Se pensi a musicisti da cinema italiani, la memoria evoca soprattutto due nomi: Ennio Morricone e Nino Rota. Ma c’è un nome forse di glamour diverso, ma altrettanto nobile: Alessandro Cicognini (1906-1995). Parto da un primo segnale, non banale: ha composto la colonna di quello che viene considerato il più grande film italiano di sempre, opera d’arte assoluta, Ladri di biciclette. Ho detto “primo segnale”. A seguire, altre decine, e nessuno banale. Pescarese, dà subito segnali di talento precoce impressionante, se a 13 anni gli esercenti lo chiamano ad accompagnare al piano i film muti. E dunque il cinema non può che essere nel suo destino.
Il momento decisivo, della grande svolta, è il 1946, quando Vittorio De Sica gli affida la musica di Sciuscià. Il film consegnerà al regista il primo dei suoi quattro Oscar. Naturalmente ne guadagna l’immagine del compositore, che ormai è riconosciuto anche oltreconfine. Il 1948 è l’anno di Ladri di biciclette, altro Oscar. Vale una digressione. Il film di De Sica, in ditta con Zavattini, Suso Cecchi d’Amico e altri, è forse il manifesto esemplare del genere cosiddetto del neorealismo, include tutti i suoi codici che prendono vita dal dopoguerra: esterni spesso a mostrare le distruzioni belliche, la povertà, la disperazione delle classi popolari, gli espedienti per la pagnotta, il desiderio di rimuovere il passato, la speranza seppure nebulosa di un miglioramento. E poi, altro segnale distintivo decisivo: gli attori non attori, ma gente della strada. Dunque realismo, verità, documento. Cicognini venne chiamato a dare musica e suono a tutto questo. Compose arie di grande impatto e si può dire di onomatopeia. Tanto da arricchire di molti punti di potenza la vicenda. Il filo d’oro della ditta De Sica & Cicognini continuerà attraverso altri titoli eroici del cinema non solo italiano: L’oro di Napoli, Miracolo a Milano, Umberto D., Stazione Termini, Il giudizio universale. È legittimo dire che Cicognini sta a De Sica come Rota e Morricone stanno a Fellini e Leone.
Il neorealismo può avere questa lettura: eravamo i più bravi del mondo, insegnavamo a tutti. Cicognini era la sua colonna sonora. Non è roba da poco. Ma ci sono altri due segmenti fondamentali nel nostro cinema. Il musicista venne chiamato da Comencini, che stava preparando la magnifica trilogia di Pane, amore e… Era sempre l’istantanea di un Paese povero, ma non infelice. De Sica attore, la Lollobrigida, e poi Sophia Loren sapevano vivere con poco, anzi pochissimo, ma prendevano la vita così come veniva. Le frasi musicali che Cicognini compose aderivano alla perfezione, accompagnavano e davano altra forza alla vita semplice della provincia rurale italiana. E poi Don Camillo. Davvero un esercizio non semplice per un musicista. Dovevi raccontare, ancora una volta, la vita di provincia italiana, accordarla con la passione politica del rivoluzionario sindaco comunista Peppone, con la mistica concreta e battagliera di Don Camillo. E poi affiancare la trascendenza di un crocefisso che dice la sua dall’alto dibattendo con Don Camillo.
Alle ultime generazioni i titoli e i nomi fatti non sono così familiari. Ma nel difficile momento che viviamo, ai “domiciliari”, la televisione manda e rimanda film senza una logica di generi e di epoche. Così puoi assistere a un Ocean’s Eleven e subito dopo, sulla stessa rete o su un’altra, a un Pane, amore e… o a Ladri di biciclette. Nei miei corsi, non manco mai di segnalare il passato. E molti studenti, che subito saltavano il canale incappando in un bianco e nero, adesso ci si soffermano. E prendono atto che il cinema non comincia con Pulp Fiction. Propongo un momento certo reperibile sulle tante piattaforme. La sequenza finale di Don Camillo e l’onorevole Peppone. I due sono in bicicletta e subito diventano competitivi, come d’abitudine nella vita. Si sorpassano a vicenda, ce la mettono tutta. Ma continuano a modo loro, a volersi bene. E Cicognini li accompagna con quella sua musica, felice e ricordabile.
L’affermazione sembrerebbe perentoria e provocatoria, magari indecente. Ma è subito spiegata. L’anomalia sta nel colore. In Ladri di biciclette, Antonio e suo figlio Bruno percorrono Roma, quella Roma del primo dopoguerra, nelle strade passa una macchina ogni cinque minuti, la periferia è ferita e umiliata nei suoi muri e nel poco verde, Trastevere non è quella turistica della nostra epoca, le insegne dei negozi non sono vivaci, i due camminano sul lungotevere, passano davanti allo stadio, entrano nella confusione di Porta Portese. Il tutto nel grigio costante del bianco e nero. Ma nella realtà il Tevere è marrone, le insegne hanno colori magari sbiaditi, i muri possono non essere tutti grigi, così come gli indumenti di Antonio e Bruno. Porta Portese brilla dei colori dei telai delle biciclette. Il manifesto di Gilda che Antonio attacca al muro è sfavillante dei colori di Hollywood.
Il bianco e nero, che tradisce la cromatica della realtà, diventa di fatto intervento concettuale. Concettuale significherebbe un’azione dell’artista che agisce sulla sua percezione per la rappresentazione del soggetto, evolvendo, rileggendo, a volte stravolgendo il senso figurativo, reale, del master. Il bianco e nero rispetto alla realtà del colore è certo un intervento che destruttura e ripropone. È forte e decisivo, trasferisce l’opera nel concettuale. Ma c’è dell’altro: la musica. Quasi tutto il film è attraversato dalla colonna sonora di Alessandro Cicognini, maestro vero che arricchisce il racconto di tanti punti di sentimento e di efficacia che sostengono e “truccano” il reale. La musica è un altro elemento, forte, concettuale. E così, in chiave di purismo e di assoluto, di realismo appunto, accoglierei con grande piacere e curiosità l’esperimento di togliere a Ladri di biciclette il bianco e nero e la musica. È un’opera così essenziale e pura, così pregna di poesia di suo, che vivrebbe di una luce ancora più forte. Dico che non sono interessato all’accoglienza, che sarà pessima, di questa mia idea da parte degli specialisti. Sarei molto interessato, questo sì, all’opinione di Vittorio De Sica.