Tommaso Ragno, la stagione dell’attore
Quella che sta vivendo lui: «Più si invecchia meglio è, dopo trent’anni ho capito cosa faccio davvero». E quella della serialità adulta, che l’ha tirato fuori dal teatro. Fino all’America: «Ora ho fatto ‘Fargo 4’, ma non per questo mi sento stocazzo». Una chiacchierata sulla recitazione, il lavoro, la modestia. E l’autorizzazione a stare male
Foto: Luca Carlino
Due delle parole chiave di una delle più belle chiacchierate mai fatte (almeno da me) sul mestiere dell’attore sono “scoreggia” e “stocazzo”. Ciò basta a tracciare il profilo di Tommaso Ragno, attorone. Non nel senso deteriore del suffisso: proprio inteso come attore grande. Un primattore caratterista, o un caratterista primattore, com’è andata esattamente non si sa, ma fa lo stesso. Tantissimo teatro, cinema quel tanto che serviva, poi la stagione delle serie, il cuménda tangentista di 1992 e seguiti, il preside conformista di Baby e, su tutti, il magnifico prete marcio che annusa le mutandine nel Miracolo di Ammaniti. Sempre in equilibrio tra schifo e meraviglia, disturbo e passione. Ora arriva un colpaccio: Fargo stagione 4, dal 16 novembre su Sky e NOW TV, è lui – cioè il picciotto Donatello Fadda, capoclan degli italiani che vogliono il controllo su Kansas City nei primi anni ’50 – il vero gigante dell’episodio pilota, anche più del protagonista Chris Rock, cioè il mafioso rivale. Poi ancora cinema: Il buco in testa di Antonio Capuano, fuori concorso al Festival di Torino edizione virtuale, e soprattutto Tre piani di Nanni Moretti, che chissà quando vedremo. Intanto, siamo qua.
Come stai?
Lo chiedo anch’io a te: come stai? Automaticamente ti viene da dire: bene. Poi, però, non mi sembra che si stia tanto bene, data la situazione. Scusa, non voglio entrare in chissà che discorsi, intorcinare la risposta. Potevo dire “bene” e chiuderla lì.
Parliamone, invece.
Non lo so. Mi chiami per fare un’intervista e se penso – e ci penso sempre, non è un esercizio di modestia – che sono qui, e che tu mi fai delle domande sul mio lavoro… ecco, so che è un gran privilegio, ed è bellissimo. Chi va a chiedere a un macellaio come si sente adesso, o a uno che deve chiudere un ristorante. Quindi sì, io mi sento bene, ma non so cosa vuol dire “bene”, in questo momento.
Ma siamo autorizzati a stare male, non trovi?
Hai detto una cosa umanamente giusta. Anche se io non avevo bisogno del lockdown per capire quanto siamo irrilevanti. O per credere che saremo migliori: chi è stronzo lo è rimasto anche durante e dopo il lockdown. Né, per carità, son di quelli che dicono andrà tutto bene, si capiva subito che quell’hashtag non funzionava. Andrà tutto bene quando la gente non morirà più? O anche se la gente sta ancora morendo? Tu da dove mi chiami?
Da Milano.
Ecco, allora capisci ancora meglio cosa voglio dire. Io a Milano devo parecchio della mia educazione anche sentimentale, ho studiato lì, alla Civica. Sono affezionato a quella città, mi ha dato veramente tanto. Il lockdown me lo son fatto a Roma, e a Roma non era così. Non voglio fare il melodrammatico, ma pensare a Milano è una cosa che mi strazia enormemente, perché so quello che è Milano, e cosa significa il teatro a Milano, è parte della vita delle persone, o almeno così l’ho vissuto e lo ricordo io, anche se è passato molto tempo. È grazie a Milano che ho potuto vivere una dimensione importante di attore, ma anche di ragazzo. Perciò, per tornare al tuo come stai, come vuoi che stia, non posso star bene, devo cercare di star bene. Dicono che saremo diversi, alla fine. Non lo so. Quando si ha un lutto, la percezione di quel che è successo arriva molti mesi dopo. Forse sarà così anche con la pandemia. Mentre ne parliamo, ancora non credo di capirla bene. Tu prima hai detto: siamo autorizzati a stare male. E io dico: ma certo, ma scherzi! Anzi, se può diventare materiale energetico per trasformare la propria vita, ancora meglio. Io ci sto, a pensarla così. Per quanto tutto questo sia una rottura di coglioni, e lo è, per me la fregatura sta soprattutto nell’aver rinunciato alla complessità.
Il punto non sta proprio lì? Nel voler semplificare sempre tutto?
Il rifiuto della complessità comporta la soluzione rapida. Ma io non penso affatto che tutto questo abbia a che fare coi social e il loro uso smodato, la colpa non è del mezzo tecnico. Mi ricordo quell’incendio infernale in California, c’era un video su Facebook di una donna in macchina in mezzo al fuoco che gridava tra le lacrime «Aiuto! Aiuto!». Il social le dava la possibilità di farlo. Perciò sì, ci hanno rovinato, ma ci possono anche salvare la vita. È un po’ come quando, ai primi del secolo scorso, erano appena state inventate le auto e si facevano un sacco di incidenti, perché la gente non sapeva usarle. Le cose sono andate così velocemente che non si ha ancora contezza della grande possibilità di questi mezzi. Ricordo una grande intervista a Bowie al riguardo. Quando un giornalista gli chiese che impatto avrebbero avuto sulla vita, lui più o meno rispose – Bowie a volte lo cito come se fosse una voce interiore – a me ha aiutato molto poter attaccare la spina a cose che hanno un grande valore personale. Ecco, penso al lockdown e a quanto, grazie a questi mezzi, abbiamo potuto attaccare la spina alle cose che ci piacevano. Pensa se non ci fossero stati, in poco tempo saremmo finiti come all’Overlook Hotel, ci ammazzavamo tutti. Poi c’è il fattore economico, certo. Io ora sto girando una serie, tanti miei colleghi, coi teatri chiusi, sono invece rimasti a casa. Non voglio dare più valore a questo ambito, hanno tutti valore. Sono importantissime pure le palestre, per dire. Anzi, la cosa che noto di più su di me, in questo periodo, è proprio il corpo. A me piace muovermi, fare attività fisica. E, adesso che siamo fermi, vedo quanto anche il corpo può deprimersi.
Ecco, il corpo. La tua scena più clamorosa in Fargo è legata – e chiedo scusa per lo spoiler – a una lunga, splendida, liberatoria scoreggia.
Quando l’ho letta, proprio per come era scritta, ho capito che era il mio “essere o non essere”. Una fortuna monumentale. Già lo è essere dentro Fargo, se uno sa cosa significa. E poi con una scena così.
Ho letto giornalisti americani insieme divertitissimi e scioccatissimi: una scoreggia così sulla cosiddetta Prestige Tv, scrivevano, non s’era mai vista.
Ho letto un commento favoloso, sulla pagina Facebook di Fargo. C’erano le foto della famiglia Fadda, e qualcuno sotto la mia ha commentato “Dark Farther”, a unire fart, scoreggia, e father. Sono caduto dalla sedia. Quella scena contiene tutto ciò che è Fargo. Come mi ha detto Noah Hawley (lo showrunner e principale regista della serie, nda), che è un genio assoluto: «It’s funny, but it’s not supposed to be funny». Ed è vero. Recitare quel materiale lì per un attore è una gran fortuna. Senza parlare del mondo dei fratelli Coen a cui fa riferimento. Però la serie l’ha saputo riformulare. Penso alla terza stagione, che finisce in levare, come se potesse andare avanti ancora. O ai dischi volanti della seconda. Ti chiedi: che cavolo c’entrano? Eppure… Fargo è un tale mondo che, alla fine, è come se sentissi la tua irrilevanza come personaggio, non so come dirlo. È come stare dentro e fuori contemporaneamente.
Per non fare la solita domanda da provinciale – com’era il set americano, com’era Chris Rock, eccetera – ti chiedo: il fatto che venga prima di tutto il “brand” Fargo ti ha fatto paradossalmente sentire più libero anche come attore?
Ma invece facciamo i provinciali! Quando, dopo una settimana, stavo più in confidenza con l’ambiente e alle sei del mattino mi son trovato al trucco accanto a Chris Rock… e a me già veniva da ridere prima quando, mentre chiacchieravamo, Chris Rock mi toccava, nel momento stesso in cui succedeva pensavo «Chris Rock mi sta toccando, è come se fossi alle Olimpiadi e mi toccasse Bolt»… Quindi certo che ce l’ho avuta, questa roba del provinciale. Ovvio! Comunque, dicevo, eravamo al trucco vicini e io gli faccio: «Come stai?». E lui: «Good! I’m doing Fargo!». E la risposta è quella. In Italia ne devi fare venti, di Fargo. Lì, una volta che hai fatto Fargo, hai fatto Fargo. È come se avessi fatto Ben-Hur. Anche in Italia siamo contenti, quando siamo sul set, perché spesso facciamo miracoli, con poche settimane a disposizione riusciamo a ottenere comunque delle opere di tutto rispetto. Ma quando hai tutto quel tempo per poter scrivere una serie, le differenze le vedi, te ne accorgi da spettatore ma pure come attore. E poi, per tornare a quella cosa del provinciale, si è realizzato un sogno di bambino. La cultura americana è stata importante nella mia vita, e quello che ho potuto percepire stando lì è la totale corrispondenza tra ciò che avviene nel mondo mediatico e la vita quotidiana. Non c’è quello scollamento che possiamo sentire noi che abbiamo una cultura con le radici in un passato lontano. Noi a scuola studiamo il greco e il latino, poi però fuori c’è una realtà che sembra scollata da quello che studi sui libri. Quando ero lì, la sensazione era che quello che stavo facendo corrispondesse esattamente a quello che stavo vivendo. E credo che questo appartenga anche al contesto politico, non c’è nessuno scollamento tra ciò che vedi in tv e quello che c’è attorno. La fortuna di partecipare a 1992, e poi 1993, e 1994, è stato vedere che, se vogliamo, possiamo farlo anche noi. Possiamo avvicinare il racconto a quello che stiamo vivendo o abbiamo vissuto. Io ringrazio quella serie, ancora dico tanto di cappello che ci siete riusciti, che avete tentato questo passo in avanti.
Dici che qua bisogna farne dieci, di Fargo, ma tu fai parte di questa ondata di serialità italiana diciamo “Prestige” che oggi ha un peso e un valore.
Io devo ringraziare che ci siano queste piattaforme. Perché hanno dato spazio ad attori come me che provengono dal teatro, e che hanno avuto tempo di far maturare la loro professione. Sono imprese che non erano pensabili solo quindici anni fa, prima di Romanzo criminale, e di Gomorra, da lì son partite tutte queste scommesse a volte insolite per la nostra produzione. Nella fase che sto vivendo della mia attività di attore, sono fortunato a poter fare cose così, personaggi così.
Il prete del Miracolo una volta era forse pensabile solo a teatro.
Sì, in questo senso il teatro rimane più libero. Riuscire a mettere in tv un personaggio del genere, per nulla agiografico, è stata un’ambizione e una fortuna. Io non sapevo se sarei stato in grado. Ogni volta che inizio un lavoro mi sembra miracoloso, perché non so se continuerò a farlo. La sensazione che ho avuto negli Stati Uniti è che lì un attore è un attore, punto. Qua, quando dici che sei un attore, ti fanno sempre quella domanda che dovrebbe far ridere: «Sì, ma che lavoro fai?». E invece è un lavoro. Fatto di tempo, di processi lunghi, di sentirsi dire, la maggior parte delle volte, «No, grazie». Un lavoro di resistenza. Se son riuscito a vivere di questo lavoro da quando avevo vent’anni a oggi, per me è già tanto. Questa è una professione, non un modo per avere successo. Questo me l’ha insegnato fare a lungo teatro, il teatro ti permette di riflettere sulla natura del tuo lavoro. Passi un sacco di tempo a fare le prove e poi, quando hai 250 repliche l’anno, allora l’attore lo stai facendo davvero, perché lo fai ogni giorno. È la quotidianità a far crescere tecnicamente un sapere che è basato sulla stratificazione. Sono felice di aver cominciato solo in questa fase della vita a svilupparmi di più nel rapporto con la macchina da presa. Innanzitutto, perché prima pensavo di non essere adatto, visto che non venivo scelto spesso come invece mi capita ultimamente. Ma non è che avessi dubbi sull’essere un attore solo perché non facevo cinema. La maggior parte degli attori che conosco vuole fare subito fare cinema, e io non ho nulla contro le ambizioni personali. Ma ecco, oggi posso dire che è augurabile fare entrambe le cose. È come giocare a basket o a pallone: c’è sempre di mezzo la palla, solo che la usi in due modi diversi. In un periodo in cui non stavo lavorando tanto a teatro, io ho fatto anche la radio, e lì ho approfondito il rapporto tra la lingua e il corpo, e paradossalmente ho ritrovato il corpo senza usarlo. Tutto questo per dire che il lavoro dell’attore non è un modo per far soldi. Se uno lo vede in questo modo è meglio che cambi mestiere, meglio che faccia il mercante d’armi. Ci si vive, ci si può vivere, io ho potuto farlo in diverse condizioni, anche quando di soldi ce n’erano pochissimi. E poi abbiamo esempi così monumentali per cui dovresti dire: meglio non farlo. Una volta che hai visto Marlon Brando, ed Eduardo, e De Niro, allora ti chiedi: perché dovrei mettermici anch’io? Ma semplicemente per quanto entusiasmante può essere, e perché non ci dormi la notte. A un livello elementare, tutti possono fare l’attore. Però, se ci investi la vita, diventa un’altra cosa, capisci a cosa puoi arrivare.
Il tuo investimento, più o meno consapevole, ti ha fatto fare jackpot: ruoli e serie popolari, di successo, che però ti lasciano la stessa libertà del teatro.
Il successo, ammesso che il mio lo sia, è poter fare questo lavoro. Non è che mi sia sempre capitato di fare Fargo o Il miracolo, ho fatto anche cose che non ha visto nessuno. Ma siccome la telecamera non sa se stai girando un capolavoro o la pubblicità del sugo, il momento in cui ti viene data la possibilità di esprimere il tuo talento – o quello che credi sia il tuo talento – è una condizione sempre privilegiata. Se stai ad aspettare che le condizioni siano ottimali per poterti esprimere al massimo, allora stai facendo un errore di valutazione. Il lavoro dell’attore è legato alle occasioni, e al tempo che l’attore vive. Io sarò meno fortunato di un attore cresciuto nella cultura anglofona, dove ci sono molte più possibilità. Ma vivo in un’epoca in cui esiste Sky, e Netflix, e allora mi dico: be’, guarda che fortuna. Ringrazio se sono qua a parlare di tutto quello che ho fatto, ma nel mio caso ha richiesto tempo. È in questa età che sto cominciando a sentirmi un attore, anche se lo faccio da trent’anni. Ma solo da qualche anno sento che lo sto facendo veramente. Un po’ come se fosse una disciplina mistica, religiosa. Lo fai per trent’anni e poi dici: ok, forse adesso sto cominciando a trovare la mia voce. Cazzo, lo dicono i grandi, lo dice Miles Davis, avranno un motivo (ride). E non parlo del genio, perché col genio non ci puoi fare niente. Parlo, ripeto, del lavorare. Già se riesci a far stare in piedi una piccola cosa non è poco. Quando poi ti capita una roba come Fargo, ti restituisce il senso del tuo lavoro. Ma non mi sento stocazzo perché ho fatto Fargo.
Non mi sembra che tu ti senta stocazzo mai. Ovunque ti si veda, è come se fossi sempre presente, ma al tempo stesso passassi sopra alle cose.
È esattamente così, e non so spiegare com’è, perché. Forse è un dato del mio carattere, questo cercare di affrontare tutto allo stesso modo. Specialmente con quello che ha a che fare con la riproducibilità tecnica – i film, le serie – la sola cosa che penso è: meglio farlo bene, perché poi quella roba resta. L’altra cosa che penso è che la caratteristica più importante del mio lavoro è non fare sé stessi. Oggi ti viene chiesto spesso di fare te stesso. Io voglio fare i personaggi. I personaggi sono una materia più complessa.
Ecco: nell’epoca dell’ipernaturalismo, tu sei sempre fieramente e sfacciatamente antinaturalista.
Che sia conscia o meno, ho questa tendenza, sì. Oggi è molto facile, attraverso una telecamerina, raggiungere il pubblico attraverso sé stessi. Basti tu. Guarda che bravo. Guarda che simpatico. Il rapporto col teatro, se non altro, ti mette in relazione con qualcosa che non sei solo tu. Tutto ciò che ti appartiene, te compreso, è parte di qualcosa che ti è dato in comodato d’uso. Che te ne fai di te e basta? Che te ne frega? Poi vabbè, c’è stato l’“io sono un’opera d’arte”, tutte quelle correnti lì. E vanno benissimo, ma non siamo tutti Nick Cave. Adesso è uscito questo suo libro bellissimo, Stranger Than Kindness, questa sorta di lungo diario in cui parla della costruzione del proprio mito. Ecco, a suo modo, anche l’attore può fare la stessa cosa. L’aura mitica non è data solo dal divismo, è ciò che ti muove a un livello profondo, o almeno per me è così, a costo di sbrodolare in paroloni. Oltre all’aspetto miserabile che fa parte del mio lavoro – il doversi dare al miglior offerente, perché anche di questo è fatta la mia professione – c’è un’altra dimensione, e quando riesci a comprenderla è profondamente consolante. Per questo credo molto nel valore dello studio. Quando sei giovanissimo hai tutte le ragioni per entrare dentro le cose con la sicumera e la presunzione di quell’età, è proprio un fatto ormonale. Poi l’esperienza ti insegna che c’è un passo ulteriore: dimenticare ciò che sai. Però intanto devi aver saputo qualcosa. E il sapere non è sempre legato al momento in cui le cose le fai. Ho realizzato mesi dopo che ero stato a Chicago, e che avevo girato Fargo. È come se avessi maturato solo adesso quello che è successo. Ci sono cose che smaniavi perché venissero fuori e a un certo punto hai lasciato perdere e loro son cresciute da sé, perché è successo qualcosa, perché hai affrontato delle morti, o il trasferimento da una città a un’altra… Un attore più invecchia e meglio è. Perché riesce a ridurre sempre di più la distanza tra quello che sta facendo e quello che è.
Anche se avrai firmato col sangue qualunque accordo di riservatezza, dimmi qualcosa di Nanni Moretti.
Di essere diretto da lui non l’avrei mai immaginato, è stato uno dei momenti più felici del mio lavoro. Io non so com’è il film, non l’ho visto, ma sentivo di essere in buone mani. Anche se avevo sempre quel timore addosso: adesso mi caccia, ha capito di aver sbagliato, finalmente si è reso conto. Ma mi è successo anche sul set di Fargo. Ho un senso di inferiorità naturale, e non lo dico per falsa modestia. Penso solo: sono qua, meritiamocelo. Ma quel senso di inadeguatezza è anche propulsore di forza. Non sentirsi del tutto al sicuro è quello che fa accendere la creatività.
Ultima cosa sciocchina. Lo sai che sei unanimemente considerato un figo?
Non lo sapevo, no.
Ma non ti credo, dici una bugia, non puoi non saperlo, ho amiche e amici che ti amano in modo appassionato, disordinato.
Te lo giuro, non lo sapevo. E allora dico che mi fa molto piacere questo massaggio all’ego. Che accetto e sto zitto. Anzi, a quegli amici di’ così: l’Uomo Ragno ringrazia. Non è, l’Uomo Ragno, il più bello dei supereroi?