca catena di affetti che non si può spezzare, per citare il Sassaroli. Memorabile e gustosa una scena che prende vita all’interno del laboratorio di un fabbro: mentre la Smith chiede informazioni sull’arte della lavorazione del ferro, un fan (altro sopravvissuto del 1979) la riconosce e comincia a ripeterle incessantemente «because the night». Vuole comunicare col suo mito, ma è l’unica cosa che sa dire. Lei capisce e comincia a cantare la canzone. Così, dal nulla, dando vita ad una connessione fra l’artista ed il fan tanto irreale quanto genuina.
Il film, da qui, si avvia verso una progressione apparentemente randomica, come la sua protagonista: con la DeLorean ci si muove nel 2015, anno dell’ennesimo ritorno della star sul suolo toscano, e delle sue collaborazioni con Emergency di Gino Strada e con la band aretina Casa del Vento con la quale l’artista americana registrerà due pezzi.
«Il fatto che un personaggio del genere incidesse con una band locale mi è sembrata una cosa unica. Son sincero, in fase di realizzazione mi è stato chiesto più volte di eliminare sia la parte con Emergency che quella con la Casa nel Vento. Servivano a sottolineare il suo aspetto più guerrigliero ed il suo attivismo», dice il regista.
Nel corso del docufilm la Smith viene raccontata attraverso gli occhi dei fan, degli organizzatori del concerto e dai suoi compagni di band. Non c’è mai un’intervista diretta con la musicista e questo è (forse) il vero limite di tutto questo progetto. Ma Zucchetti difende la propria scelta. «Avrei potuto fare due tipi di documentari: o questo con gli altri che parlano di lei, dove l’unica vera intervista è fatta da Ernesto de Pascale, un giornalista di Controradio che oggi non c’è più e che così ho voluto omaggiare. Oppure avrei potuto fare semplicemente una grande intervista corredata da immagini di repertorio dagli anni ’70 e dal 2009. I fatti però mi hanno portato verso la prima ipotesi: i rapporti con lei, la band e la sua manager mi hanno spinto in questa direzione».
Ciò non toglie che il documentario riesce bene nell’intento di restituire l’immagine di un personaggio unico, che è sopravvissuto ad una valanga di stagioni musicali rimanendo fedele alle sue origini, in maniera rara e per questo preziosa. Patti in Florence, il documentario di Edoardo Zucchetti sul rapporto fra Patti Smith e la città di Firenze, inaugura in anteprima assoluta la 61esima stagione del Festival dei Popoli sulla piattaforma virtuale Più Compagnia. Sarà visibile, on demand, per i prossimi tre giorni a questo link.