Gus Van Sant ha appena collaborato col direttore creativo di Gucci Alessandro Michele per un film in sette episodi sulla nuova collezione della maison, ma non ha intenzione di ampliare il suo guardaroba. «Ho una vestaglia che mi ha mandato Alessandro, ma per ora è tutto», dice. Il primo episodio della serie OUVERTURE of Something That Never Ended è stato reso disponibile lunedì scorso, in concomitanza con l’inizio del GucciFest. Gli episodi ritraggono l’attrice Silvia Calderoni mentre si imbatte in diverse celebrità internazionali, tra cui Harry Styles, Billie Eilish, Jeremy O. Harris, Paul B. Preciado, Achille Bonito Oliva, Darius Khonsary, Lu Han, Ariana Papademetropoulos, Arlo Parks, Sasha Waltz e Florence Welch. Abbiamo parlato con Van Sant mentre si trovava a Roma, subito dopo la conferenza stampa che ha annunciato la sua collaborazione con Michele.
Cos’hai pensato quando Alessandro ti ha chiamato e ti ha proposto di girare questa serie?
L’inverno scorso abbiamo iniziato a parlare di due progetti che avremmo voluto fare insieme. Uno era un corto di dieci minuti, una sorta di lungo spot pubblicitario; l’altro si avvicinava di più a quello che abbiamo realizzato ora. Era un film di mezz’ora che avremmo presentato a San Francisco. Non ricordo quale fosse esattamente lo scopo del progetto, ma aveva u impianto più narrativo, per cui io ho scritto un soggetto da cui partire. Ma poi è esploso il Covid, e ha colpito prima di tutti l’Italia. Il loro viaggio previsto negli Stati Uniti è saltato, e poi sono saltati tutti i viaggi. Un mese fa, è riapparsa quest’idea. Avevamo chiaro entrambi che avremmo dovuto lavorare a qualcosa di completamente diverso. Ci siamo ritrovati con un intero look book e alcuni paragrafi per ogni sequenza immaginata. Così, molto semplicemente, ho iniziato a collaborare con loro.
Hai cominciato questo progetto solo un mese fa? Hai girato sette corti in un mese?
Sono arrivato a Roma meno di un mese fa, ma avevo già lavorato con questa modalità. Elephant e Last Days sono stati girati in due settimane, questo set è durato dodici giorni in tutto. Lo sforzo produttivo è stato piuttosto simile. E in più sia quei progetti sia questo non avevano una sceneggiatura definitiva, era più una lista di idee e suggestioni. L’avevo già fatto un paio di volte e avevo capito che è una delle cose che preferisco fare. Non è stato prodotto in fretta come qualcuno potrebbe pensare.
Che tipo di precauzioni anti-Covid avete usato sul set?
Alessandro è forse più paranoico di me riguardo al virus, perciò la gente sul set è stata messa nella massima sicurezza, facevamo i test ogni due giorni. Agli attori che recitavano insieme e che dunque durante le riprese non indossavano le mascherine è stato chiesto di evitare di frequentarsi fuori dal set. Era tutto sotto controllo. Su un altro set a Roma prima del nostro erano avvenuti casi di contagio. Ma era Mission: Impossible, una produzione molto più grossa, in corso già da parecchio tempo. Se hai una troupe così ampia e un periodo di riprese così lungo, è più facile avere problemi. Ma la nostra era una produzione ridotta, un set molto piccolo, perciò siamo stati tutti bene.
Eravate tutti nello stesso hotel, come dentro a una bolla?
Eravamo divisi in tre hotel diversi, ma la maggior parte di noi dormiva all’Excelsior.
È stato difficile abituarsi a un set in cui tutti indossavano la mascherina?
Prima di arrivare a Roma ero a Los Angeles, ero già abituato a vedere la gente con le mascherine. Quando è spuntato questo progetto, ho pensato: «Ok, facciamolo». La situazione si era un po’ calmata, almeno in Italia, e le persone da qui mi dicevano che c’era stato quasi un ritorno alla normalità. È stato confortante poter venire in Italia proprio nel momento in cui negli Stati Uniti le cose stavano iniziando a peggiorare.
Com’è stato lavorare con Harry Styles?
L’avevo incontrato di sfuggita a Los Angeles, ma non lo conoscevo bene. In Dunkirk è stato bravissimo, sapevo che era un attore su cui avrei potuto contare. È avvenuto tutto molto in fretta. Abbiamo mandato una troupe a casa sua. È stata una ripresa velocissima, che io governavo da remoto, una cosa che non avevo mai fatto prima. Non è facile, perché senti di non essere lì. Perciò sono stati soprattutto l’aiuto regista presente sul set e la recitazione di Harry a fare in modo che tutto funzionasse. Non ho avuto bisogno di dargli troppe indicazioni.
Le scene in cui compare lui sono ambientate a Roma, anche se sono state girate altrove?
Non voglio svelare troppo, ma diciamo che no, l’ambientazione delle sue scene non è Roma.
Cosa mi dici invece di Billie Eilish?
Lei non l’ho ancora incontrata, e c’è un motivo se non è successo. Ma non voglio svelarvi troppo neanche a proposito di questo…
Com’è stato lavorare con lei?
Bello, è andata molto bene. Ma è tutto quello che posso dire, per ora.
Che tipo di collaborazione hai invece avuto con Alessandro?
Io facevo il mio lavoro, e lui mi osservava all’opera. Alessandro aveva ideato il soggetto, aveva scelto il cast, il mio compito era essere la voce sul set e scegliere le inquadrature che potessero dare vita al concept originale.
Immagino sia stato uno dei set più eleganti che tu abbia mai visto, con tutta quella gente vestita Gucci…
È stato un set come tutti gli altri. A volte ti passavano davanti dei vestiti davvero meravigliosi, ma io cercavo di entrare nelle emozioni dei personaggi e di farle scaturire sullo schermo, non avevo tempo di occuparmi dei costumi. Ho lasciato che gli stylist facessero il loro lavoro, che pensassero loro al fitting, alla taglia giusta per ogni attore.
Vorrei chiederti un’ultima cosa sull’impatto che il Covid sta avendo sull’industria del cinema e in particolare sulle sale. Pensi che potranno risollevarsi?
Non ho idea. Lo scenario fa molta paura, genera in tutti una grande preoccupazione. È un altro durissimo colpo su un settore che stava già soffrendo moltissimo, considerata la crescita degli audiovisivi online. Le persone che lavorano in queste piattaforme di streaming hanno dati che indicano che il futuro va in quella direzione. Non sarà più dentro le sale cinematografiche, il che è un dato a suo modo interessante: il cinema è iniziato con i nickelodeon (i primi teatrini in cui venivano proiettate le pellicole, ndt) e sta tornando sui piccoli schermi. La ragione per cui per molto tempo i film sono stati proiettati su schermi più grandi è il fatto che in quelle sale ci potevano stare molte più persone tutte insieme. Ma se non serve più mettere così tante persone in un posto solo perché i modi per vedere i film sono aumentati, allora è così che deve andare. Ed è molto, molto triste.
Questa intervista è stata pubblicata su Variety