Quando la colf le chiede lo stipendio perché ha bisogno dei soldi per pagare l’affitto, Valeria Bruni Tedeschi risponde: «Abbiamo tutti bisogno». A rispondere in realtà non è Valeria ma Mariagrazia, la madre di famiglia degli Indifferenti di Alberto Moravia che tutti abbiamo letto (non sto a ripetere la trama) e che torna ora in questa nuova versione per il cinema, cioè per lo streaming a casa: il film, diretto da Leonardo Guerra Seragnoli, esce in digitale il 24 novembre sulle solite piattaforme on demand. Ma solo Valeria poteva dare a quelle parole un tale misto di levità, egoismo, aridità, candore, cioè quello che fa quasi sempre nei suoi numeri da equilibrista affilata e spericolata. Dice Bruni Tedeschi, durante la conferenza stampa virtuale che precede la nostra breve ma intensissima (con lei sempre) chiacchierata, che il film non l’ha ancora visto, «aspettavo di vederlo in grande». Dice anche: «L’altro giorno mio figlio di sei anni e mezzo voleva un libro nuovo, gli ho detto che le librerie sono chiuse perché non vendono beni di prima necessità, e lui: “Ma i libri sono importanti”». Pare la scena di un film scritto e diretto da lei medesima.
Ecco, è ovvio che questo Indifferenti è stato pensato e prodotto senza tenere conto che sarebbe successo quel che poi è successo, però non è un caso, mi dicevo guardandolo, che esca proprio in questo periodo in cui molti di noi tornano ai vecchi libri, ai classici, come fossero un appiglio, un posto sicuro.
C’è un grande bisogno di rileggere i classici, sì. E, da parte delle famiglie rinchiuse in casa, c’è bisogno secondo me di vedere film sulle famiglie. Quando mi hanno detto che il film andava direttamente sulle piattaforme, ho avuto questa sensazione, come la visione di una bombola di ossigeno che arrivava nelle case.
Ma quella degli Indifferenti è una famiglia terribile!
È un film doloroso, certo, e scorretto, e con una specie di violenza che però può essere catartica. Vedere la propria realtà deformata e ancora più violentemente rappresentata a volte può fare del bene.
Qual è il più bel film sulla famiglia? A parte i tuoi, intendo.
Forse i film di Bergman, Fanny et Alexandre, Scènes de la vie conjugale… i titoli li so in francese. E i film di Woody Allen, ecco, quelli mi fanno un grande effetto catartico.
Perché, e lo chiedo a te che sulla borghesia ci hai fatto dei capolavori, in Italia c’è sempre questa resistenza a raccontarla, la borghesia, come se non ci si fidasse di chi la mette in scena?
Forse è vero, in questo Paese c’è, ma non mi rendo tanto conto… In realtà anche in Francia c’è l’idea che nei film è sempre meglio parlare di altre classi sociali. Si pensa sempre che i film che parlano della borghesia non siano così politicamente corretti, come se, per essere ben accettati, bisognasse fare film su qualcos’altro. Ma non voglio fare attenzione a questi pensieri. Credo che dobbiamo fare i film che parlano delle cose che ci interessano, che ci ossessionano.
In Moravia cos’hai ritrovato?
Tutti i dettagli che mette, ho pensato che fortuna che ha un attore quando può leggere il romanzo dove c’è il personaggio che interpreta. Rileggevo Gli indifferenti e vedevo la descrizione di Mariagrazia e di come si stropiccia le mani piene di anelli, quelle mani sono descritte meravigliosamente, ancora adesso mi struggono, mi commuovono, mi fanno pena. E, come attrice, le ho fatte diventare come dei gesti simbolici, cioè quei gesti che un attore fa e dà al personaggio ma che spesso sono personali, segreti. Magari c’è un primo piano e le mani neanche si vedono, ma sono gesti che io facevo lo stesso, perché mi collegavano direttamente a un’emozione molto profonda: l’insicurezza di Mariagrazia.
C’è una cosa bella che dice quando è mascherata per la festa finale: «Sono buffa, ma non ridicola». Che, pensavo, è un po’ lo stato di molti dei tuoi personaggi, e anche di te stessa sullo schermo.
Io però penso che Mariagrazia si senta ridicola, anche se dichiara il contrario. Ha una grande sfiducia in sé stessa. Su di me, invece, penso che il ridicolo bisogna accettarlo, perché l’essere umano è ridicolo per natura, e questa non è una cosa da rifiutare, ma da accogliere.
Al di là della sofferenza, questi tempi che stiamo vivendo sono più ridicoli, o brutti, o cosa?
Ma no, c’è sempre uno spiraglio. Nell’amore c’è sempre uno spiraglio. Sta sempre lì, nell’amore, ed è un po’ una banalità, però la penso.
Che cos’è il conformismo?
È una pigrizia, il non ricercare la propria verità, la facilità del voler apparire come gli altri.
E la noia?
La noia è l’angoscia. Anzi, è una coperta dell’angoscia. È quando uno è così angosciato che non può neanche provarlo o ammetterlo, e allora pensa che si annoia. Ma in realtà non è che si annoia, è depressione, è angoscia.
Questo periodo ti annoia? O ti angoscia?
Io sto lavorando – a cose vecchie, non mi è venuta nessuna nuova idea in questo confinamento – dunque non mi sento nella noia. Però mi sento nell’angoscia. Non ho questa abitudine di mascherare la mia angoscia con la noia e di essere così, un po’ depressa… No: io sono proprio chiaramente, francamente ansiosa e angosciata.
Ho fatto una lunga chiacchierata con tua sorella Carla, finalmente nel suo nuovo disco c’è un duetto, Voglio l’amore, in cui cantate insieme. Cioè, tu fai più una cosa alla Alberto Lupo con Mina, un intervento da attrice.
Sì, io non ho cantato. Sono andata là per salutarla mentre lei registrava il suo disco, e mi ha detto: vieni, prova a fare qualcosa anche tu… Ma io non cantavo, era come se recitassi, e mi sono molto divertita. La canzone la trovo stupenda, al di là del fatto che l’ha scritta mia sorella. Spero tanto che faremo un videoclip insieme, io e lei.
Dici nel pezzo: «Voglio sentire il precipizio e la vertigine». Che cosa sono il precipizio e la vertigine?
(Ci pensa a lungo) Essere a bordo del precipizio è quello che succede di fronte all’amore. Quando uno si innamora, deve accettare il pericolo. Sempre.